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mercoledì 18 gennaio 2017
La fine dell'incanto
Ai tempi in cui studiavo l'arabo, il cosiddetto arabo standard, quello dei giornali , della tv, dei film egiziani, l'arabo del Corano e dell'immensa letteratura non dialettale, un arabo che nessuno parla come prima lingua mentre esistono invece un numero infinito di dialetti vivi, mi capitò una frase che mi convinse che in qualche modo quello era nonostante tutto, nonostante certa artificiosità di questa lingua colta, il mio mondo. Era una frase che sarebbe possibile ancora oggi cogliere tranquillamente in una conversazione mettiamo tra un arabo levantino e uno del Maghreb (letteralmente luogo del tramonto), che se vogliono capirsi userebbero questa lingua normalizzata:
أركب آقطار، لأنّه سوف يدهب بعد ساعة
che suona pressappoco:
àrkabul chitàr liànnahu saufa iàdhabu bàada sàa
salgo sul treno perché parte tra un'ora.
L'idea cioè di un tempo paradossalmente dilatato - se un'ora equivale a cinque o dieci minuti allora ho bisogno dell'eternità per portare a termine un qualsiasi compito. Il che si sposava con la mia risaputa indolenza, la quale tra l'altro non mi ha impedito di fare più cose nella vita di chi non si è mai fermato un secondo (è il vero segreto dell'oriente).
Ma c'era altro all'origine che mi affascinava, mi incantava dell'arabo: la scrittura: una sorta di bosco incantato più allettante di quelli dell'Orlando Furioso (che pure tratta di Mori), una selva al di qua della quale mi ostinavo a trattenermi per il semplice gusto di non volerla capire: il desiderio di penetrarla e nello stesso tempo di ritardarne l'apprendimento - il pericolo che molto del fascino che la scrittura esercitava sarebbe svanito con la sua comprensione, con la comprensione dell'arabo, era costante. Cosa regolarmente verificatasi. Così come è successo col sanscrito, che ho iniziato a studiare a sedici anni quando ero ancora sui banchi del liceo e avrei dovuto pensare alla letteratura italiana piuttosto che alla rigogliosa fioritura dei caratteri devanagari, simili a giungle ugualmente impenetrabili. Fascino, incantamento cessato anche qui con la comprensione dei testi, per quanto a causa delle centinaia di legature possibili questa scrittura può sempre apparire un rompicapo pure al più navigato degli indologi.
(L'attrattiva della scrittura è stata in qualche modo minore col greco (familiarità di cultura), col cirillico e con l'ebraico, che al di là delle somiglianze con l'arabo (popoli di dura cervice li chiama la Bibbia) mi ha appassionato sempre poco - senz'altro a causa dell'orrenda complicatezza del sistema accentuativo e vocalico masoretico, l'incontrollata proliferazione di segni per le vocali lunghe, medie, brevi e brevissime, e altri simboli per la lettura e recitazione dei testi sacri, i primi che si iniziano a leggere, e che gli danno l'aspetto di una pelle disgustosamente infetta e purulenta; in più il sapere che si trattava di una tradizione letteraria fondata quasi esclusivamente su testi e commenti religiosi, fatto ancora oggi evidente nell'ebraico "resuscitato" e parlato in Israele, esperimento anacronistico e poliziesco, antistorico, come dimostra la chiusura al mondo di quel paese, l'impianto di una lingua morta, la lingua biblica (per quanto ricca la sua storia), su un territorio da sempre cosmopolita ma considerato dal XIX secolo di proprietà esclusiva di un gruppo ristretto di attivisti in cerca di "pace" e dei loro fanatici epigoni - che lo si voglia o meno, gli israeliani , anche i meravigliosi non credenti, parlano ancora un linguaggio biblico: le parole, la struttura, la sintassi sono le stesse, e anche nei neologismi la אקדמיה ללשון העברית, l' akademya lalashon haivrit, l'Accademia della lingua ebraica, non fa che ricorrere - adattandole a nuovi significati - a termini dell'Antico Testamento, così come prima di lei aveva fatto il Comitato della lingua ebraica di Eliezer Ben Yehuda).
sabato 10 gennaio 2015
il plurale del plurale. gli arabi e la matematica
La ragione per cui (e lo spiego a me stesso, trattandosi dopotutto sempre un diario personale che rendo pubblico, e dove mi può capitare di inserire di tanto in tanto qualche cosetta di carattere più filogico) la ragione per cui ho abbordato nella mia vita così tante lingue - credo di averle passate al setaccio quasi tutte (da un capo all'altro del globo e da un punto all'altro della storia), alcune più studiate e approfondite di altre (ebraico, arabo, sanscrito - le lingue sacre) altre studiate fino a un certo punto (russo, danese, polacco, svedese, olandese, giapponese, ungherese, finlandese, cinese, tibetano eccetera) altre ancora comunemente usate quando leggo o chiacchiero con qualcuno (francese, tedesco, spagnolo, greco moderno), altre studiate per interessi di linguistica (accadico assiro eccetera, le lingue irochesi del Nord America, parlate un tempo dal Popolo della Grande Palude, i Guyohkohnyo, e dal Popolo delle Colline, gli Onondagega, e dagli Oneida eccetera), la ragione principale credo fosse il bisogno, la necessità (o desiderio) di uscire dal lager della mia lingua madre, e quindi il desiderio di mettermi direttamente, senza nessuna mediazione, in contatto con altri modi di osservare le cose, mettermi
domenica 4 gennaio 2015
La Biblioteca di Alessandria: il luogo dell'eccesso
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Alessandria d'Egitto - Biblioteca Alexandrina |
Leggevo su un giornale egiziano che la biblioteca di Alessandria, quella attuale, la Biblioteca Alexandrina, ospiterà una conferenza araba sul tema del contrasto all'estremismo e al terrorismo. تطرف (tatàrruf) è il termine arabo per estremismo, ma viene usato anche in contesti non politici: ad esempio a indicare smodatezza, stravaganza, opulenza, e perfino negligenza, e di conseguenza dissipazione. Dovunque insomma ci sia l'idea di un oltrepassare la misura, moralmente o materialmente. Alcuni di questi significati si trovano pure nell'italiano estremismo, compreso quello politico, che è anzi il primo a cui si pensa. Ma è implicito ancora in opulenza, in negligenza eccetera, per quanto negligenza faccia in un primo tempo pensare a trascuratezza.
Che sia proprio la Biblioteca di Alessandria a organizzare una conferenza del mondo arabo sull'estremismo, sul radicalismo, appare come uno di quei fenomeni intrastorici nei quali si riosserva lo spirito dei luoghi ineluttabilmente all'opera, quando al genio del luogo non si pensava ormai più. Si può dire che la stessa antica biblioteca di Alessandria contenesse già nel suo destino, ben prima della sua fondazione, un iperbolico bisogno di eccedere: era la più grande biblioteca conosciuta dell'antichità e la sua definitiva distruzione, qualunque delle ipotesi si consideri buona, fu di nuovo il segno di un eccesso, che fosse direttamente ideologico (l'editto di Teodosio o l'ordine che avrebbe dato nel VII secolo Umar ibn al-Kattab - il sultano Omar) o conseguenza non voluta di azioni belliche (Cesare). E alla Biblioteca di Alessandria si possono poi attribuire tutte le varie connotazioni dell'arabo tatàrruf: fu una smodata collezione di libri, fu certamente stravagante, per la gran quantità di "cacata carta" che doveva contenere (secondo la descrizione che fa Catullo degli Annali di Volusio), e in questo senso fu anche negligente: la negligenza dei bibliotecari nella scelta dei libri, e fu indubbiamente opulenta, essendo una biblioteca reale, e era votata alla dissipazione, alla perdita del suo ricco patrimonio.
venerdì 2 gennaio 2015
Paolo VI dall'Occidente all'Oriente. Il fumo di Satana e la demonologia
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Illustrazioni in un codice arabo di al-Qazwini |
Diceva Paolo VI a conclusione del discorso tenuto a Nazaret il 5 gennaio 1964 - in effetti il primo pontefice a toccare quelle terre dopo san Pietro -, un breve discorso tutto dedicato ovviamente alla centralità del nucleo familiare (non a caso nella liturgia delle ore è una delle due letture per la festa della Santa Famiglia) diceva che "il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine".
Un finale che è quasi un capolavoro di diplomatismo: che dice tutto e niente - anche se non dovrebbe essere un mistero il senso che aveva per Paolo VI e cosa significa ancora oggi valore economico nelle democrazie liberiste.
Montini, a osservarlo in veste di pontefice, appare indubbiamente un sant'uomo:
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lunedì 29 dicembre 2014
Islam, Giudaismo e Cristianesimo disuniti nella "tentazione"
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Salvador Dalì, La tentation de saint'Antoine |
Il mondo coranico è meno prono al comico rispetto al Giudaismo. E di conseguenza rispetto al Cristianesimo. La stessa cacciata di Adamo e della sua donna dal Paradiso è nella Lettura dell'Islam un fatto di pura spiritualità: per l'ammiccante, teatrale serpente, trasformato in seguito dall'esegesi ebraica in "portatore" di Satana, quasi fosse un carro, non c'è spazio. Così almeno nella seconda sura:
فَأَزَلَّهُمَا الشَّيْطَانُ عَنْهَا فَأَخْرَجَهُمَا مِمَّا كَانَا فِيهِ (fa azallahuma l-shaytanu 'anha fa-akhrajahuma)
e li fece scivolare il Maligno da quel posto e l i p o r t ò fuori da ciò in cui si trovavano (la loro condizione di felicità)
(Il verbo أَخْرَجَ (akhraja), nella forma IV, è usato invece in questa stessa sura al versetto 22 in un'accezione positiva (vedi quanto ho scritto nel Grado quarto della libertà), dovendosi riferire a Dio che fa della terra un giaciglio per l'uomo e del cielo un tetto (una volta) e manda giù pioggia che farà poi crescere il suo nutrimento:
فَأَخْرَجَ بِهِ مِنَ الثَّمَرَاتِ رِزْقًا لَّكُمْ (fa-akraja bihi mina l-thamarati riz'qan lakum):
e p o r t ò perciò frutti quale vostro sostentamento).
In questo senso l'Islam rappresenta - almeno in questo passo dell'Eden teologicamente fondante (il riferimento al primo peccato, alla trasgressione degli ordini divini) - un abbandono del concreto, un'elevamento in termini astratti e spirituali rispetto al Giudaismo e al Cristianesimo (mi pare sia stato Gore Vidal a dire una volta in una trasmissione qualcosa di simile: un miglioramento, an improvement, rispetto alle altre due grandi religioni, anche se non ricordo in che contesto vedeva lo vedeva, e riteneva comunque che anche l'Islam, come il Giudaismo e il Cristianesimo, avesse fallito). E non fa nessuna differenza il fatto che nelle varie tradizioni demonologiche musulmane Shaytan (il Maligno, in questo caso Iblis) possa assumere la forma di ogni creatura vivente: il cane, la iena, il serpente, perfino un aspetto umano: è in questo versetto 36 che non si fa menzione di zoomorfismi.
Il Cristianesimo, erede del Giudaismo, ha d'altronde sempre preferito un più prossimo contatto con la terra, e con le sue creature, soprattutto in situazioni estreme, dove però l'ascesi dovrebbe indicare più che un desiderio della terra tout court (come era per esempio nel caso delle sacerdotesse di Dodona) un suo immediato uso, uno strumento di elevazione, con tutti i rischi che questo comporta, anche di caduta nel comico, come nel caso dei primi asceti, che si sceglievano per dimora il deserto, notoriamente popolato da serpenti anche piuttosto pericolosi.
Credo che su questa questione del comico nel Giudaismo e nel Cristianesimo (o meglio nelle Scritture), di una sua certa continua teatralità, abbia giocato Flaubert nella Tentation de saint'Antoine. E' difficile leggere quel libro senza scoppiare a ridere, nonostante i lunghi passaggi descrittivi (ma forse anche a motivo di questo), deliranti per ricchezza ideativa e lessicale. Vedi ad esempio una delle allucinazioni di sant'Antonio, l'arrivo della carovana della Regina di Saba alla sua capanna nella Tebaide, carica di doni preziosi di ogni genere, che gli si getta al collo follemente innamorata. E' la continuazione di Eva che coglie il frutto dall'albero e porta tentazioni all'uomo - tanto più ridicola, la situazione, quanto più l'uomo sarà un eremita che da trent'anni vive solo e isolato dal resto del mondo.
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mercoledì 24 dicembre 2014
il pellicano e il destino dell'uomo. dal deserto alla piscanalisi
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foto Yuru Belyaev |
דמיתי לקאת מדבר (damithi liq'ath midhbar)
somiglio a un pellicano del deserto (102, 6)
קאת (qe'ath) - pellicano - viene da alcuni collegato a קיא (qi') vomitare (così almeno il Brown-Driver-Briggs, per il quale il pellicano vomiterebbe dal gozzo il cibo per i suoi pulcini) ma forte è il sospetto che sia invece da unirsi a קבב (kabab - pronunciato kavàv): rendere cavo, formare, costruire una volta, un arco, con riferimento a una tenda e quindi, credo, al gozzo; ma il verbo vale anche metaforicamente: maledire, esecrare - propriamente: perforare: col che si ritorna all'idea del lungo becco appuntito. Insomma tutte immagini che in qualche modo, in ogni epoca, si adattano all'uomo e al suo continuo movimento interno/esterno, così come nel tardo ebraico si trova per esempio, sempre agganciato a questa radice, קוּבה, (qubba) lupanare, evidentemente prossimo all'arabo قبة - qubba (alcova) [e tuttavia la "u" è lunga in ebraico e breve in arabo], comunque luogo chiuso e provvisto di volta (vedi anche l'italiano case chiuse ma anche l'idea del letto a baldacchino).
Nel mondo cristiano il pellicano (termone che tra l'altro proviene dal greco πέλεκυς, ascia - la forma del becco in certi momenti) non vomita il cibo per i suoi piccoli: si apre direttamente il petto, il costato, e offre qualcosa di pù prezioso, come nei due noti versi del Morgante del Pulci:
Quivi si cava il pellican dal petto
Il sangue, e rende la vita a’ suoi figli (14,51)
che dipende sicuramente, e in via diretta, dal Buti, e dal suo commento a Dante.
E sembrerebbe paradossale citare in mezzo a tanta prosaicità e ferocia proprio quei versi del Paradiso:
Questi è colui che giacque sopra ’l petto
Del nostro pellicano (25,2)
la dolcezza di Giovanni che posa la testa sul petto del suo amato Cristo, versi interpretati in effetti da Francesco da Buti in modo alquanto curioso:
Pellicano è uno uccello, che nasce nell'Egitto, ed è bianco, e poichè ha allevato li figliuoli, e sono cresciuti, si levano li figliuoli contra lo padre, e la madre, e combattono con loro percotendoli nel volto, tantochè lo padre, e la madre gli uccide; e poi lo padre sta sopra li figliuoli, e dassi nel petto suo col becco, tantochè n'esce lo sangue, e spargelo sopra loro, e così li risuscita.
Curioso se si pensa che Cristo, in quanto pellicano, avrebbe i questo modo in un primo tempo ammazzato i figli e poi col suo stesso sangue li avrebbe resuscitati. Meno curioso se si pensa ai sensi di colpa, nei quali affoga comunemente l'umano. Senmpre che non si voglia intendere per pellicano direttamente Dio: che fosse stato Dio Padre a "uccidere" l'uomo (a farlo precipitare nella dannazione). Un capovolgimento comunque rispetto all'immagine dei salmi da cui si è partiti, dove il pellicano è sempre è soltanto l'uomo (tra l'altro, il deserto di cui si parla nel salmo 102 è in ebraico מדבר (midhbar), che significa anche bocca, e se la bocca dell'uomo la si paragona a un deserto, non si direbbe niente di nuovo, e in tutti i sensi: sia per la sua aridità, per l'inutilità della sua parola (di cui è un esempio, oggi più che ieri, lo sciocchezzaio vomitato da politici, giornalisti, televisioni, internet, ma anche nel privato) sia per la sua effettiva grandezza, voracità infinita (bocca de ciavatta, a Roma, in inglese shut your big mouth) .
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martedì 23 dicembre 2014
la resa dei conti: quella parola che non conosco.
L'altra sera tornando a casa mi è successo un fatto strano. Sulla porta a vetri della guardiola del portiere c'era affisso un foglio - che non hanno ancora tolto. "In qualità", si dice su questo foglio, " di proprietario dell'appartamento interno eccetera piano eccetera, comunico che inzieranno i lavori eccetera". Sono stato davanti a quel foglio a bocca aperta almeno un minuto, a cercare di capire una certa parola, una parola mai sentita. Proprietario. Mi sono detto, che vorrà dire 'sta parola? l'italiano un po' lo conosco e non mi dice niente. E' presa da un'altra lingua? Eppure ho bazzicato si può dire quasi tutte le lingue del mondo e del passato, magari alcune approfondite, altre meno, dal persiano, al cinese, al sanscrito, all'arabo, all'ebraico, allo swaili, per non parlare dell'insieme del ceppo indoeuropeo e del blocco ugrofinnico, con qualche nozione di varie lingue del Burkina Faso: dalla lingua more (che andrebbe pronunciato mòoré - un po' come dire amore a Roma - alla lingua dioula, parlata a Bobo-Dioulasso. la linga bobo, samo, peul, bambara: insieme, ovviamente, alla matematica, le lingue sono state, si può dire, la mia unica vera grande passione, fin da piccolo, sia perché pensavo che potessero mettermi in contatto col passato (latino, greco, accadico assiro, ebraico, sanscrito ecc.) sia che mi mettessero in contatto col futuro (matematica). Possibile che proprietario appartenga a una di quelle lingue che ho studiato meno, il cinese, per esempio, o il giapponese, e che questa parola la conosca proprio uno che abita dove abito io, dove non ci sono né cinesi né giapponesi? possibile che ancora ignori una nozione magari meravigliosa?
Sono risalito a casa e non ci ho dormito tutta la notte. La mattina mi sono svegliato e niente: la parola proprietario non la conosco. Non mi dice niente. Sono stato tentato di scendere, strappare quel foglio (se non fosse che il nostro portiere è sempre così attento, preciso). Strappare il mezzo che contiene un'offesa palese alla mia esperienza. Alla fine mi sono detto, che per quanti sforzi, per quanti studi uno faccia, quante persone, quanti paesi veda, resta sempre fuori qualcosa. Non c'è niente da fare. Morale della favola, continuo a ignorare il senso di proprietario. Con un po' di giochi associativi riesco al massimo a pensare che da proprietario possa coniarsi un'espressione come proprietà privata. Ma verrebbe rigettata sicuramente dalla comunità dei parlanti. E il senso evidentemente, anche qui, mi resterebbe totalmente oscuro.
Sono risalito a casa e non ci ho dormito tutta la notte. La mattina mi sono svegliato e niente: la parola proprietario non la conosco. Non mi dice niente. Sono stato tentato di scendere, strappare quel foglio (se non fosse che il nostro portiere è sempre così attento, preciso). Strappare il mezzo che contiene un'offesa palese alla mia esperienza. Alla fine mi sono detto, che per quanti sforzi, per quanti studi uno faccia, quante persone, quanti paesi veda, resta sempre fuori qualcosa. Non c'è niente da fare. Morale della favola, continuo a ignorare il senso di proprietario. Con un po' di giochi associativi riesco al massimo a pensare che da proprietario possa coniarsi un'espressione come proprietà privata. Ma verrebbe rigettata sicuramente dalla comunità dei parlanti. E il senso evidentemente, anche qui, mi resterebbe totalmente oscuro.
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domenica 12 ottobre 2014
L'esondazione a Genova, la stupidità umana e i francesi
Quello che è successo a Genova in questi giorni può significare due cose: o che contro le forze della natura non si può fare niente oppure che l'umanità è sempre più vittima della sua stupidità.
Il problema non è l'aver stabilito, come vuole Wittgenstein, che se la gente non facesse cose stupide niente di intelligente verrebbe mai fatto: la questione è il saper calcolare la percentuale di cose stupide e di cose intelligenti che vengono ogni giorno dette e fatte. Se infatti le cose stupide fossero in misura minore di quelle intelligenti l'intelligenza prenderebbe facilmente il sopravvento fino ad annullare completamente la stupidità. E' vero quindi il contrario. L'umanità è condannata alla stupidità senza possibilità di resto. I francesi, sempre superiori agli altri in questo genere di calcoli e discussioni, hanno trovato brillantemente, per indicare la stupidità, il termine che più le si addice da un punto di vista umano: bêtise, comportamento o pensiero da bestia. Basterebbe farsi, credo, un giretto nel Larousse, o nel Littré. La bêtise è prima di tutto la più grande delle cose immense:
L'"idozia" umana è un abisso senza fondo, e l'oceano che vedo dalla finestra mi pare in confronto ben piccola cosa
(La bêtise humaine est un gouffre sans fond, et l'océan que j'aperçois de ma fenêtre me paraît bien petit à côté [Flaubert, Correspondence, 1875 - e credo, se non ricordo male, che si tratti di una lettera al suo amico Edmond Laporte, che lo aiutava in tutto, forse anche ad andare di corpo, e che Flaubert affezionatamente chiamava la sua soeur de charité - la sua Dama di san Vincenzo, quando non lo chiamava direttamente El Bab, traduzione araba di Laporte].
Ma incalcolabile è pure il numero di sciocchezze che albergano perfino nei pensieri di una persona intelligente:
Le nombre de bêtises qu'une personne intelligente peut dire dans une journée n'est pas croyable (Gide, Journal, 1940).
(Il numero di sciocchezze che una persona intelligente è in grado di dire in una giornata è incredibile).
Nel Diario dei Goncourt si era più realistici riguardo alle dimensioni, meno visionari di Flaubert: la si connette, la stupidità, a un'idea di possesso, al costruire (giustamente in quegli anni a Parigi si costruiva molto: tutto veniva raso al suolo per lasciar spazio ai grandi boulevards delle moderne democrazie):
Il y entre de prétendues idées fortes, qui font dire aux plus intelligents des bêtises grosses comme des maisons (E. et J. de Goncourt, Journal,1871).
(Entrano [nel cervello] delle idee a cui si dà il titolo di "idee superiori" che fanno dire ai più intelligenti delle stupidità grosse come delle case).
Ma per gli intellettuali, per i politici che sembrano sempre saper parlare, articolare i loro pensieri come se fossero appena usciti dalla stanza della maestrina, così come per la maggiornaza disarticolata sempre pronta a bersi tutto ciò che lo sciocchezzaio della politica mondiale produce e offre nessuno forse meglio di Rabelais, col suo bel francese del Cinquecento, con la sua contorta grafia, cadrebbe a proposito:
Je ne sçay quoy premier en lui je doibve admirer, ou son oultre cuydance ou sa besterye (Gargantua, 1, 9)
(Non so che cosa posso ammirare di più in lui, se la sua presunzione o la sua idiozia).
Il problema non è l'aver stabilito, come vuole Wittgenstein, che se la gente non facesse cose stupide niente di intelligente verrebbe mai fatto: la questione è il saper calcolare la percentuale di cose stupide e di cose intelligenti che vengono ogni giorno dette e fatte. Se infatti le cose stupide fossero in misura minore di quelle intelligenti l'intelligenza prenderebbe facilmente il sopravvento fino ad annullare completamente la stupidità. E' vero quindi il contrario. L'umanità è condannata alla stupidità senza possibilità di resto. I francesi, sempre superiori agli altri in questo genere di calcoli e discussioni, hanno trovato brillantemente, per indicare la stupidità, il termine che più le si addice da un punto di vista umano: bêtise, comportamento o pensiero da bestia. Basterebbe farsi, credo, un giretto nel Larousse, o nel Littré. La bêtise è prima di tutto la più grande delle cose immense:
L'"idozia" umana è un abisso senza fondo, e l'oceano che vedo dalla finestra mi pare in confronto ben piccola cosa
(La bêtise humaine est un gouffre sans fond, et l'océan que j'aperçois de ma fenêtre me paraît bien petit à côté [Flaubert, Correspondence, 1875 - e credo, se non ricordo male, che si tratti di una lettera al suo amico Edmond Laporte, che lo aiutava in tutto, forse anche ad andare di corpo, e che Flaubert affezionatamente chiamava la sua soeur de charité - la sua Dama di san Vincenzo, quando non lo chiamava direttamente El Bab, traduzione araba di Laporte].
Ma incalcolabile è pure il numero di sciocchezze che albergano perfino nei pensieri di una persona intelligente:
Le nombre de bêtises qu'une personne intelligente peut dire dans une journée n'est pas croyable (Gide, Journal, 1940).
(Il numero di sciocchezze che una persona intelligente è in grado di dire in una giornata è incredibile).
Nel Diario dei Goncourt si era più realistici riguardo alle dimensioni, meno visionari di Flaubert: la si connette, la stupidità, a un'idea di possesso, al costruire (giustamente in quegli anni a Parigi si costruiva molto: tutto veniva raso al suolo per lasciar spazio ai grandi boulevards delle moderne democrazie):
Il y entre de prétendues idées fortes, qui font dire aux plus intelligents des bêtises grosses comme des maisons (E. et J. de Goncourt, Journal,1871).
(Entrano [nel cervello] delle idee a cui si dà il titolo di "idee superiori" che fanno dire ai più intelligenti delle stupidità grosse come delle case).
Ma per gli intellettuali, per i politici che sembrano sempre saper parlare, articolare i loro pensieri come se fossero appena usciti dalla stanza della maestrina, così come per la maggiornaza disarticolata sempre pronta a bersi tutto ciò che lo sciocchezzaio della politica mondiale produce e offre nessuno forse meglio di Rabelais, col suo bel francese del Cinquecento, con la sua contorta grafia, cadrebbe a proposito:
Je ne sçay quoy premier en lui je doibve admirer, ou son oultre cuydance ou sa besterye (Gargantua, 1, 9)
(Non so che cosa posso ammirare di più in lui, se la sua presunzione o la sua idiozia).
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