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giovedì 18 dicembre 2014

il caso Garlasco e la condanna tanto per condannare

A domanda precisa di un conduttore televisivo all'avvocato di parte civile del processo Garlasco - "Avvocato, avete mai considerato l'ipotesi che il colpevole non sia Stasi ma che possa trattarsi magari, come suggeriva il professor Bruno, anche di una donna?" - il legale risponde nella maniera più tipicamente disarticolata e sprovvista di pensiero, senza nessuna logica se non quella motivata da un partito preso, che dà sempre, in ogni occasione, un'idea di cosa è il convincimento ideologico e il fondare le accuse su ovvi motivi di parte. "Capisce", risponde il legale, "nel momento stesso in cui noi chiediamo di anazlizzare un capello - e noi non possiamo sapere di chi è questo capello - è evidente che la parte civile ha sempre cercato la verità ovunque; però quando ti precludono accertamenti che vanno a 360 gradi quali quelli di accertare di chi è un capello, è evidente che a questo punto noi ci concentriamo sul soggetto nei confronti del quale vi sono seri e concreti indizi, come riconosciuto dalla Cassazione: non è questione di essere prevenuti contro qualcuno o di fare un accanimento giudiziario. Il discorso è che noi da anni chiediamo accertamenti che vanno in questa direzione ma che se concessi potevano andare anche nell'altra direzione."

In sostanza sta dicendo: no, non siamo prevenuti, siamo semplicemente prevenuti. Che è poi quello che succede in tutti i processi indiziari, quelli le cui sentenze spesso fanno ridere i polli. Diceva giustamente Francesco Bruno, il criminologo invitato al talk show: "io sono orripilato, qui si sta chiamando indizio schiacciante l'assenza di sangue sulle suole delle scarpe, mi sarei aspettato il contrario."

martedì 24 giugno 2014

Vasi comunicanti. Scienza e tremore in corte d'assise







Quando si gestisce la cosiddetta azione penale, in particolare in fase istruttoria, cioè in quei momenti durante i quali col codice di procedura alla mano gli inquirenti raccolgono prove che il pubblico ministero poi utilizzerà per chiedere il rinvio a giudizio (le stesse che serviranno eventualmente in aula contro la difesa), non dovrebbero certo essere gli  indizi a corroborare le lacune della scienza, semmai il contrario. In entrambi i casi è evidente che in un qualsiasi processo indiziario non ci sono e non ci saranno mai certezze. Dire che il tale test del dna, se anche contiene un elemento di errore non può lasciare dubbi all'accusa in quanto ci sono poi gli altri indizi a corroborarne la validità, non significa altro se non che tale conclusione fa, sul piano formale, acqua e arriva al massimo a dimostrare uno spaparacchiato pressappoco, quel pressappochismo di cui gli italiani sono maestri nel mondo (il colpevole è pressappoco questo ... il colpevole è “praticamente” questo - vedi il mio post precedente).

La questione può essere anche facilmente (ac)quantizzata, cioè allegata come somma. Se la probabilità che  un certo indagato non sia l’autore di un reato è zero virgola zero zero zero zero zero zero zero zero qualcosa e se perciò non esiste "assoluta certezza" (il dire “assoluta certezza” è già una boiata logica e se ci fosse veramente certezza non si capisce per quale ragione venga fornito un margine di errore, infinitesimale quanto si voglia) e se gli indizi ugualmente per loro natura concorrono allo stesso modo con degli zero qualcosa, allora sommando tutti questi zeri, lo zero della “prova scientifica” e gli zeri degli indizi, il risultato è sempre zero. Zero più zero fa ancora zero, anche se fa qualcosa

Il colpo definitivo ai fenomeni di malafede della scienza, alle tanto sventagliate “certezze” della scienza (che dal momento che vengono platealmente ostentate non sono per niente certezze), arriva poi dalla confessione dell’indagato, che alla fine, stanco di lottare, dice: sì, sono stato io! In effetti la sicumera dei sacerdoti  e apostoli della scienza e della prova scientifica è tale che anche in questo caso, in cui la scienza non ha avuto nessun merito, non esiterebbero a rivoltare la frittata di uova di struzzo e a considerare la confessione (da cui stranamente proviene attestato di certezza alla prova scientifica) non come prova della “fasullita” del concetto di certezza scientifica ma come dimostrazione che la prova scientifica era "così" certa da far tremare perfino l'indagato, da costringerlo a confessare.