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sabato 27 aprile 2013

I premiati cementifici anonimi




                            Giacomo Guardi - arco in rovina

Una volta ero con un’amica italiana, professore di filosofia in America, facevamo una passeggiata in mezzo alle rovine di Roma (due nomi che sembrano allitterare meravigliosamente). All'improvviso, con la sua bella voce profonda, indignata dalla tanta rozza presunzione dell'attuale modernità e affascinata dall'antichità traboccante di suggestioni in mezzo alla quale eravamo, esclama: “guarda tu che cosa hanno saputo lasciarci questi!”, e lo ripeté una seconda volta, ma questa volta accorata: “che cosa non c’hanno lasciato!” Io stavo per dirle: “C’hanno lasciato le rovine!” Ma non lo feci, non volevo distruggerle quell’attimo d'emozione che le veniva da un “apprendimento fenomenologico delle cose”, come lei lo chiama.

E' passato solo qualche anno, eppure, nonostante continui a preferire il moderno all'antico, mi viene di tanto in tanto da capovolgere tutto: mi viene da credere che due solide pietre da costruzione del primo secolo dell'era pagana, ideate e lavorate per rispondere a un salutare principio di ordine, riescano forse a dare anche oggi veramente più emozione di tutta quest’anarchia incontrollata dell’architettura contemporanea, di cui sono un cultore, ma i cui materiali, i cui elementi costruttivi escono dalle officine uno uguale all’altro. Non me n'ero mai accorto. Agli antichi sarebbero sembrati degli incredibili cloni di una stessa pianta. In greco clone significa appunto germoglio.