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martedì 10 febbraio 2015

dittografia dell'arbitrio: copisti da Platone a Flaubert



La dittografia è un errore sempre possibile: che si scriva a mano o al computer. Nello studio dei papiri, o di una tradizione manoscritta, non appare che raramente, e in questo senso è una possibilità necessariamente sopravvalutata dalla critica testuale  – anche oggi non succede quasi mai di scrivere due volte di seguito una

giovedì 23 ottobre 2014

mancata autopsia. Un motivo in Menandro

[       ]ιν λέγεις, Δε, το τ' μο τρόπου (Asp., 368)

Così Cherestrato, nello Scudo di Menandro; la lacuna del papiro da integrare anche a mio avviso molto semplicemente come altri hanno proposto:

<εὖ γ᾿ ἐστ>ν λέγεις, Δε, το τ' μο τρόπου:

 dici bene, o Davo, e mi va benissimo

Si tratta della messa in scena architettata dallo schiavo Davo della morte di Cherestrato, che potrà così farsi gioco dell’avido fratello Smicrine; un tema, quello della simulazione della propria morte, utilizzato per le stesse ragioni (avidità di un familiare o di un creditore) almeno fino ai tempi di Edoardo e Totò, sicuramente meno praticabile oggi (il morto è morto e basta!) a causa di una sovraesposizione del pubblico a una estetica della pseudoscienza dei laboratori della polizia scientifica, e dei medici legali – vedi per esempio tutto il problema di un’autopsia condotta superficialmente sul corpo dell’uomo ritrovato nella laguna veneziana nei primi capitoli del mio Un valzer per Alfredo.  

mercoledì 30 luglio 2014

ancora su Eraclito: traduzione e false friends

E' difficile che un traduttore dal greco antico vada fuori tiro, che toppi (soprattutto nell'attuale clima produttivo delle università, di ossessivo controllo filologico, ogni cosa eseguita ritualmente nell'orizzonte di attesa dei colleghi che ti devono leggere e che stanno col fucile puntato addosso se sbagli una semplice virgola e soprattutto se non citi le loro illegibili, incoerenti sciocchezze, che comunque non leggerebbe nessuno) ma succede. Come nel caso della traduzione ancora usata di Diogene Laerzio, curata parecchi anni fa da un grande della filologia e papirologia, Marcello Gigante (e qui non è una virgola), il quale traduce o fa tradurre, dando luogo così a dei curiosi false friends, astrologìa con astrologia (I, 23) e poi qualche riga sotto la intende invece giustamente come astronomia, o dedicarsi all'astronomia, non ricordo, ma il greco è ἀστρολογῆσαι, che vale appunto occuparsi di astronomia, detto in questo caso di Talete, attività che secondo Diogene Laerzio anche Eraclito confermerebbe (μαρτυρεῖ δ' αὐτῷ καὶ Ἡράκλειτος) cioè "gli rende buona o favorevole testimonianza".

In realtà, nel passo in questione, erroneamente tradotto, si parla semplicemente di un'opera che andava sotto il nome di Talete (la ricordava ancora Plutarco già prima di Laerzio, e tre secoli dopo Laerzio la ricorda ancora Simplicio nel commento alla Fisica di Aristotele) ma ritentuta composta da un Foco di Samo, l'Astronomia nautica (ναυτικὴ ἀστρολογία), non certo l'astrologia nautica, perché consigliare a dei marinai di affidarsi al destino (a quello che è già scritto negli astri) piuttosto che alla scienza astronomica, era considerato anche ai tempi di Talete (che secondo Callimaco aveva fatto non modeste scoperte se tuttora alziamo i nostri moderni nasi a osservarle), come il classico darsi una martellata sui piedi:


Callimaco lo conosce scopritore dell'Orsa minore, così come si legge nei suoi giambi:

"E del Carro si dice abbia misurato
le piccole stelle, con le quali navigano i Fenici"

(Καλλίμαχος δ' αὐτὸν οἶδεν εὑρέτην τῆς ἄρκτου τῆς μικρᾶς, λέγων ἐν τοῖς Ἰάμβοις οὕτως·

     καὶ τῆς Ἀμάξης ἐλέγετο σταθμήσασθαι
     τοὺς ἀστερίσκους, ᾗ πλέουσι Φοίνικες. [Diog. I, 23])