lunedì 29 settembre 2014

l'articolo 18 e il pupazzo nella storia italiana

C'è un posto dove vado ogni tanto, è piena campagna, si cammina tranquillamente lungo sentieri che tagliano folti querceti, e c'è ancora, a ricordarsi bene i posti, qualche sorgente d'acqua purissima. Incontri solo, lungo questi tratturi, vecchi contadini, o vecchie braccianti che ormai si muovono solo per farsi visita reciprocamente. E ti ci fermi a parlare, si ricordano di te, di quando eri ragazzino e ti arrampicavi sugli alberi, e ti invitano a casa, e  ti regalano qualcosa dal loro orto, e resta sempre quel pudore, quella modestia che in effetti avevo conosciuto in loro quando ero piccolo.  Un pudore e una modestia codificati, si capisce.

L'esatto contrario dell'immodestia farcita d'ignoranza e incultura che si legge sul volto (ma dovrei dire sulla maschera tetra) di Matteo Renzi, un semplice figlietto di papà che non ha mai conosciuto il lavoro duro dei braccianti, dei contadini e contadine, e degli operai, non ci ha riflettuto, che non si è mai fermato a osservare la mano di un operaio che si è visto tranciare tre dita in fabbrica. Insomma, gente che al contrario di lui (o di personaggi come Ferrara, Mentana, Annunziata, Floris eccetera)  per vivere ha dovuto sputare sangue. Conosce solo gli studi televisivi. E questo squallido personaggio del tipo "son tutto mi", con il suo dinamismo da tre soldi che lo rende non giovane ma vecchio come una statua di gesso, come il mondo della retorica a cui appartiene, riverito e servito sicuramente fino a trent'anni da buon bamboccione a casa di papà e mammà, tutto quello che può fare, ignorando i presupposti, è mettere mano, spacciandosi per riformista dell'ultima ora, all'articolo 18, conquista sacra dei lavoratori. Delle lotte dei lavoratori.

C'è un personaggio di un mio romanzo, un poliziotto, che un attimo prima di essere arrestato, incastrato da un manipolo di magistrati e comorristi, disilluso, sta leggendo un libro, un saggio: Il pupazzo nella storia italiana.

Il pallone, la cesta e la storia dell'umanità in festa

La storia dell'umanità in festa, tuttosommato, oltre a quanto già detto, non è altro che la storia della palla e della cesta. C'è anche una canzone che un gruppo di ragazzi veneti cantava in pulman andando a giocare a pallone, in un vecchio film di Franco Brusati:

Sai perché le donne ci fan festa?
Perché noi glielo mettiamo in cesta ...
E perciò si fa a pallacanestro eccetera eccetera

domenica 28 settembre 2014

Iella, schiavitù, tortura

Rotta, nel senso di percorso di una nave, di un aereo, non va bene: sembra messo lì apposta per portare iella. E nemmeno tratta va bene: ricorda lo schiavismo, le tratte dei neri, i mercanti di carne umana, quando non fa venire in mente l'antica tortura:

fattolo legare alla colla, parecchie tratte delle buone gli fece dare (Decamerone, seconda giornata, novella 1).

Come ti giri, quindi, ti giri male.

 

venerdì 26 settembre 2014

Renzi, Camusso e i lupi di Libanio

Tra Renzi e Camusso non ci sarebbero dubbi tra chi sceglierei, dal momento che passerei ore e ore a parlare con degli operai (e se anche Camusso non è un'operaia ha sempre l'aspetto di una combattente) mentre rifuggo come il diavolo l'acqua santa intellettuali, politici e parolai di ogni risma, la maggior parte dei quali, compreso Renzi, non hannmo mai preso una cazzuola in mano nemmeno per tappare un buco.

E sempre parlando di Libanio, citato nell'ultimo post - maestro di retorica dei tempi di quel bigotto persecutore dei pagani che fu Costanzo II (e amico del più colto Giuliano l'Apostata) - mi viene in mente, a proposito di questi scontri tra il sedicente riformista Renzi e la CGIL (i suoi mirati e rozzi attacchi al più grande sindacato dei lavoratori), mi viene in mente uno degli esercizi dei suoi progymnasmata, la raccolta che doveva servire agli studenti dell'epoca per fare pratica di composizione greca. E siccome avevo tradotto questa favoletta per divertirmi parecchi anni fa, la ricopio qui tale e quale, per non dimenticarmi di quello che facevo, di come la pensavo e di come su un certo tipo di personaggi continuo a pensarla.

I lupi chiedevano alle pecore pace e serenità e “questo giorno”, dicevano, “sarà l’inizio di cose meravigliose, per voi e per noi, e tutti insieme, liberandoci di tante nostre guerre e di tutti gli altri mali, sarà possibile muoverci pacificamente gli uni accanto agli altri. Facciamo quindi un trattato. Ma se vogliamo che sia un trattato sicuro, che non venga infranto appena firmato, bisogna che cacciate via quei canacci rabbiosi e ostili, che anche adesso fanno questo gran casino e sospettano senza ragione di noi poveri lupi. E ci guardano male anche quando ci limitiamo, come capita spesso, a passare semplicemente vicino al gregge: saltano fuori e abbaiano e abbaiano feroci, e altri, che non vorrebbero, ci vengono alla fine ugualmente aizzati contro. Che bisogno avete voi pecore di cani essendoci ormai pace tra voi e noi lupi?”

Le pecore si convinsero – è un animale piuttosto ingenuo – e i cani furono mandati al diavolo. Rimaste sole i lupi se le papparono.

tutti sulla stessa barca: confusione vs ipocrisia

Di quelle noiose competizioni della terza sofistica, nel quarto secolo, che dovevano somigliare sempre più alle conferenze e tavole rotonde attuali, alle relazioni accademiche nei vari convegni, Libanio è indirettamente critico: ma è una critica limitata alle capacità oratorie dell'avversario, il sistema non viene minimamente intaccato. Così nella sua autobiografia (la prima orazione del corpus), a proposito di un altro professore, suo antagonista a Costantinopoli, scrive che non riuscendo il pubblico a capire cosa stesse dicendo, ognuno guardava gli altri più distanti come a chiedersi se fossero tutti sulla stessa barca (συνεῖναι αὐτὸς ἕκαστος οὐκ ἔχων, νεύμασι τοὺς ἀφεστηκότας ἠρώτων, εἰ τὸ αὐτὸ πάθοιεν. I, 41).

Che è quanto succede ancora oggi quando si ha paura di essere l'unico deficiente a non capire cosa stia dicendo uno (o una) che parla in un convegno, in televisione, in un talk show. Anche se alla fine, in qualche modo, sono tutti pronti a battere le mani, pure chi non si sente ideologicamente affine (e la cosa è seria), cioè non si applaude sempre per bontà o per cortesia, o meglio, per ipocrisia, come sembra aver fatto Libanio con questo Benarchio intellettuale dedito alla crapula, cioè allo sgomitamento:

e anch'io, anche se provavo la stessa cosa degli altri, mi sforzavo di conferire, applaudendo, opinione di chiarezza al suo discorso facendo perciò cosa gradita al suo gruppo (καὶ ταὐτὸ τοῦτο τοῖς ἄλλοις ἐγὼ παθὼν σαφηνείας δόξαν οἷς ἐθορύβουν ἐπειρώμην περιάπτειν τῷ λόγῳ χαριζόμενος τῇ φάλαγγι).


Demostene ovvero il comico inconsapevole

Il comico inconsapevole nasce sempre dal rapido contrastarsi di due diverse nature in una stessa persona, o di due diverse situazioni quando una prende improvvisamente il posto dell'altra - differente da umorismo e dalla comicità di chi vuol far ridere, il quale comunque è sempre debitore, imitatore del comico inconsapevole, obbligato al contrasto, se non al contratto.

Così Demostene, che si leggano le sue orazioni e discorsi tra le righe, o si legga quello che altri hanno scritto di lui, appare sempre e comunque un comico inconsapevole. La sua inconsapevole comicità (a parte i sassolini che infilava sotto la lingua per correggere i difetti di pronuncia e altre varie amenità - il rafforzare la voce e i polmoni pronunciando un discorso o conversando mentre correva, costringendo quindi anche il povero interlocutore a correre), lo studiolo che s'era fatto costruire sotto terra per potersi esercitare più tranquillamente, il radersi i capelli per costringersi a non uscire di casa per mesi - la testa rasata era segno di effeminatezza), la sua inconsapevole comicità nasce però più propriamente dal contrasto o conflitto di due nature: da una parte il coraggio della parola, che non aveva eguali (non avrebbe temuto, in questo senso, nemmeno Giove ottimo massimo), dall'altra la facilità con cui al più piccolo pericolo fisico se la faceva addosso. Cosa che aveva in comune con Cicerone, e forse con Cicerone aveva in comune quasi tutto, salvo il significato che ciascuno dava al denaro, più concreto in Cicerone (i soldi per Cicerone avevano il valore che avevano: servivano semplicemente a ottenere oggetti piacevoli: bei mobili, libri, opere d'arte - natura più generosa, a differenza di quanto si dice di Demostene, del suo essere avido).

Non è quindi un caso che dopo essersi ringalluzztio alla morte di Filippo, dopo aver tuonato e essere stato unico, per così dire, e incontrastato attore sulla tribuna del'assemblea del popolo, dopo essere riuscito a rinfocolare gli animi di tutta l'Ellade contro Alessandro, che chiamava sprezzantemente il "ragazzino", dopo aver ottenuto i soldi da Dario per finanziare i tebani contro la macchina bellica macedone, si affloscia in un attimo non appena giungono le prime avvisaglie che Alessandro sta marciando verso Tebe:

ἐπεὶ μέντοι τὰ περὶ τὴν χώραν θέμενος, παρῆν αὐτὸς μετὰ τῆς δυνάμεως εἰς τὴν Βοιωτίαν, ἐξεκέκοπτο μὲν ἡ θρασύτης τῶν Ἀθηναίων, καὶ ὁ Δημοσθένης ἀπεσβήκει, Θηβαῖοι δὲ προδοθέντες ὑπ' ἐκείνων ἠγωνίσαντο καθ' αὑτοὺς καὶ τὴν πόλιν ἀπέβαλον. (Plut., Dem., 23,2) 

Dopo aver sistemato gli affari domestici, (Alessandro)  apparve con le sue forze in marcia per la Beozia, e l'ardore degli ateniesi s'era già spezzato, e Demostene s'era afflosciato (spento): i tebani, traditi così dagli ateniesi, combatterono contro i macedoni e persero la città.

E giustamente Plutarco usa qui il piuccheperfetto, l'ardore degli ateniesi s'era spezzato, e Demostene s'era afflosciato: non c'era stato nemmeno bisogno di trovarselo davanti, Alessandro, di vederlo: era bastata la notizia che s'era mosso.

giovedì 25 settembre 2014

il voyeurismo e la bava del contemporaneo

"così come il contesto richiede in rapporto al soggetto" (ἀλλ' ὡς ὁ ἀγὼν ἀπαιτεῖ πρὸς τὴν ὑπόθεσιν, Plut., Dem, 22, 6).

Il contesto è quello del teatro antico, e comunque una stessa estetica ancora ai tempi di Plutarco, quando il dramma presentato da un autore è immediatamente giudicato dal pubblico in rapporto ad altri drammi in concorso (ἀγών). Non si poteva far piangere o ridere a proprio piacimento i personaggi, era il contesto a deciderlo, così come non si sarebbe potuto far scopare a proprio piacimento, come avviene oggi, gli attori ogni cinque secondi, e trasformare lo spettatore in quel voyeur che per altri versi la società condanna come pervertiti.

Non sarebbe stato possibile nel teatro antico presentare una fiction poliziesca e far vedere ogni cinque secondi un coito (di due poliziotti) che non ha niente a che fare col soggetto, con le indagini eccetera, pena i fischi assordanti del pubblico, che sarebbe stato di conseguenza, se le premesse fossero ancora queste (come sembrano credere e illudersi gli sceneggiatori arrapati), molto più raffinato intenditore di quello di oggi. D'altra parte i fischi oggi, per il pubblico televisivo e internautico, dovrebbero essere stati sostituiti dalle share e dagli share di gradimento, dalle percentuali. Così, alte percentuali di spettatori attratti da un coito dal quale sono esclusi satrebbero a indicare che l'estetica attuale richiede invece proprio questo, che la caratteristica più propria del contemporaneo è il voyerismo e la bava alla bocca.

la nostalgia e l'inferno

Chiunque soffre di nostalgia dopo essersi volontariamente spostato da un luogo vuol dire, quasi sicuramente, che stava meglio quando non stava affatto bene. Se così non fosse non si sarebbe mai allontanato. Di nostalgia d'altronde non sembra soffrire l'usignolo della favola di Esopo, che potrebbe perfino, nel suo nuovo eremo, essere preso quale simbolo dell'antinostalgia, così come apparirebbe nella versione più ampia e più gustosa della favoletta nella collezione in coliambi di Valerio Babrio:

οἶκος δέ μοι πᾶς κἀπίμιξις ἀνθρώπων
λύπην παλαιῶν συμφορῶν ἀναξαίνει 

ogni casa e il contatto con gli uomini
mi riaccende il dolore di antiche disgrazie

Così anche nella Regola di san Benedetto, l'eremo non viene mai consigliato prima di un lungo tirocinio  nella casa comune:

provato a lungo in un monastero (sed monasterii probatione diuturna)

segno che un qualche serio problema di convivenza, nella casa comune, nella vita cenobitica, è sottinteso.

Le conseguenze sono ovvie: chi passa tutta la vita in un monastero senza avere prima o poi imparato a lasciarlo non noterà grandi differenze tra l'inizio e la fine, la situazione infernale inizale sarà la stessa che troverà alla fine: si sarà soltanto abituato, a sopportare l'inferno, ad esercitare pazienza: ma dall'inferno non si sarà mosso.

mercoledì 24 settembre 2014

Le donne in carriera e il computer

Oltre ai tanti meriti che si possono attribuire all'invenzione del computer c'è il fatto che per molte donne in carriera è stata una vera liberazione: liberazione di spazio. Potendo eliminare carte di ogni tipo e mettere tutto in memoria, i cassetti e gli scaffali possono adesso essere riempiti e occupati da mascara, ombretto, rossetti, smalto per le unghie, pennelli, fard e fontotinta, eyeliner, lucidalabbra, base occhi pre trucco fissante uniformante, creme emollienti, profumi eccetera, per non parlare dei pupazzetti di peluche e dei vasetti di fiori sulla scrivania, sui davanzali interni eccetera

Derrida e lo sguardo della storia

Ci sono persone che semplicemente per aver letto un po’ di Derrida (in genere per uno di questi inutili corsi universitari di cui pullulano le università britanniche, gender studies o psicanalisi lacaniana o roba simile) criticano gli interlocutori anche quando fanno osservazioni sensate. Così mi è successo recentemente di sentire in pullman dietro di me una di queste saputelle (smart arse) accusare il suo compagno di viaggio di essere fermo alle posizioni degli anni Ottanta del secolo scorso, e solo perché s’era permesso di dire che il femminismo aveva fallito a tutto campo – unica cosa a dire il vero che condividevo di quella noiosa conversazione a pochi centimetri dalle mie orecchie. Il tipo aveva una trentina d’anni, lei molto più grande e pronunciava Derrida all’inglese (Derrìda), segno che non aveva nemmeno fatto lo sforzo di studiarsi un po’ di francese visto che da quello che riuscivo a capire Derrida era stato l'argomento della sua tesi di laurea.

E in fondo c’è poco da stupirsi o meravigliarsi: un’università che è soltanto luogo di produzione scientifica o meglio, pseudoscientifica, non può che guardare sempre e soltanto alle ultime pubblicazioni, o ai commenti più recenti dell'opera di un certo autore: che poi si legga o meno questo autore non ha nessuna importanza. Quello che conta è il "commento" di uno dei tanti emeriti nulla. Pensare con la propria testa zero: l’importante è che si citino articoli e libri scritti recentissimamente da chi non sa nemmeno aprire bocca. Cosa di cui ho già detto e ridetto in tanti precedenti post.

Come fatto personale ricordo che avevo ventidue ventitre anni e a Londra ero stato trascinato da una mia compagna di università a sentire una conferenza di Derrida al RIBA, il Royal Institute of British Architects, in Portalnd Place, e arrivai in ritardo, quando la conferenza era già finita e il pubblico stava ormai uscendo. Rimasi un po’ lì fuori per cercare di vedere almeno Derrida dal vero. E in effetti lo vidi apparire dopo un po' con una pipa in bocca, e per un attimo ci guardammo: era un uomo non alto, coi capelli bianchi e folti, il viso squadrato, gli occhi sensibili e di rarissima intelligenza.

Tutto ovviamente molto interessante per un ragazzo o uno studente ma in fondo di Derrida non me ne importava e non me ne importa un fico secco, a differenza di Sciascia, del suo sguardo, che come ho detto altrove mi fece l'onore di posarsi per qualche istante su di me quando ero piccolo, incuriosito chissà da cosa.

il giuramento di Ippocrate e i cinque e più traditori

Il bollettino medico con cui si annunciava la morte di una delle più sanguinarie fecce della storia recitava testualmente:

"Comunichiamo la dolorosa morte dell'ex presidente della repubblica ed ex comandante in capo dell'esercito eccetera" (sedicente presidente della repubblica e automaticamente decaduto dalla carica di comandante in capo dell'esercito nel momento stesso in cui insieme agli altri tre supremi vigliacchi traditori del suo paese tradì il giuramento di fedeltà fatto nelle mani dell'ultimo legittimo presidente che quel paese abbia avuto prima delle nuove, chiamiamole così, democratiche elezioni).

E sarà stata una morte anche più che dolorosa per questo medico che, prestato in gioventù un altro universale giuramento, quello di Ippocrate - "vivrò per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio..." - non poté non redigere il triste bollettino annacquandolo delle private lacrime del suo libero arbitrio - molto meno penosa per i parenti delle migliaia di desaparecidos e vittime di un regime che godeva (come sempre ogni regime capitalistico e fascista) del beneplacito della Chiesa Cattolica (se si escludono le eroiche frange della Teologia della Liberazione ampiamente avversate dall'allora papa e dalla sua curia o cricca, soprattutto da un certo segretario di stato traditore della lettera evangelica e a cui Dante avrebbe riservato il posto che riservava tutti i traditori di qualsiasi risma).

E non solo i parenti, ma una grossa porzione del paese avrà festeggiato in quel triste nero luttuoso giorno per i carnefici. Così come alla morte di Filippo gli ateniesi (anche coloro che con Filippo in vita non gli erano avversi e contro la viltà dei quali si scaglia Pluatrco) festeggiarono con a capo l'unico vero nemico e avversario di Filippo, Demostene, che si presentò alle celebrazioni per ringraziare gli dei tutto in ghingheri e con una bella veste sgargiante e inghirlandato (ἔχων λαμπρὸν ἱμάτιον ἐστεφανωμένος).

Quello che invece non si capisce è come abbia fatto, alla morte di quella sanguinaria canaglia, l'allora presidente socialista, che assieme ai suoi familiari venne sottoposto per ordine di quegli infami traditori alle più abbiette torture, a cedere a pressioni esterne e a far presenziare ai funerali di questo assassino e genocida il ministro della difesa del suo governo. Il quale venne poi giustamente fischiato da bande di migliaia di fascisti arricchitisi negli anni della dittaura e radunati a dare l'estremo saluto alla canaglia delle canaglie.


martedì 23 settembre 2014

invidia femminile e stravaccamento

Chiedevo a una mia anziana zia se mio cognato, che nonostante la differenza di età prova sempre un grande piacere quando può andare a trovarla e a intrattenersi una mezzora con lei, fosse passato recentemente a portarle dei dolci che le avevo fatto comprare. La risposta di questa mia zia è stata lapidaria: "io non ricevo giovanotti!" (a parte i nipoti o pronipoti diretti, dovrei dire). Mettiamoci anche un po' di demenza senile, ma questo era il suo tratto più tipico anche da ragazza, da quello che mi raccontano, non differente da quello di altre donne di quella generazione.

E sarà per questo che tantissime donne di quella generazione, che erano bambine durante la guerra, conservano quel fascino che le ragazze di oggi, con tutta la freschezza della loro pelle tatuata, illividita, si sognano. Figuriamoci poi le donne in carriera, sempre pronte a farsi la guerra reciprocamente e per loro stessa ammissione: o per il maschio di turno o per agguantare quel "potere maschio" di cui mai come oggi la donna è stata invidiosa.


indimostrabilità dell'esistenza

L'esistenza non può essere in nessun modo provata. Lo sarebbe se l'individuo potesse osservare durante la vita (e non nelle cosiddette e limitate esperienze N.D.E) il mondo dopo la sua morte. Il che è una contraddizione in termini.

Individuo. Il "divide et impera" della natura

Il senso dell'individuo va ricercato in una sorta di divide et impera di cui la natura non può assolutamente fare a meno se si vuole dare un senso alla nozione stessa di natura. Se la natura non si fosse organizzata in questo modo, per individui, la creatura sarebbe stata un'anti-natura. L'unica ragione per cui avrebbe avuto senso parlare di dualismo tra bene e male. Il che toglie anche ogni pretesto di esistenza a qualsiasi religione (compresa, soprattutto, la dialettica).

l'elefante e la morte

Una prova dell'evoluzionismo è nella nozione di persistenza. Che l'uomo discenda dall'elefante, o che sia stato in un lontano passato un elefante, è provato dal fatto che come l'elefante sentendo la morte appressarsi va a nascondersi, anche l'uomo quando sta per morire vieni rinchiuso in un hospice, con buona grazia delle multinazionali dei farmaci palliativi.

Persistenza cioè del pudore più che del dolore. Così per esempio Demostene, subito dopo aver preso il veleno:

ed abbassò la testa dopo essersela coperta

(συγκαλυψάμενος ἀπέκλινε τὴν κεφαλήν - Plut., Dem. xxix, 4).

Lo stesso nel caso di Cesare:

si tirò la veste sulla testa e si accasciò


ἐφειλκύσατο κατὰ τῆς κεφαλῆς τὸ ἱμάτιον καὶ παρῆκεν ἑαυτόν (Plut., Caes. lxi, 12).

In fondo non è altro che il sipario che viene finalmente tirato al termine di tutto perfino da quel bigotto di Ottaviano Augusto:

acta est fabula, plaudite! la commedia è finita, applaudite!







venerdì 12 settembre 2014

L'amicizia

Io do per certo che nell'amicizia vale quanto dice Demostene nella prima Olintiaca a proposito delle imprudenze commesse nell'azione politica (considerazione delle circostanze attuali), che a sua volta paragona alle imprudenze di chi accumula sostanze per poi perdere tutto:

ἀλλ', οἶμαι, παρόμοιόν ἐστιν ὅπερ καὶ περὶ τῆς τῶν χρημάτων κτήσεως· ἂν μὲν γάρ, ὅσ' ἄν τις λάβῃ, καὶ σῴσῃ, μεγάλην ἔχει τῇ τύχῃ τὴν χάριν, ἂν δ' ἀναλώσας λάθῃ, συνανήλωσε καὶ τὸ μεμνῆσθαι [τὴν χάριν]. καὶ περὶ τῶν πραγμάτων οὕτως οἱ μὴ χρησάμενοι τοῖς καιροῖς ὀρθῶς οὐδ' εἰ συνέβη τι παρὰ τῶν θεῶν χρηστὸν μνημονεύουσι (I, 11)

ma io credo che simile sia anche ciò che riguarda l'acquisto di denaro: se uno, quanto acquista, riesce pure a conservarlo, non potrà che ringraziare e ringraziare la fortuna, se invece senza accorgersene perde tutto, perde anche la capacità di ricordarsi. Così anche negli affari politici: coloro che non hanno saputo utilizzare rettamente le circostanze presenti non si ricordano nemmeno se qualcosa di utile gli era venuto dagli dei.


lunedì 8 settembre 2014

bambole e soldatini

Ogni volta che si guarda una delle tante fiction poliziesche - legali, mediche ecc, (ce n'è una piuttosto disgustosa incentrata sul lavoro di un gruppo di patologi britannici, cadaveri a non finire mostrati a pranzo e a cena mentre si sta mangiando magari tranquillamente una bistecca o una salsiccia) ogni volta che si guarda una di queste fiction si ha l'impressione che i personaggi maschi, anche se non è a rigore una fiction poliziesca, continuino comunque a giocare coi soldatini (pum pum! sei morto!), quando non giocano al gioco della virilità, portandosi a letto la collega di turno - segno che un qualche problema all'esterno, fuori del commissariato, esiste - e che i personaggi femminili, sempre coesi, hanno coronato il sogno che più di tutti stava loro a cuore: quello di arrivare a separare, ogni volta che ne abbiano occasione, i colleghi maschi, qualunque lavoro facciano, mosse unicamente da invidia per questa sorta di rilassatezza, questo senso del gioco a cui gli uomini si abbandonano quando stanno insieme: interrompere quello che in inglese si chiama male bond, legame tra uomini, legame d'amicizia, "uomini in compagnia di altri uomini" (c'era su questo un articoletto autobiografico di David Mamet, il regista, anzi uno dei registi più intelligenti di oggi, che a causa di questa eccessiva intelligenza finisce spesso per rovinare i suoi film). A differenza di quello che succede nel mondo vero, dove le donne, quando stanno insieme, non fanno altro che farsi guerra. In più, sempre in queste fiction, la donna appare quasi schizofrenica: da un lato, in veste di poliziotto o di avvocato di grido, vuole mostrare i muscoli, dall'altro questi muscoli sarebbero il trucco da clown a cui non sa rinunciare, e l'apparire uterina in ogni situazione (in una di queste fiction si vede un giovane avvocato donna che entra di prepotenza negli spogliatoi maschili di una scuola e costringe così alcuni adolescenti senza mutande a coprirsi immediatamente; cosa che se lo facesse un maschio, se provasse a entrare in un qualsiasi spogliatoio femminile, verrebbe subito denunciato, secondo norma, come molestatore - entrare negli spogliatoi maschili non è solo il sogno di molte donne cresciute con l'invidia del pene e di molte donne-mamme ma anche e soprattutto del regista o sceneggiatore maschio, arrapati dalla pornografia nella quale sono cresciuti -  e avessero almeno letto un po' di Sade, dei suoi meravigliosi romanzi).

Inoltre credo che la donna in queste fiction sarebbe molto più credibile se quando ostenta un'arma (il pericolo è che si spezzino le unghie) e fa irruzione come Rambo insieme ai colleghi maschi potesse nello stesso tempo vantare storicamente, nel mondo reale, una gavetta di quelle con le quali ti fai i muscoli anche in altri mestieri, in passato (e ancora oggi) riservati agli uomini: lavorare per esempio in un cantiere come muratore (o muratrice - come facevano alcune donne durante e dopo l'ultima guerra) prima che come architetto, perché è facile saltare dalle bambole al tavolo da disegno, alla sedia del comando.

mercoledì 3 settembre 2014

i ragazzi e la linguistica

Che i ragazzi (e ragazze) di oggi non siano così ignoranti, che anzi siano dotati nell’insieme di una mente piuttosto elastica, linguistica, pronta a cogliere ogni minimo rapporto tra le cose, rapporti logici e sostanziali, potrebbe indicarlo un semplice test: basterebbe chiedere a un ragazzo qualsiasi, così bravi nel rap, di trovare una rima per Giovanna o Susanna. E la risposta sarebbe rapida, anzi immediata, un po’ come il morso di una vipera per poco che la disturbi.
In realtà è un cosa che avrebbero in comune con la deterrima generazione dei sessantottini, e dei settantasettini (quelli almeno che presto avrebbero preso il posto dei padri che contestavano). Anche lì la battuta sarebbe stata automatica: se qualcuno avesse detto “Arianna”, un altro avrebbe risposto: "la pippa e la canna". Pippa che tra l’altro a Roma significa sega.

martedì 2 settembre 2014

Sempre più liberi. Il grande sogno dell'uomo e della donna

Che l'uomo e la donna di oggi si siano in qualche modo liberati lo dimostra il fatto che l'uomo continua a considerare segno di virilità l'ostentare la femmina come preda, un po' come facevano gli antichi (che mangiavano la buccia e buttavano i fichi) - preda su trampoli dai dieci ai quindici centimetri, ancheggiante (in Italia più che mai), sottratta a un altro uomo, o da sottrarre a un altro uomo, si capisce: l'unico modo in cui può essere considerato virile il farsi vedere in compagnia di certi accrocchi usciti dal bisturi di un chirurgo plastico o truccati come esilaranti clown, teenager comprese - e la donna il fatto che abbia finalmente ottenuto la gestione o cogestione di quel potere dalle maglie del quale voleva liberarsi e nelle maglie del quale, per poterlo gestire, se non ha impigliato il corpo ha impigliato quantomeno le mani. E impigliato mi fa venire in mente impagliato, nel senso di imbalsamato: detto di animali morti riempiti di paglia allo scopo di conservarli. Il problema però è chi è il grande imbalsamatore?

lunedì 1 settembre 2014

fama contro fama

Si potrebbe confrontare il concetto odierno di fama - fosse anche una fama planetaria ottenuta con un semplice click - con quello a cui sembra accennare Nestore nel primo libro dell'Iliade, quando parla di quei re che lo vollero come alleato (e non erano re da poco, come dice Nestore stesso, segno che il problema del valore della fama era avvertito già allora, quando si formava il nucleo della tradizione epica):

καὶ μὲν τοῖσιν ἐγὼ μεθομίλεον ἐκ Πύλου ἐλθὼν
τηλόθεν ἐξ ἀπίης γαίης: καλέσαντο γὰρ αὐτοί (269-70)

e con questi ho vissuto arrivando da Pilo
lontana, da terra remota: furono loro a chiamarmi

e in quel "remota" (ἀπίης) e in quel "mi chiamarono loro", c'è tutto il senso del valore di fama per i tempi già leggendari di Nestore, ma anche per l'epoca in cui si forma la tradizione epica e anche in seguito e comunque fino a tutto l'Ottocento e all'epoca di riproduzione industriale dell'immagine. Il che significa anche, a spingersi su questa strada, che Nestore era famoso per quei re come lo sarebbe un uomo oggi che fosse conosciuto nella galassia di Andromeda. In realtà nessun paragone possibile con la scalzacanaggine televisiva e cinematografica di oggi. Col tappeto rosso. Con il vippismo. Niente di omologo, di proporzionale.

Su questi due versi e sulla leggittimità dell'autoelogiarsi quando si è consapevoli delle proprie forze vedi anche quanto dice Elio Aristide nenl'orazione Sull'osservazione a margine (περὶ τοῦ παραφθέγματος).