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giovedì 15 settembre 2016
L'intellettuale e il paradosso del mentitore
Gli intellettuali (le "scienze" umane) hanno tuttosommato poco a che fare col progresso umano, se si escludono quei grandi nomi (compreso Sofocle, che intuiva la questione) a giusto titolo entrati a far parte del novero dei classici - totalmente assenti oggi non perché non sia passato un numero sufficiente di anni per poterli considerare tali (Ars poetica) ma perché per i nomi di oggi, a quello che almeno si vede, non ci sarà nessuna speranza di memoria, se non per qualche futuro database. E si leggono, i classici, non per quello che dicono (si possono contare, anche qui, sulla punta delle dita coloro che hanno detto
qualcosa che ha determinato un cambiamento nei modi di vedere di un'epoca) ma per come lo dicono. Inoltre gli intellettuali oggi rientrano quasi tutti nella schiera dei professori universitari. E le idee dei professori universitari non sono mai state di nessuna utilità, come lo è invece il lavoro di un muratore o di un operaio dentro una fabbrica. Non sono utili nemmeno ai loro studenti, che potrebbero trovare meno compromettente tentare di afffinare da subito il senso critico e fare una cernita degli errori contenuti nei libri da portare agli esami. Non è molto interessante sentire un intellettuale in televisione, o leggerne un libro, e non solo perché lo scopo è quello di copiarsi e scopiazzarsi a vicenda senza neanche accorgersi degli errori di coloro che citano. L'importante è che il discorso abbia una coerenza, in nome di quale logica è tuttavia da vedere, dal momento che per esempio una logica fuzzy, una logica polivalente, di origine booleana, sfuggirebbe completamente a questa posizione arcaica (tuttora della televisione, del web) del professore che parla di un certo argomento con cognizione di causa. Il paradosso del mentitore non potrebbero spiegarlo, resta per loro un paradosso, non avrebbe semplicemente, come in una logica fuzzy, un valore medio tra 0 e 1.
sabato 3 gennaio 2015
generoso ma non troppo
La nozione di generosità è legata in antico a quella di nascita: si è generosi se si è nati in una famiglia patrizia, se si è "nati bene": ma di questi è veramente generosus soltanto chi sa compiere il gesto ampio, magnanimo, chi rivela, in ogni occasione, incapacità di calcolo. Non vi è riferimento immediato al denaro - è del resto non troppo difficile essere generosi quando si dispone dei mezzi, quando dal mucchio invisibile del conto in banca si spilla per il prossimo una misera goccia immediatamente sostituita dalle nuove entrate. Ma p u ò essere ugualmente facile quando se ne è sprovvisti: e allora è la virtus di ognuno che traluce dal gesto generoso, la forza propria: e non appaiono più le origini, le illusioni e le fantasticherie da rotocalco, il pensiero di dove uno sia nato, o di quanto effettivamente possiede. Sarà semplicemente generoso. Come quel vino che pretenderà Orazio tra Salerno e: Velia, dove andrà follemente a farsi i bagni di acqua fredda l'inverno, la nuova moda dei Romani:
... nam uina nihil moror illius orae;
rure meo possum quiduis perferre patique;
ad mare cum ueni, generosum et lene requiro,
quod curas abigat, quod cum spe diuite manet
in uenas animumque meum, quod uerba ministret,
quod me Lucanae iuuenem commendet amicae ...
(... sui vini di quel posto non mi soffermo:
quando sono da me in campagna sopporto e tollero tutto,
ma quando arrivo al mare, voglio un vino g e n e ro s o e aperto
che allontani i pensieri, che speranzoso mi scorra
dentro le vene, e nelle mente e che renda loquaci e
che mi faccia apparire un ganzo davanti a una bella lucana. Epis, I,15,16-21 - moror viene quasi sempre frainteso nelle traduzioni di questa "lettera" a Vala in cui chiede informazioni sui luoghi: non non me ne importa ma non mi soffermo. E' figura retorica, preterizione).
... nam uina nihil moror illius orae;
rure meo possum quiduis perferre patique;
ad mare cum ueni, generosum et lene requiro,
quod curas abigat, quod cum spe diuite manet
in uenas animumque meum, quod uerba ministret,
quod me Lucanae iuuenem commendet amicae ...
(... sui vini di quel posto non mi soffermo:
quando sono da me in campagna sopporto e tollero tutto,
ma quando arrivo al mare, voglio un vino g e n e ro s o e aperto
che allontani i pensieri, che speranzoso mi scorra
dentro le vene, e nelle mente e che renda loquaci e
che mi faccia apparire un ganzo davanti a una bella lucana. Epis, I,15,16-21 - moror viene quasi sempre frainteso nelle traduzioni di questa "lettera" a Vala in cui chiede informazioni sui luoghi: non non me ne importa ma non mi soffermo. E' figura retorica, preterizione).
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sabato 11 ottobre 2014
Quel traditore di Ottaviano Augusto e gli scrittori di regime
Se l'orgoglioso Dante non si fosse fatto guidare dalla sua ideologia fondamentalista e teocratica (che una critica ridicola chiama "dottrina storica") e al posto di Cassio e Bruto avesse meso nelle fauci di Lucifero Ottaviano Augusto e Marco Antonio avrebbe fatto migliore e più giusta scelta, perché se ci furono traditori negli anni in cui cadeva la Repubblica (strumento, a sua volta, di latifondisti dallo stomaco senza fondo) proprio questi due furono i sommi, insieme ovviamente a Giulio Cesare - in epoca, oggi, in cui ognuno si riempie la bocca (e a vanvera) del termine democrazia (in termini moderni aveva iniziato Toqueville, con la sua convinzione di una, verrebbero accusati tutti e tre di attentato alla Costituzione e alto tradimento e se acciuffati prima di un capovolgimento delle sorti verrebbero in alcuni paesi perfino impiccati o fucilati. Così, il comune di Roma farebbe bene a cambiare il nome a piazza Augusto Imperatore e operare finalmente, su questa figura di bigotto ipocrita oltre che di feroce assassino, quella damnatio memoriae eterna che da due millenni le vittime dell'arbitrio si attendono; e la stessa cosa dovrebbe fare qualsiasi altra città nella cui toponomastica ricorre il nome di questo grissino erede di Cesare, il quale deve il potere unicamente a un attimo di stupidità di un Cicerone ormai provato e vecchio. Va da sé che insieme a lui cadrebbero anche Virgilio e Orazio, visto che la loro opera, la conoscenza della loro opera, è dipesa unicamente dal megafono di regime di questo traditore della sua patria.
Fece perciò bene questo sommo traditore a dire al nipote che di nascosto leggeva Cicerone - se l'aneddoto narrato da Plutarco è vero - che non c'era da vergognarsi, perché "era un uomo intelligente e amante della patria". Tanto amante della patria che lo fece ammazzare senza pietà e permise che i sicari di Marco Antonio, il suo degno e avvinazzato compare, gli mozzassero la testa e le mani, che facessero scempio di quel povero vecchio corpo. Tutte le altre fandonie, riportate anche da Plutarco, che Ottaviano avesse tentato per tre giorni (contrastando Marco Antonio) di salvargli la vita è tutta robaccia retorica che non è nemmeno degna di essere presa in considerazione da una qualsiasi storiografia che si rispetti.
E peccato ancora che Dante non abbia potuto citare proprio il Plutarco della Vita di Cicerone, la pagina finale in cui si commenta il modo disgustoso in cui Ottaviano, Marco Antonio e quel terzo pupazzo di Lepido si spartirono il potere con quelle loro private liste di proscrizione (l'edizione di Plutarco di Massimo Planude era proprio degli anni in cui veniva scritta la la Divina Commedia, e comuqnue Dante non conosceva il greco) e se l'avesse letta, fosse anche in latino, avrebbe comunque strappato quella pagina che non sarebbe tornata comoda alla sua delirante ideologia delle due massime potestà preordinate da Dio e di cui Cesare sarebbe stato l'incarnazione di quella imperiale:
Così per la rabbbia e il furore caddero fuori dalla ragione umana, e piuttosto dimostrarono come non vi sia belva più selvaggia dell'uomo quando alla passione aggiunge il potere.
(οὕτως ἐξέπεσον ὑπὸ θυμοῦ καὶ λύσσης τῶν ἀνθρωπίνων λογισμῶν, μᾶλλον δ' ἀπέδειξαν ὡς οὐδὲν ἀνθρώπου θηρίον ἐστὶν ἀγριώτερον ἐξουσίαν πάθει προσλαβόντος. Plu., Cic., 46,6)
Fece perciò bene questo sommo traditore a dire al nipote che di nascosto leggeva Cicerone - se l'aneddoto narrato da Plutarco è vero - che non c'era da vergognarsi, perché "era un uomo intelligente e amante della patria". Tanto amante della patria che lo fece ammazzare senza pietà e permise che i sicari di Marco Antonio, il suo degno e avvinazzato compare, gli mozzassero la testa e le mani, che facessero scempio di quel povero vecchio corpo. Tutte le altre fandonie, riportate anche da Plutarco, che Ottaviano avesse tentato per tre giorni (contrastando Marco Antonio) di salvargli la vita è tutta robaccia retorica che non è nemmeno degna di essere presa in considerazione da una qualsiasi storiografia che si rispetti.
E peccato ancora che Dante non abbia potuto citare proprio il Plutarco della Vita di Cicerone, la pagina finale in cui si commenta il modo disgustoso in cui Ottaviano, Marco Antonio e quel terzo pupazzo di Lepido si spartirono il potere con quelle loro private liste di proscrizione (l'edizione di Plutarco di Massimo Planude era proprio degli anni in cui veniva scritta la la Divina Commedia, e comuqnue Dante non conosceva il greco) e se l'avesse letta, fosse anche in latino, avrebbe comunque strappato quella pagina che non sarebbe tornata comoda alla sua delirante ideologia delle due massime potestà preordinate da Dio e di cui Cesare sarebbe stato l'incarnazione di quella imperiale:
Così per la rabbbia e il furore caddero fuori dalla ragione umana, e piuttosto dimostrarono come non vi sia belva più selvaggia dell'uomo quando alla passione aggiunge il potere.
(οὕτως ἐξέπεσον ὑπὸ θυμοῦ καὶ λύσσης τῶν ἀνθρωπίνων λογισμῶν, μᾶλλον δ' ἀπέδειξαν ὡς οὐδὲν ἀνθρώπου θηρίον ἐστὶν ἀγριώτερον ἐξουσίαν πάθει προσλαβόντος. Plu., Cic., 46,6)
mercoledì 19 giugno 2013
I soldi dei contribuenti e l'anacoluto
“Mi sono spesso domandato, anzi meravigliato di un fatto …”
Inizia così uno dei pochi frammenti rimasti di un'orazione che gli antichi attribuivano a Alcidamante, un retore ateniese il cui stile Aristotele, suo contemporaneo, considerava troppo carico e pieno di immagini non realistiche (ma ogni cosa andrà letta sempre cum grano salis se quandoque bonus dormitat Homerus, se anche Omero ogni tanto sonnecchia). Alcidamante, sconosciuto
alla massa dei mediocri che determinano le estetiche del presente – estetica nel senso di ciò che si finisce per sentire come "giusto", il che avviene quando un particolare ma potente gruppo radicato nel sociale riesce a imporre la propria mediocre visione delle cose (grossi giornali e televisioni) e questa diventa, come in ogni lager che si rispetti, il giusto metro.
Cosa diceva questo Alcidamante, che pur appartenendo al partito ultra
conservatore fu uno degli iniziatori di una certa seria riflessione sul concetto di schiavitù (se cioè la distinzione tra
schiavi e liberi avesse un senso considerata una comune base di partenza, un venire al mondo tutti alla stessa maniera) di cosa si meravigliava nell'orazione di cui ho citato l'inizio? Si stupiva del fatto che molti dei politici che ai suoi giorni salivano in tribuna a dare consigli
agli Ateniesi dimostravano coi loro discorsi di essere assolutamente inutili alla causa comune, nessun senso dei reali bisogni della comunità (ἀφ' ὧν ὠφέλεια μὲν
οὐδεμία ἐστὶ τῷ κοινῷ, una frase che se pronunciata nel modo in cui la pronunciavano
allora, cioè come i greci di oggi, suona di una semplicità disarmante: af on ofèlia men
udemìa estì to kinò); e aggiunge Alcidamante: tutto ciò che invece ci è dato ascoltare ogni giorno è un'infinità di insulti reciproci (lidorìe de pliste ghìgnonte en allìlis). Voila! tutto qui. Peccato che sia difficile trovare
Alcidamante in traduzione, anche se in giro qualcosa dovrebbe esserci, e pure in italiano (non mi ricordo se sia incluso nella bella edizione dei sofisti curata da Untersteiner in un'epoca in cui non c'eravamo ancora, e che non ho voglia adesso di cercare nella mia biblioteca), ma nel caso in cui si riesca a trovare qualcosa, non potrà non giovare e tornare utile soprattutto a chi nel mondo delle idee, anche spicciole e da carta stampata e non stampata, crede ancora di essere un pensatore originale; potrà anzi trarne insegnamenti inattesi considerando che in fondo si ha a che fare soltanto con un "retore minore", anche se ovviamente dormirà sonni un po' meno tranquilli. Ma tutto questo per dire come venivano allora e come vengono spesi oggi i soldi del comtribuente.
Nessuna pubblica utilità whatsoever.
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lunedì 15 aprile 2013
Dei grilli il verso ...
Scrivevo ieri in un commento a un post in un blog dedicato
alla lettura e alla letteratura (Il naufragio: una metafora esistenziale) che uno dei primi poeti a offrire l'immagine di una “nave sanza nocchiere in gran tempesta” è Alceo, nel VII secolo dell’era pagana, in una delle sue odi: questo mare che infuria da tutte le parti e la nera nave con noi sopra trasportata senza guida e senza meta ... È appunto la metafora di uno Stato ormai in balia dell’incontrollabile. La grande
letteratura, la poesia, non è altro che spirito profetico, di senso cioè della realtà: di dialogo col reale anticipandone o riflettendone le dinamiche sociali. Ma qui, questa immagine di Alceo (poi in Orazio, e in tanti scrittori cristiani, e poi in Dante) è diventata un possesso definitivo, un'acquisizione per sempre, come
avrebbe detto Tucidide; ed è strano come si tenda sempre a dimenticare, e come l'umanità ci sbatta continuamente il grugno … Si preferiscono altre metafore meno inquietanti, più campestri, ma che nei grandi poeti hanno ugualmente una loro preoccupante ragione d'essere ... de' grilli il verso che perpetuo trema ...
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