La
banalizzazione di una delle strofe più cariche di tensione del
Baghavadgita - la decima del primo canto - è un tipico esempio degli errori che si producono in filologia quando una non necessariamente
modesta capacità linguistica non è sorretta da sufficiente "acume" critico, quando cioè il desiderio di brillare sempre e comunque, di porsi a tutti i costi in mostra, fa scendere nel campo
azzeccapastrobubbolesco della filologia un qualsiasi ultimo editore che voglia confrontarsi col già detto - e detto e ripetuto erroneamente.
Così non c'è nessuna ragione di ritenere corrotto il testo tradito di questo passo del
Gita, o del suo parallelo nella tradizione separata del sesto parvan del
Mahabharata (6.10.1-2):
अपर्याप्तं तद् अस्माकं बलं भीष्माभिरक्षितम् /
पर्याप्तं त्विदम् एतेषां बलं भीमाभिरक्षितम् //
Sono state proposte le più disparate interpretazioni, forzato il "genio" del sanscrito (
"quello" tradotto con
"questo" e viceversa), dato un significato artificioso a
pariapta (
limitato invece che s
ufficiente,
all'altezza,
uguale a), elaborate interpretazioni così fantasiose, così poco concrete che a volerle ammettere sarebbe permesso, in filologia, qualsiasi intervento, far dire tutto e il contrario a un autore. E basterebbe, a titolo di esempio, riportare l'incomprensibile traduzone di Winthrop Sargeant, che per il resto è sempre o quasi sempre puntuale:
sufficient is that force of ours guarded by Bhīṣma;
insufficient though is the force guarded by Bhima.
I primi mal di pancia iniziarono in realtà quando più di un antico commentatore indiano si accorse che le
forze militari di Duryodhana (il personaggio che in questi due
śloka parla) erano di gran lunga superiori a quelle degli avversari, dei figli di Pāṇḍu.
Impossibile, quindi, secondo i più, che Duryodhana voglia intendere che le sue forze siano "non sufficienti", non all'altezza degli avversari; o che nel farlo non si accorga di
compromettere il morale degli uomini. Il quale Duryodhana, per essere precisi, sta parlando
non all'intera armata
ma al loro
maestro d'armi, al valoroso Drona, lo stesso che ha addestrato i guerrieri schierati sotto i loro occhi (ma se pure parlasse all'intero esercito non farebbe nessuna differenza).
Il passo, di una cristallinità disarmante, continuò a suscitare interesse nella critica moderna. Perfino uno studioso del calibro di van Buitenen cadde in questa ridicola trappola, in un vecchio articolo del Journal of American Oriental Society. Basandosi su un commento di Vedāntāde
śika a Ramanuja
e citando un manoscritto saradico e un commento di Bhaskara il Vedantino, arrivò a
vedere nella tradizione di questo passo un'inversione dei nomi che compaiono nei due versi: in
altri termini,
al posto di
Bhīṣma si dovrebbe leggere
Bhīma e al posto di
Bhīma Bhīṣma. Che non è altro, in sostanza, che il capovolgimento del
criterio pirincipe della critica testuale, il criterio dell'autorevolezza della
lectio difficilior (rendere al contrario tutto più semplice e accontentare una
logica dei presupposti).
C'è da dire che van Buitenen dedica solo le prime pagine alla questione, ammette che il passo è
apparentemente adamantino, "seemingly transparent", e propone la sua versione, che in qualche modo, e indirettamente, riesce a far quadrare, si avvicina al senso più ovvio:
that army guarded by Bhima is not equal to us;
on the other hand, this army, guarded by Bhīṣma is equal to them;
per il resto si dedica a problemi più interessanti: ai
rapporti codicologici tra le due differenti tradizioni - il
testo separato del Baghavadgita, e lo stesso testo contenuto nel
Mahabharata. Perfino la critica contemporanea continua a battere sul seminato,
sull'erba cattiva (tra gli antichi soltanto giustamente Sankara, il
filosofo, non s'è sognato di commentare la giustezza di questi versi, ma
forse, anzi sicuramente, in lui giocavano altre ragioni, il fatto che
questa prima sezione del Gita non presenta interessi dottrinali).
Le confusioni e gli errori in filologia nascono sempre da un'interpretazione del testo avviata non sulla base
di una nozione di
uso, e di possibili
usi linguistici che sfuggono alla norma, o non
immediatamente "propri" di un particolare autore, o sulla base di
considerazioni di natura estetica, ma seguendo una
logica
normativa, di
attese non pienamente soddisfatte - e non soddisfatte il più delle volte perché l'autore a tutto pensava meno che a soddisfare
l'idiozia di un critico. Dove sarebbe d'altronde l'onnipresente ironia del
Gita (vedi ad esempio la strofa 41 del primo canto, le
donne corrotte, che coi loro figli illegittimi creano disordine nelle caste, un
timore inevitabilemente ironico di Arjuna, dal momento che né lui né i suoi fratelli sono esattamente figli di Pāṇḍu; e ancora nelle strofe 20-23, l'immobilismo di Arjuna, che se da un lato chiede a Krishna, il suo auriga, di piazzargli il carro in mezzo alle due armate, è poi incapace di agire e scegliere tra due forze opposte ecc.), dove finisce il
capovolgimento artistico? e per quale motivoDuryodhana, che è senza dubbio un valente militare, e dispone di un numero superiore di soldati, avrebbe dovuto
riaffermarlo,
e vantarsene addirittura col suo maestro: dichiarare una simile banalità se non per attirarsi
addosso un'accusa di superbia e vanagloria? E dove sarebbe l'
attesa non del critico ma del
lettore o dell'
ascoltatore,
se crede che i giochi siano già fatti visto che Duryodhana è superiore all'avversario? E in effetti lo dice: afferma che le sue forze
sono superiori ma per capovolgerne immediatamente l'assunto: che non si sente cioè
affatto superiore. In cosa dovrebbe consisterebbe l'
eroismo se si
combattesse contro un avversario ritenuto inesistente?
Sarebbe bastata questa semplice considerazione di natura
estetica (pur lasciando fuori ogni considerazione sintattica)
a tagliare la testa al toro. Una confusione che nasce da una
visione banalizzante
delle cose. E la
questione era semmai come rendere il termine chiave पर्याप्त्म् (paryāptam), e la sua negazione, आपर्याप्त्म्
(aparyāptam), posta in
opposizione all'inizio del verso
precedente. E inoltre, in che funzione intendere बलम्
balam (forza - all'accusativo, non al nominativo, come si è sempre erroneamente inteso), il quale (cosa a cui nessuno ha mai pensato) è un semplice
accusativo di
relazione - o dipendente da un participio sottinteso (
di noi che abbiamo una
forza sorretta da Bhishma) - vedi su questi usi dell'accusativo ad esempio il secondo canto, anche qui un accusativo neutro, all'interno, tra l'altro, di un tipico
composto bahuvrīhi:
अश्रुपूर्णाकुलेक्षणम् - laśrupūrṇākulekṣaṇam (2,1)
l'occhio abbattuto e pieno di lacrime
o nel terzo libro, le parole di Krishna a Arjuna, quando lo invita a sottostare all'
inevitabilità dell'azione:
नियतं कुरु कर्म त्वम् - nyata
ṁ kuru karma tva
m (3,8)
sottomesso, agisci!
dove sottomesso (नियतम्) è ovviamente, anche questo, un accusativo.
Lo stesso vale - riandando al primo canto - per il secondo verso della strofa (
di loro
che hanno una forza sorretta da Bhima)
. E così
तद् (tad - quella), e
इदम् (idam - questa) staranno bene al loro posto e continueranno a significare quello che hanno sempre significato e non l'opposto.
Insomma i du
e śloka vanno intesi:
Non è uguale, quella, a noi: una forza (la nostra) guidata da Bhishma
eppure è uguale, questa, alla loro: una forza (la loro) sorretta da Bhima
E
il senso è che Bhima non solo non è inferiore a Bhishma (come afferma Edgerton - "unskilled") ma anzi, per il fatto che sia lui a guidare le forze dei figli di Pāṇḍu, pone questi, seppure in numero inferiore, all'altezza degli
avversari.