על נהרות בבל שם ישבנו גם־בכינו בזכרנו את־ציון׃
Sui fiumi di Babilonia sedevamo e piangevamo al ricordo di Sion.
Così hanno fatto i "grandi" della Terra, come li chiamano i giornali provinciali italiani (Corriere e Repubblica - Huffington Post Italia, sottomarca del liberalismo pseudo libertario, non è nemmeno da prendere in considerazione, se non come possibilità di ottenere una credit card prepagata). Così hanno fatto invece i piccoli della terra, rappresentati giustamente da gnomi in tailleur e giacca e cravatta, sulle ceneri di Charlie Hebdo: hanno sicuramente intonato l'inizio del Cantico di Sion, del più famoso dei salmi delle lamentazioni.
Ci sarebbe da dire che il testo l'ebraico non ha "e", come ho tradotto, ma "anche" (גם - gam). E' in posizione estremamente ambigua - estremamente perché è agli estremi di due proposizioni correlate: un nesso, sembrerebbe, paratattico ("questo e questo": sedevamo e piangevamo). Ma potrebbe riferirsi a quanto precede: sedevamo anche, cioè: anche sui fiumi di Babilonia sedevamo (dopo esserci seduti altrove). Oppure a quanto segue: piangevamo anche (oltre a essere seduti, piangevamo), e potrebbe addirittura indicare enfasi, come in alcuni suoi usi nel Vecchio Testamento, a introdurre un climax, un crescendo, uno stracciarsi le vesti, uno strapparsi i capelli, un graffiarsi e rigarsi i volti: sui fiumi di Babilonia sedevamo, sì (proprio così): piangevamo eccetera"
Tutti sensi che si adattano benissimo alla congrega di pidocchi della terra che si sono riuniti a Parigi
(ad esempio: e piangevamo anche, mentre rispondevamo al cellualre; oppure piangevamo anche mentre peteggiavamo in silenzio; oppure: piangevamo anche mentre speravamo, noi amebe, di essere visti dal mondo eccetera; oppure nel primo caso: anche lì sedevamo, dopo esserci seduti a tutte le inutili tristi celebrazioni e messe di suffragio.
Grazie al cielo l'orazione di Pericle per i caduti della guerra archidamica è andata perduta: doveva essere di una noia mortale a giudicare dalla ricostruzione di Tucidide: roboantica celebrazione della sua testa a forma di ogiva (per quanto Pericle fosse un gigante in confronto a queste caccole).
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martedì 13 gennaio 2015
mercoledì 21 maggio 2014
l'effimero sesso degli insetti
Domandavo anni fa a un amico a cui piacciono molto gli uomini: “Ma
tu sapresti dire, guardandolo semplicemente per la strada, se uno ce l’ha grosso o piccolo?” “Certo”, fa lui. “E come?”, dico. “Basta vedere
martedì 9 luglio 2013
Gli uccelli di Aristofane e i giornali italiani
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Non ho molta
dimestichezza con la politica italiana e non conosco i nomi dei politici
italiani, salvo quelli di due o tre più famosi leader di partito e soltanto
perché se ne parla sui vari giornali on line, dove si strombazza il tutto e il
più di tutto, cioè il niente. E così oggi sono entrato dopo tanto tempo in uno
di questi siti di giornali cosiddetti pappagallo: quei giornali che nascono
a imitazione di
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giovedì 2 maggio 2013
Amor ch'a nullo amato
Mi viene da pensare che (conoscendo come vanno le cose nel mondo) è sempre vero che in amor vince chi fugge, non c'è possibilità di errore. Che si tratti cioè di una di quelle leggi
della psicologia umana che restano oltretutto inalterate nel tempo. Quello che invece non sappiamo è se, parlando dell'amore di Dio, nel senso di amore che si ha per Dio, valga la stessa
legge. Chiunque provi questo tipo di amore dovrà aspettare, sperare: e speranza significa in latino, come anche in greco, attesa; di sicuro al termine di una lunga attesa sarebbe
non facile, non bello, dover prendere atto che chi è fuggito dal divino, così come sulla terra, ne abbia al contrario conquistato l'amore e che questa legge non solo è universale ma ci si conforma anche il creatore dell'universo. E si potrebbero far rientrare, nei discorsi sull’amore, anche le tante riflessioni, odierne o passate, sull'amor di patria: il nemo propheta in patria - questione non da poco - è un esempio di come
la stessa legge dell'amore dei sensi valga anche nell’etica. Andocide, famoso personaggio dei
tempi di Pericle, di qualche anno più giovane di Alcibiade, venne colpito da una serie di disgrazie civili, una dietro l’altra, con vari esili tutti documentati, e ogni volta cercò di rientrare ad Atene, provò a riconquistarsi sempre senza troppo successo l’amore della sua città.
Laocoonte, copia in porcellana - foto LuciusCommons
Devo ammettere non ho mai avuto molta simpatia per questo personaggio - e forse più che per l’uomo, per ciò che ancora oggi il suo più conosciuto gesto può moralmente significare, se è ormai appurato che per salvarsi da una condanna a morte denunciò dei "presunti" colpevoli nel famoso scandalo delle erme. Dice Andocide, nella celebre orazione detta Sopra il suo ritorno, parlando agli ateniesi e tentando di dimostrare che il suo amor di patria era sincero: “mi accorsi a un certo punto che la cosa migliore per me era di restarmene lontano e comportarmi in maniera tale da farmi vedere il meno possibile”. Non gli andò bene. Gli ateniesi fiutarono la malafede, un falso nascondersi, un falso fuggire. Il fatto curioso, nel caso di Andocide, è che se pure lo vediamo nutrire speranze, “aspettative", non doveva mancargli un certo ironico senso del reale. Quel suo farsi vedere il meno possibile si sarebbe rivelato il suo più vero destino; e dopo il definitivo esilio mi pare nel 392 se ne perdono definitivamente le tracce, non si saprà più niente di lui. Così, questo essere fuggito per sempre gli è giustamente valso in seguito, in epoca alessandrina, l’amore e la stima della sua nazione se fu inserito nella lista dei dieci più importanti oratori attici, anche se venne messo all’ultimo posto.
Laocoonte, copia in porcellana - foto LuciusCommons
Devo ammettere non ho mai avuto molta simpatia per questo personaggio - e forse più che per l’uomo, per ciò che ancora oggi il suo più conosciuto gesto può moralmente significare, se è ormai appurato che per salvarsi da una condanna a morte denunciò dei "presunti" colpevoli nel famoso scandalo delle erme. Dice Andocide, nella celebre orazione detta Sopra il suo ritorno, parlando agli ateniesi e tentando di dimostrare che il suo amor di patria era sincero: “mi accorsi a un certo punto che la cosa migliore per me era di restarmene lontano e comportarmi in maniera tale da farmi vedere il meno possibile”. Non gli andò bene. Gli ateniesi fiutarono la malafede, un falso nascondersi, un falso fuggire. Il fatto curioso, nel caso di Andocide, è che se pure lo vediamo nutrire speranze, “aspettative", non doveva mancargli un certo ironico senso del reale. Quel suo farsi vedere il meno possibile si sarebbe rivelato il suo più vero destino; e dopo il definitivo esilio mi pare nel 392 se ne perdono definitivamente le tracce, non si saprà più niente di lui. Così, questo essere fuggito per sempre gli è giustamente valso in seguito, in epoca alessandrina, l’amore e la stima della sua nazione se fu inserito nella lista dei dieci più importanti oratori attici, anche se venne messo all’ultimo posto.
domenica 14 aprile 2013
Quando l’insulto era una tecnica
Ho citato in un precedente post (gay se fa comodo) Eschine e Demostene, che si fronteggiarono nel più famoso
processo politico dell’antichità - il più famoso perché uno dei due oratori era
Demostene. E ci sono rimaste, grazie al cielo, le due arringhe tenute in quell’occasione:
quella di Eschine, che parlò per primo, e quella di Demostene, che si alzò e
salì in tribuna a parlare subito dopo. Eschine cosparse il suo particolareggiato intervento politico di offese e parolacce. Demostene inizia a parlare tranquillamente, difendendo
la sua politica estera: il tono pare sommesso anche
se energico, icastico, come è tipico di Demostene, della sua lingua, del suo greco, dei suoi interventi fin dall'inizio:
ma poi improvvisamente, a un terzo del discorso, inizia a infilare qui e là qualche parolina: comincia a chiamare (e ancora come se pensasse ad altro) comincia a chiamare Eschine “questo
sicofante”, poi ancora dopo un certo intervallo “questo miserabile” ... nemmeno te ne accorgi, sembra quasi che non se lo stia “cagando”, che non lo stia "pisciando": ha parlato finora della
sua politica vera, senza quasi mai menzionare l'avversario. Che però di sicuro temeva questo momento: il momento in cui Demostene gli fa capire che sta per puntare impietosamente su di lui i suoi riflettori, cioè la sua lingua. Non ti accorgi di quelle paroline (sicofante,
miserabile) eppure te ne accorgi: lasciano già il segno, perché appaiono dal
niente in quella sorta di mare calmo che il suo intervento era apparso fino a quel momento. Poi
di nuovo, improvvisamente, dopo essersi rivolto ai giudici, dopo aver detto che non è sua abitudine ricorrere
all’offesa nonostante ne sia stato il bersaglio, dice ancora qualcosa sottovoce, che sarà solo l’inizio di uno spaventoso
crescendo di una tempesta verbale senza eguali, di cui alle migliaia di persone che
non erano riuscite a entrare in tribunale e erano assiepate all’esterno dovette arrivare l'eco. “Ma tu”, dice Demostene, il tono ancora pacato, “scarto umano, e la tua famiglia, cosa c’entrate con la virtù? Con quale diritto parli di cultura? dove e come hai meritato tale diritto? (traduco
un po’ a mente sul ricordo che ho di questa orazione che ho letto spesso). Pur
non avendo (si noti il tono relativamente tranquillo se confrontato col ritmo della "rabbiosa" offensiva personale che seguirà)
nessuna difficoltà a trovare argomenti, mi sento in imbarazzo su cosa ricordare per primo. Il fatto forse che tuo
padre, il signor Cagonis, con il giogo al collo e i ceppi ai piedi fosse
schiavo nella casa di Elpia, quello che insegnava l'alfabeto? O che tua madre mentre
in pieno giorno la dava in una sudicissima stamberga e nella stessa stanza allevava te, bambolotto e attore di terz’ordine?” Queste cose non potevano non andare a segno se il
padre di Eschine -che non era uno schiavo ma s'era comunque impoverito - s’era effettivamente a insegnare, e anche se
la madre, che non era una prostituta ma veniva da una famiglia di sacerdoti, era la moglie del padre di Eschine. Questo
è ancora, come ho detto, soltanto l’inizio. Il seguito vedrà un
Demostene ormai scatenato annientare con argomenti politici completamente il suo povero avversario.
Mi viene in mente una poesia di Monti, La prosopopea di Pericle. A un certo punto, il
busto di Pericle dice, in mezzo agli altri pezzi archeologici di Villa Adriana:
... là sollevarsi d’Eschine
La testa ardita e
balda
Che col rival
Demostene
Alla tenzon si scalda
…
Ed è ovvio che accennando appena al rivale, dando l'impressione di voler dare più
importanza a Eschine, Monti finisca per ottenere l'effetto contrario: puntare i riflettori su Demostene: "una belva", come Eschine stesso, secondo un certo racconto, l'avrebbe definito dopo la sconfitta. Una belva sempre in agguato.
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