Sarebbe difficile dare un senso alle oscene eiaculazioni sinaptiche di tanti esperti e "conoscitori" del mondo antico se non ci si vedesse quella tipica tendenza all'idiozia da cui è affetto da sempre il mondo accademico. L'entusiasmo senza riserve per questo o quest'altro autore a cui si attribusice "profondità" di pensiero è una manifestazione di una idiosincrasia al contrario, di una immoderata simpatia, non potrà mai contare su ragioni obbiettive, non è altro che conseguenza di infatuazioni pseudoideologiche. Leggere e rileggere autori greci e latini va bene finché non ci si dimentica che erano epoche (e autori) che fondavano il loro benessere su un feroce sfruttamento della manodopera schiavistica. Platone o Aristotele, Demostene o Cicerone, Catullo, Cesare, Lisia o Isocrate, Antifonte, Erodoto, Senofonte, Sallustio, Tucidite o Tacito, Pindaro, Alceo, Anacreonte e chi più ne ha ne metta non provavno nessunissima vergogna a utilizzare la parola schiavo, a maneggiare, accettando lo stato di cose, la nozione di non libero. Non se ne salva nessuno. Il Cattolicesimo trae forza unica da Platone e Aristoetle (a entrambi nella storia del pensiero, pone fine soltanto Cartesio), ancora nei Dialoghi e nelle Lettere di Gregorio Magno, che scrive in veste di pontefice, si potrebbero citare decine di riferimenti al patrimonio della Chiesa, al "va bene così", alla sua accettazione di una struttura agraria che si regge sullo stesso tipo di sfruttamento che li aveva preceduti nel mondo pagano. L'ipocrita Agostino non la passa liscia quando in una lettera a Alipio di Tagaste (appartiene all'ultimo periodo) pare soltanto scagliarsi contro i mangones (mercanti di schiavi), in realtà riproponendo da cima a fondo il sistema libero/schiavo:
Nam vix pauci reperiuntur a parentibus venditi quos tamen non ut leges
Romanae sinunt ad operas viginti quinque annorum emunt isti, sed .... (CSEL, 10)
Se ne trovano pochissimi che siano stati venduti (legalmente) dai genitori e che (i mangones) comprano per farli lavorare non venticinque anni, come richiedono le leggi romane ma ...
Basterebbe questo "scambio privato" tra un futuro santo e un vescovo a far apparire la malafede pure in tutte le altre cose che ha scritto (altro che Confessioni), non ci sarebbe nemmeno bisogno di leggere se l'idea è di farne apologia.
Ciò che rese grande la Grecia e grande Roma,e poi il Cattolicesimo, non fu altro che lo stesso meccanismo (più evidente perché più vicino) che ha reso grande la scorreggiante America bianca o che rese ricco lo scorreggiante Sudafrica bianco all'epoca dell'Apartheid. Non c'è semplicemente nessuna ragione "umanistica", di superiorità dell'uomo sulla bestia, nessuna ragione di andare fieri del pensiero antico, di visitare Atene e commuoversi sull'Acropoli perché è lì che si sentono le origini del pensiero occidentale, o andare a Delfi a respirare il soffio magnetico di Apollo, o sedersi su un pezzo di tufo al Foro a Roma e piangere di commozione dentro una confezione di kleenex, così come non c'è nessuna ragione di andare fieri del "pensiero" moderno o contemporaneo, che fonda la sua libertà parolaia sui milioni di morti sul lavoro che si registrano ogni anno in tutto il mondo (circa due milioni, comprese le morti per malattie professionali). Parlare dei quali oltre un certo limite non attirerebbe audience.
L'unico grande evento memorabile nell'antichità fu la rivolta di Spartaco, un gruppo di schiavi che anelarono alla libertà. A parte questo, non successe niente.
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sabato 19 marzo 2016
mercoledì 16 dicembre 2015
Del cinismo degli universitari
Che i cosiddetti specialisti di Leopardi - tutti nessuno escluso, come d'altronde tutti gli specialisti in qualsiasi scienza o disciplina - non capiscano niente dell'oggetto delle loro ricerche dovrebbe risultare chiaro dalla loro totale indifferenza alle ragioni di un Leopardi cinico. Leopardi, si dicono costoro (tra un inutile convegno e un altro, e tra un inutile articolo accademico e l'altro), non può essere cinico per la semplice ragione che accusava gli italiani di essere "cinici d'animo" (Discorso sopra lo stato presente degli italiani - del 1824). Fanno finta di non accorgersi che lo Zibaldone inizia desolatamente proprio con l'immagine di un cane che abbaia nella notte, e che tutto il diario è disseminato di riferimenti al cane e alla felicità con la quale il cane pare godersi il suo dolce far niente. Comunque la si veda, l'etimologia di cinico sempre all'immagine del cane bisogna farla risalire. Vedi quello che ho scritto in L’infinito di Leopardi e il “caro” egoismo degli antichi; Leopardi i cani e gli uccelli; Il cane filosofo. Dal cinismo alle monadi informatiche.
giovedì 5 marzo 2015
professori universitari e galloni di latta
Non so proprio a che servono i professori (universitari, voglio dire, perché fino alla maturità hanno altro scopo e qualcosa ancora valgono, ma non certo per quello che hanno appreso all'università). Non so a che serve un professore di letteratura francese o
domenica 21 dicembre 2014
Manuali universitari inutili e il trenta meritato
La maggior parte dei manuali universitari delle facoltà scientifiche è assolutamente inutile. Nonostante rispecchino un po' tutti una qualche visione altruistica dell'esistenza, una buona predisposizione pedagogica, si rivelano poi inutili essenzialmente per due motivi: primo sono scritti male, sono cioè incomprensibili, involuti, agganciati al mito superiore dell'intelligenza: danno l'impressione che l'autore non ha compreso affatto le questioni che tratta, si rivelano le sue tortuosità mentali o quelle dell'autore da cui ha scopiazzato, il quale a sua volta ha pure lui scopiazzato (che è sempre un dramma per un manuale, soprattutto in meccanica analitica, e in generale in fisica teorica, perché lo studente è costretto a fare un doppio sforzo: cercare di capire un argomento già di per sé complesso e farlo attraverso le cervelloticità dell'autore); e poi perché anche quando sono scritti decentemente non riportano che banalità espresse in forma per lo più ellittica. Il che indica che l'autore teme il giudizio "alto", non sta scrivendo per lo studente ma per un suo pari, uno che come lui è già di casa con certe nozioni, se pure queste nozioni sono state capite, se le più elementari implicazioni sul piano intuitivo sono state comprese (pericolo sempre in agguato quando si ragiona costantemente in termini matematici, e che è sicuramente il risultato di un insegnamento della matematica e della geometria già alle origini, nelle scuole medie, pavoneggiante, avulso dall'osservazione dei fatti riguardanti la tecnica, l'arte e la natura, e quindi incapace di suscitare nello studente interesse per le proprietà delle figure geometriche, come faceva osservare gia nel 1949 Emma Castelnuovo nel suo Geometria intuitiva per le scuole medie inferiori, la quale per questo venne quasi linciata, accusata dai colleghi francesi di fare matematica "par les mains sales", con le mani sporche).
Dunque se uno studente di fisica o matematica è costretto (come sarebbe giusto) ad arrivarci da solo, che ragione ci sarebbe di scrivere un manuale? Basterebbe per esempio per le equazioni di Lagrange indicarle e chiedere allo studente di applicarle lui stesso alla meccanica classica, prima di utilizzarle in quella relativistica o nella teoria quantistica dei campi. Un po' di sforzo iniziale ma tanto di guadagnato alla fine.
Così quando feci a fisica, alla Sapienza, l'orale di analisi 1, l'ultima domanda era sulle approssimazioni delle funzioni per mezzo di polinomi. Il professore mi chiese dopo un po', annoiato dal mio ripetere a pappardella il libro di testo, qualcosa sulla formula di Taylor con resto. Gli dissi: "professore, questo in particolare non c'era nel paragrafo sulla formula di Tylor". E lui mi disse: "arrivaci da solo!". Mi prese un colpo, cominciai a sudare, dopo un po' attaccai, con una matita, a fare dei calcoli, a giustificare un passaggio dietro l'altro, ebbi proprio l'impressione che una mano esterna stesse guidando in quel momento la mia di mediocre studente. Alla fine misi giù la matita e feci un sorriso grosso come il sole. Il professorre, che era un famoso normalista, mi disse: "bravo!". E io dissi: "adesso ho capito, è così che si fa la matematica". E lui: "Certo! e io la ricompenso: le do trenta!"
Dunque se uno studente di fisica o matematica è costretto (come sarebbe giusto) ad arrivarci da solo, che ragione ci sarebbe di scrivere un manuale? Basterebbe per esempio per le equazioni di Lagrange indicarle e chiedere allo studente di applicarle lui stesso alla meccanica classica, prima di utilizzarle in quella relativistica o nella teoria quantistica dei campi. Un po' di sforzo iniziale ma tanto di guadagnato alla fine.
Così quando feci a fisica, alla Sapienza, l'orale di analisi 1, l'ultima domanda era sulle approssimazioni delle funzioni per mezzo di polinomi. Il professore mi chiese dopo un po', annoiato dal mio ripetere a pappardella il libro di testo, qualcosa sulla formula di Taylor con resto. Gli dissi: "professore, questo in particolare non c'era nel paragrafo sulla formula di Tylor". E lui mi disse: "arrivaci da solo!". Mi prese un colpo, cominciai a sudare, dopo un po' attaccai, con una matita, a fare dei calcoli, a giustificare un passaggio dietro l'altro, ebbi proprio l'impressione che una mano esterna stesse guidando in quel momento la mia di mediocre studente. Alla fine misi giù la matita e feci un sorriso grosso come il sole. Il professorre, che era un famoso normalista, mi disse: "bravo!". E io dissi: "adesso ho capito, è così che si fa la matematica". E lui: "Certo! e io la ricompenso: le do trenta!"
mercoledì 17 dicembre 2014
la guerra tra rane e topi: editori contro scrittori ministeriali
Così alla fine editori e scrittori ministeriali (professori universitari) sono venuti ai ferri corti (tutto un didascalico e noioso articolo su Repubblica): i secondi accusano i primi di seguire unicamente il mercato, i primi accusano i secondi di produrre testi soltanto in vista dei concorsi - cioè saggi che nessuno leggerà e che non leggono nemmeno le commissioni d'esame (a parte andarsi a spulciare l'indice per vedere se il pavone di turno è stato citato) perché il vincitore di un determinato posto - lo sanno cani e porci - è già stato deciso secondo il sistema interno del baronaggio . E ci sarebbe da chiedere agli editori che lanciano adesso accuse al mondo accademico, in quale mondo hanno vissuto fino a ieri e dove si trovavano quando pubblicavano robaccia indigeribile che i dipartimenti universitari consegnavano direttamente alle redazioni (Mulino, Laterza eccetera). Gli scrittori ministeriali, i "professori" (quelli che vengono pagati dal Ministero) sono in questo genere di affari più puri, più prossimi alla semplicità delle cose: in effetti hanno sempre rigettato il mercato: hanno fin dall'inzio seguito il sistema che precedeva il mercato prima dell'invenzione del denaro: il sistema di scambio: tu fai vincere oggi il mio allievo, io faccio vincere domani il tuo. A non voler poi aprire una parentesi su quegli scrittori universitari (e sono una legione) che non hanno mai saputo tenere a freno la verga, che favoriscono o hanno favorito in passato non gli allievi ma le "allieve", il cui svergognato capobanda nel settore umanistico è stato fino a qualche anno fa un personaggio della "sinistra" che non conta nemmeno nominare, talmente dovrebbe essere noto a tutti. Su questo ho già scritto e riscritto a iosa
mercoledì 22 ottobre 2014
Ulisse contro Odisseo
Continuo a dire e scrivere Ulisse invece di Odisseo (come vorrebbe l'odierna vulgata dei ricercatori in attesa di passare almeno ad associati a novant'anni) per la semplice ragione che credo che i moderni istituti di filologia classica all'interno dei vari dipartimenti, con tutta la loro ridicola ossessione per la quantizzazione del lavoro intellettuale, abbiano in questo caso inventato l'acqua calda.
venerdì 26 settembre 2014
tutti sulla stessa barca: confusione vs ipocrisia
Di quelle noiose competizioni della terza sofistica, nel quarto secolo, che dovevano somigliare sempre più alle conferenze e tavole rotonde attuali, alle relazioni accademiche nei vari convegni, Libanio è indirettamente critico: ma è una critica limitata alle capacità oratorie dell'avversario, il sistema non viene minimamente intaccato. Così nella sua autobiografia (la prima orazione del corpus), a proposito di un altro professore, suo antagonista a Costantinopoli, scrive che non riuscendo il pubblico a capire cosa stesse dicendo, ognuno guardava gli altri più distanti come a chiedersi se fossero tutti sulla stessa barca (συνεῖναι αὐτὸς ἕκαστος οὐκ ἔχων, νεύμασι τοὺς ἀφεστηκότας ἠρώτων, εἰ τὸ αὐτὸ πάθοιεν. I, 41).
Che è quanto succede ancora oggi quando si ha paura di essere l'unico deficiente a non capire cosa stia dicendo uno (o una) che parla in un convegno, in televisione, in un talk show. Anche se alla fine, in qualche modo, sono tutti pronti a battere le mani, pure chi non si sente ideologicamente affine (e la cosa è seria), cioè non si applaude sempre per bontà o per cortesia, o meglio, per ipocrisia, come sembra aver fatto Libanio con questo Benarchio intellettuale dedito alla crapula, cioè allo sgomitamento:
e anch'io, anche se provavo la stessa cosa degli altri, mi sforzavo di conferire, applaudendo, opinione di chiarezza al suo discorso facendo perciò cosa gradita al suo gruppo (καὶ ταὐτὸ τοῦτο τοῖς ἄλλοις ἐγὼ παθὼν σαφηνείας δόξαν οἷς ἐθορύβουν ἐπειρώμην περιάπτειν τῷ λόγῳ χαριζόμενος τῇ φάλαγγι).
Che è quanto succede ancora oggi quando si ha paura di essere l'unico deficiente a non capire cosa stia dicendo uno (o una) che parla in un convegno, in televisione, in un talk show. Anche se alla fine, in qualche modo, sono tutti pronti a battere le mani, pure chi non si sente ideologicamente affine (e la cosa è seria), cioè non si applaude sempre per bontà o per cortesia, o meglio, per ipocrisia, come sembra aver fatto Libanio con questo Benarchio intellettuale dedito alla crapula, cioè allo sgomitamento:
e anch'io, anche se provavo la stessa cosa degli altri, mi sforzavo di conferire, applaudendo, opinione di chiarezza al suo discorso facendo perciò cosa gradita al suo gruppo (καὶ ταὐτὸ τοῦτο τοῖς ἄλλοις ἐγὼ παθὼν σαφηνείας δόξαν οἷς ἐθορύβουν ἐπειρώμην περιάπτειν τῷ λόγῳ χαριζόμενος τῇ φάλαγγι).
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mercoledì 24 settembre 2014
Derrida e lo sguardo della storia
Ci sono persone che semplicemente per aver letto un
po’ di Derrida (in genere per uno di questi inutili corsi universitari di cui
pullulano le università britanniche, gender studies o psicanalisi lacaniana o
roba simile) criticano gli interlocutori anche quando fanno osservazioni
sensate. Così mi è successo recentemente di sentire in pullman dietro di me una di queste
saputelle (smart arse) accusare il suo compagno di viaggio di essere fermo alle
posizioni degli anni Ottanta del secolo scorso, e solo perché s’era
permesso di dire che il femminismo aveva fallito a tutto campo – unica cosa a
dire il vero che condividevo di quella noiosa conversazione a pochi centimetri
dalle mie orecchie. Il tipo aveva una trentina d’anni, lei molto più grande e pronunciava
Derrida all’inglese (Derrìda), segno che non aveva nemmeno fatto lo sforzo di
studiarsi un po’ di francese visto che da quello che riuscivo a capire Derrida era stato l'argomento
della sua tesi di laurea.
E in fondo c’è poco da stupirsi o meravigliarsi: un’università
che è soltanto luogo di produzione scientifica o meglio, pseudoscientifica, non
può che guardare sempre e soltanto alle ultime pubblicazioni, o ai commenti più recenti dell'opera di un certo autore: che poi si legga o meno questo autore non ha nessuna importanza. Quello che conta è il "commento" di uno dei tanti emeriti nulla. Pensare con la propria testa zero: l’importante è che si citino articoli e libri scritti recentissimamente da chi non
sa nemmeno aprire bocca. Cosa di cui ho già detto e ridetto in tanti precedenti
post.
Come fatto personale ricordo che avevo
ventidue ventitre anni e a Londra ero stato trascinato da una mia
compagna di
università a sentire una conferenza di Derrida al RIBA, il Royal
Institute of
British Architects, in Portalnd Place, e arrivai in ritardo, quando la
conferenza era già finita e il pubblico stava ormai uscendo. Rimasi un
po’ lì
fuori per cercare di vedere almeno Derrida dal vero. E in effetti lo vidi apparire dopo un po' con una pipa in bocca, e per un attimo ci
guardammo: era
un uomo non alto, coi capelli bianchi e folti, il viso squadrato, gli
occhi sensibili e
di rarissima intelligenza.
Tutto ovviamente molto interessante per un ragazzo o uno studente ma in fondo di Derrida non me ne importava e non me ne importa un fico secco, a differenza di Sciascia, del suo sguardo, che come ho detto altrove mi fece l'onore di posarsi per qualche istante su di me quando ero piccolo, incuriosito chissà da cosa.
Tutto ovviamente molto interessante per un ragazzo o uno studente ma in fondo di Derrida non me ne importava e non me ne importa un fico secco, a differenza di Sciascia, del suo sguardo, che come ho detto altrove mi fece l'onore di posarsi per qualche istante su di me quando ero piccolo, incuriosito chissà da cosa.
mercoledì 30 luglio 2014
ancora su Eraclito: traduzione e false friends
E' difficile che un traduttore dal greco antico vada fuori tiro, che toppi (soprattutto nell'attuale clima produttivo delle università, di ossessivo controllo filologico, ogni cosa eseguita ritualmente nell'orizzonte di attesa dei colleghi che ti devono leggere e che stanno col fucile puntato addosso se sbagli una semplice virgola e soprattutto se non citi le loro illegibili, incoerenti sciocchezze, che comunque non leggerebbe nessuno) ma succede. Come nel caso della traduzione ancora usata di Diogene Laerzio, curata parecchi anni fa da un grande della filologia e papirologia, Marcello Gigante (e qui non è una virgola), il quale traduce o fa tradurre, dando luogo così a dei curiosi false friends, astrologìa con astrologia (I, 23) e poi qualche riga sotto la intende invece giustamente come astronomia, o dedicarsi all'astronomia, non ricordo, ma il greco è ἀστρολογῆσαι, che vale appunto occuparsi di astronomia, detto in questo caso di Talete, attività che secondo Diogene Laerzio anche Eraclito confermerebbe (μαρτυρεῖ δ' αὐτῷ καὶ Ἡράκλειτος) cioè "gli rende buona o favorevole testimonianza".
In realtà, nel passo in questione, erroneamente tradotto, si parla semplicemente di un'opera che andava sotto il nome di Talete (la ricordava ancora Plutarco già prima di Laerzio, e tre secoli dopo Laerzio la ricorda ancora Simplicio nel commento alla Fisica di Aristotele) ma ritentuta composta da un Foco di Samo, l'Astronomia nautica (ναυτικὴ ἀστρολογία), non certo l'astrologia nautica, perché consigliare a dei marinai di affidarsi al destino (a quello che è già scritto negli astri) piuttosto che alla scienza astronomica, era considerato anche ai tempi di Talete (che secondo Callimaco aveva fatto non modeste scoperte se tuttora alziamo i nostri moderni nasi a osservarle), come il classico darsi una martellata sui piedi:
Callimaco lo conosce scopritore dell'Orsa minore, così come si legge nei suoi giambi:
"E del Carro si dice abbia misurato
le piccole stelle, con le quali navigano i Fenici"
(Καλλίμαχος δ' αὐτὸν οἶδεν εὑρέτην τῆς ἄρκτου τῆς μικρᾶς, λέγων ἐν τοῖς Ἰάμβοις οὕτως·
In realtà, nel passo in questione, erroneamente tradotto, si parla semplicemente di un'opera che andava sotto il nome di Talete (la ricordava ancora Plutarco già prima di Laerzio, e tre secoli dopo Laerzio la ricorda ancora Simplicio nel commento alla Fisica di Aristotele) ma ritentuta composta da un Foco di Samo, l'Astronomia nautica (ναυτικὴ ἀστρολογία), non certo l'astrologia nautica, perché consigliare a dei marinai di affidarsi al destino (a quello che è già scritto negli astri) piuttosto che alla scienza astronomica, era considerato anche ai tempi di Talete (che secondo Callimaco aveva fatto non modeste scoperte se tuttora alziamo i nostri moderni nasi a osservarle), come il classico darsi una martellata sui piedi:
Callimaco lo conosce scopritore dell'Orsa minore, così come si legge nei suoi giambi:
"E del Carro si dice abbia misurato
le piccole stelle, con le quali navigano i Fenici"
(Καλλίμαχος δ' αὐτὸν οἶδεν εὑρέτην τῆς ἄρκτου τῆς μικρᾶς, λέγων ἐν τοῖς Ἰάμβοις οὕτως·
καὶ τῆς Ἀμάξης ἐλέγετο σταθμήσασθαι
τοὺς ἀστερίσκους, ᾗ πλέουσι Φοίνικες. [Diog. I, 23])
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ancora su Eraclito: fratelli coltelli
Se grazie a film e a fiction sempre più allegre la civiltà attuale è tutta incartata e rinserrata dentro sale operatorie e sale autoptiche e settorie, allora con questo gusto delle autopsie (ma appartiene a un più generale gusto dell'orrore e delle morti in diretta: di stragi, impiccaggioni, incidenti, omicidi, rapine, aggressioni, stupri: tutto mostrato in diretta) se è concreto questo gusto della autopsie guardate a colazione e a pranzo e a cena, seduti a tavola in famiglia, non suonerebbe più troppo strano (metafora originariamente ardita) il sentir paragonare da una colf la capacità critica di qualcuno, la sua intelligenza nel penetrare cose e concetti, a un bisturi, per quanto ci siano appunto sulla tavola oggetti più immediati e più facilmente utilizzabili per questo tipo di immagini, forchette e coltelli, ormai anche raffinati, meno impegnativi da maneggiare, da tenere in mano o stringere.
Così fratellli coltelli, anche nel caso della filosofia, delle lotte intestine tra scuole filosofiche, non vale più. Semmai fratelli bisturi, e anche se si perde la rima si acquista in ulteriore precisione - vedi le sottigliezze sempre più analitiche del contemporaneo filosofico. La grossolanità, dai convegni, è esclusa. La parola d'ordine, che ci si lancia da una cattedra all'altra è che l'analisi, il taglio, deve essere così continuo e preciso che nessuno deve capire più niente di niente. Tanto meno gli studenti, che d'altronde non hanno mai capito niente. E che si è intelligenti se non si è compresi, dimenticandosi che per essere Aristotele o Husserl o Kant non basta essere qui e lì incomprensibili - d'altronde tutta la Fenomenologia dello spirito di Hegel passa per opera altamente incomprensibile, da sbatterci la testa per anni e anni.
Ma vedi in Eraclito un gusto di veder tagliare ancora i concetti col bel coltellone da macellaio - il fendente menato a Pitagora con lo stesso coltello di cui l'accusa di farsi grande:
κοπίδων ἐστὶν ἀρχηγός (fr.81)
l'inventore dei coltelli!
Così fratellli coltelli, anche nel caso della filosofia, delle lotte intestine tra scuole filosofiche, non vale più. Semmai fratelli bisturi, e anche se si perde la rima si acquista in ulteriore precisione - vedi le sottigliezze sempre più analitiche del contemporaneo filosofico. La grossolanità, dai convegni, è esclusa. La parola d'ordine, che ci si lancia da una cattedra all'altra è che l'analisi, il taglio, deve essere così continuo e preciso che nessuno deve capire più niente di niente. Tanto meno gli studenti, che d'altronde non hanno mai capito niente. E che si è intelligenti se non si è compresi, dimenticandosi che per essere Aristotele o Husserl o Kant non basta essere qui e lì incomprensibili - d'altronde tutta la Fenomenologia dello spirito di Hegel passa per opera altamente incomprensibile, da sbatterci la testa per anni e anni.
Ma vedi in Eraclito un gusto di veder tagliare ancora i concetti col bel coltellone da macellaio - il fendente menato a Pitagora con lo stesso coltello di cui l'accusa di farsi grande:
κοπίδων ἐστὶν ἀρχηγός (fr.81)
l'inventore dei coltelli!
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giovedì 24 luglio 2014
Cacciari a caccia di Cacciari
Vi sono accademici, universitari, che si innalzano ben al di sopra della mediocrità dei loro colleghi ma che almeno agli inizi, o intorno agli inizi della loro carriera, e poi, di tanto in tanto, anche in seguito, sentono il bisogno (che non fa onore) di produrre lavori che posseggano i crismi (cioè i balsami) del "metodo", del metodo accademico, tali cioè da poter essere riconosciuti e accettati dai propri pari, che appunto, data la mediocrità che contraddistingue questi pari, non sarebbero per niente dei pari: sentono insomma, questi pochi grandi intellettuali vissuti all'ombra del mondo universitario (e che coniugano sempre precisione e sensibilità), il bisogno di essere giudicati da chi dovrebbero invece essere loro a giudicare ignorandoli. E mettono in atto, in alcune di queste loro opere, una potenza e tensione teoretica davvero ammirevoli - vedi per esempio il primo capitolo dell'antico Krisis di Cacciari, ma in generale tutto il saggio. Il quale però non è per niente opera filosofica - o lo sarebbe se fosse la parte che resta di un sistema (così come nel Cielo, Aristotele trova il tempo di passare criticamente in rassegna le posizioni dei filosofi che l'hanno preceduto o contemporanei). Eppure Massimo Cacciari è un filosofo: cioè un pensatore con la "p" maiuscola, e lo è non in questi primi o anche successivi lavori di critica ideologica, come Dell'Inizio, Della cosa ultima, che in fondo non sono altro che opere di storiografia filosofica (come lo possono essere il Sofista di Platone, i Physicorum placita di Teofrasto) ma lo è in alcuni suoi lavori di mezzo, nei quali la voce diventa finalmente magistrale: è la voce senza incertezze del maestro, ad esempio in quello che considero il suo libro più filosofico: Dallo Steinhof; quella voce del vero pensatore che a tratti si sente anche in Icone della legge:
La ricerca è l’esperienza continua della impossibilità della risposta – ovvero: che la risposta non-è-che-possibile. E come potrebbe darsi piena risposta, se un’essenziale, irriducibile dimenticanza fonda lo stesso domandare? (p. 91)
oppure in Geofilosofia dell'Europa, lì dove ad esempio discute della tolleranza nella tradizione umanistica del de pace fidei (dialogo tra religioni quale premessa della pace):
... non appena l’idea della tolleranza viene affrontata con la necessaria coerenza, essa non può che riuscire di nuovo in quella di armonia.
Una stessa voce che si ritrova a tratti anche in un lavoro apparentemente più esegetico, L'Angelo necessario, opere la cui impostazione è quella di un grande sapere e di una grande erudizione che si abbandonano all'imprevedibile rimaneggiamento e riattualizzazione suscitato di necessità dal loro conflitto con l'esperienza. Ciò che si chiama, se sostenuto da tensione analitica e sintetica, sapienza, e che si ritrova, spesso in forma di brevi aforismi (il frammento che torna caro ai romantici e a Leopardi, e che permette sempre e nuovamente di ricominciare ed eleudere la noia di produrre un lungo testo) in opere come la Gaia Scienza e Aurora di Nietzsche.
La ricerca è l’esperienza continua della impossibilità della risposta – ovvero: che la risposta non-è-che-possibile. E come potrebbe darsi piena risposta, se un’essenziale, irriducibile dimenticanza fonda lo stesso domandare? (p. 91)
oppure in Geofilosofia dell'Europa, lì dove ad esempio discute della tolleranza nella tradizione umanistica del de pace fidei (dialogo tra religioni quale premessa della pace):
... non appena l’idea della tolleranza viene affrontata con la necessaria coerenza, essa non può che riuscire di nuovo in quella di armonia.
Quali vie tentare,
allora? Possiamo forse pensare la pace al di fuori dell’idea di armonia e di
connessione? Ma proprio questo è il tentativo che, al fondo, è stato operato
dall’idea di tolleranza. Possiamo indebolire all’infinito quest’idea, senza per
ciò superare le sue aporie; anche se tolleranza per noi si riduce a vago
sentimento di affinità, a incerta, eclettica ‘simpatia’ col diverso, non è neppure concepibile il tollerare, se non nei
confronti di ciò che in nessun modo si ritiene espressione di verità. (p. 146).
Una stessa voce che si ritrova a tratti anche in un lavoro apparentemente più esegetico, L'Angelo necessario, opere la cui impostazione è quella di un grande sapere e di una grande erudizione che si abbandonano all'imprevedibile rimaneggiamento e riattualizzazione suscitato di necessità dal loro conflitto con l'esperienza. Ciò che si chiama, se sostenuto da tensione analitica e sintetica, sapienza, e che si ritrova, spesso in forma di brevi aforismi (il frammento che torna caro ai romantici e a Leopardi, e che permette sempre e nuovamente di ricominciare ed eleudere la noia di produrre un lungo testo) in opere come la Gaia Scienza e Aurora di Nietzsche.
martedì 20 agosto 2013
Rigore, quel grande sconosciuto. Arte letteratura teatro
Ripa autem ita recte definietur id, quod flumen continet
naturalem rigorem cursus sui tenens …
Sponda si definirà giustamente ciò che racchiude un fiume che conserva la naturale impostazione del
suo corso …
Traduco con impostazione
(più che con l'errato linea retta, che mi è capitato sicuramente di vedere) il latino rigor, utilizzato in questo frammento del Digesto di
Giustiniano per definire
il concetto di sponda di un fiume. E' uno dei pochi luoghi che conosco in cui rigor - che significa per lo più rigidezza in senso tecnico gia a partire da Lucrezio (dell’oro,
della pietra, del ferro) ma anche inflessibilità sul piano morale (Tacito) - è inteso in un senso più vicino all’italiano rigore quando si intende l’esecuzione
di un’opera, di un lavoro, la preparazione di una performance.
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lunedì 29 luglio 2013
“Fogna universitaria” e preterizione
Un bell’esempio di ciò che in retorica si chiama preterizione (il far finta di non voler dire una cosa per poterla dire ugualmente o per riportarla ironicamente - come quando si sentono frasi del tipo: ‘e non parliamo dei soldi che s'è fregato’; per non dire del suo caratterino ecc.) si può trovare in Plutarco,
nell’Eroticos, nel momento in cui
Flaviano, uno degli interlocutori del dialogo, dice a Autobulo (il personaggio
che dovrà riportare alcuni discorsi ascoltati a suo tempo sull’amore): “Tieni ora fuori dal tuo
racconto” (traduco un po’ liberamente dal greco) “tutto ciò che contiene descrizioni
di prati e di luoghi ombrosi tanto cari ai poeti, con i loro intrecci di edera
e rami di tasso e tutte quelle altre cose simili con le quali costoro si
sforzano di far propri – più illudendosi che ottenendo effettivamente qualcosa
di bello – l’Ilisso di Platone e quel suo agnocasto e quel declivio dolcemente
erboso”. È un riferimento al Fedro (il dialogo di Platone in cui si parla di
retorica e di amore), anzi una precisa descrizione del luogo dove Socrate e Fedro vanno a sedersi, le parole usate sono le stesse che nel dialogo platonico: l’erba, il dolce declivio,
l’agnocasto eccetera. Si potrebbe considerarlo una sorta di omaggio di Plutarco a
Platone – un riconoscere la grandezza di un maestro che ha scritto sull’amore
cinquecento anni prima; ma è anche nello stesso tempo uno strizzare l’occhio a chi dovrà o vorrà leggere, un volergli dire: ‘non ignoro
certo che prima di me c’è stato Platone, caro
lettore ipocrita, te che ti immagino pronto a
rinfacciarlo, tu che sei simile a me
.
Ricordo che anni fa un mio conoscente (oggi professore all'università) scriveva un articoletto da presentare a uno di
questi concorsi italiani tutti di facciata e col nome
del vincitore già deciso in anticipo (a patto ovviamente che il sempre nuovo predestinato non si dia la zappa sui piedi). E una sua amica
(all’epoca già professore) disse, vedendolo controllare e ricontrollare ossessivamente le bozze, gli disse con quell'aria da perfetta madreterna – ero io stesso presente: ‘Stai molto attento!’ … Un semplice consiglio, "amichevole", che direbbe poco o niente ai non addetti ai lavori, a chi non vive d'università: una galassia, questa, che in passato l’architetto
e urbanista Bruno Zevi, (lo stesso che lasciò l’insegnamento in forte
polemica col marciume “fascistoide” di destra di centro e di sinistra che imperava e impera tuttora nel baronato),
in un bellissimo e virulento articolo sull’architettura italiana intitolato Lineamenti di un’apologia del fascismo, chiamò apertamente “fogna universitaria”: una condanna in toto dell’accademia
e della neoaccademia, compresi concorsi e concorsini barzelletta. Da allora, da quando Zevi scrisse quella cosa, sono
passati più di trent’anni, e niente è cambiato se non in peggio, sicché almeno in questo il
presente equivale al passato.
Ignorando tale realtà, chiunque è fuori dal mondo universitario, chiunque cioè produce o fa muovere qualcosa di veramente concreto e utile al genere umano - l’operaio come il commerciante, i quali immaginano chissà quale bontà e quale incontaminato regno della "cultura" (hagnos in greco significa casto ma con diverso accento e senza aspirazione anche l'agnocasto del Fedro) - avrebbe difficoltà a intendere quella sorta di mafioso ammonimento (più che amichevole consiglio) a chi si
apprestava a partecipare a un concorso a ricercatore comunque truccato: “Stai attento!” Stai
attento a cosa? Stai attento a non fare errori: indica i "nomi e i lavori giusti", fai capire che conosci quanto è già stato scritto (dai membri di commissione) cita sempre l’ultima edizione di un’opera, mostrati
al passo con la ricerca – per quanto di vera ricerca nel mondo umanistico se ne faccia ben
poca e si sfornano solo articoli su articoli zeppi di errori concettuali ripresi tali e quali da altri che hanno scritto sullo stesso argomento e che a loro volta hanno copiato da chi li ha preceduti (pure da grossi nomi), senza mai nessun controllo né intervento critico, articoli e libri utili solo a far carriera e a nutrire lo spasmodico e smodato amor proprio di
chi li produce. In sostanza le idee contano poco: munisciti di un buon manualetto di
metodologia del lavoro scientifico e una volta trovato chi ti appoggia il gioco
è fatto.
Plutarco, che con la buona retorica oltre a divertirsi
divertiva gli altri, era lui stesso, da buon intellettuale, intrappolato duemila anni fa in questo ridicolo meccanismo tartufesco:
quello del rapporto col lettore ipocrita contemporaneo o a venire, cioè il lettore “colto”, quello che legge e ti critica
soltanto perché hai osato non fare un riferimento intelligente a ciò che è
stato detto prima di te, anche se ciò che ti ha preceduto è uno schifo illeggibile e risulterebbe uno schiaffo
all’intelligenza perfino il semplice riportarlo con ironia; e si tratta di un lettore che dà comunque per scontata la tua ignoranza (un po’ come
quella ragazza italiana che a Londra una sera mi corresse quando per gioco
dissi “andiamo tutti alla Tate”, e dissi Tate all’italiana invece che
all’inglese – ma valga per tutte quello che indirettamente rispose Proust a
Gide, che diceva di aver trovato “errori” ortografici nel manoscritto del Du coté de chez Swann: “il livello della nostra
cultura”, disse più o meno Proust, “non è tale da indurci a commettere consapevolmente
errori del tipo di quelli che ci vengono attribuiti’). Solo che Plutarco,
questi riferimenti al passato, alla sua cultura, li faceva appunto in modo più divertente, non senza un sorrisetto, prendendoti anche per i fondelli con questo meccanismo
della preterizione. Mentre nelle
università italiane (e non solo) di ironia non c'è traccia: e quando un
professore ha tra le mani un articolo di un collega, di uno suo pari, la prima cosa che fa va subito all’indice, per vedere se c'è il suo nome, se un qualche suo lavoro è stato citato; come seconda
cosa - invece di iniziare finalmente a leggere l’articolo - scorre velocemente le pagine per vedere se sono presenti le note e quante ce ne siano (cioè quelle stampelle senza le quali secondo gli universitari il testo da solo non può camminare, è cionco). E poi forse alla fine si decide a leggere. Così ancora un mio amico che si occupa di semiologia gregoriana anni fa presentò a un liturgista che dirigeva una rivista accademica, un articoletto su un frammento di pergamena usato come foglio di guardia di un libro antico – conteneva alcune righe di uno
dei sermoni di Leone Magno. E il liturgista non aveva nemmeno iniziato a guardare l’articolo che subito eclama: ‘ehilà ehilà ehilà (alalà),
dove sono le note?’ E quando questo mio amico me lo raccontò mi disse testuale: ‘mi
ripresi l’articolo e me ne andai, perché ti assicuro mi fece pena’. E in questo
caso, essendo quell’articoletto nient’altro che la pubblicazione di un
testimone inedito con varianti interessanti rispetto al testo conosciuto, non
so di che note quel liturgista parlasse. Al massimo serviva un piccolo apparato
critico di confronto con le lezioni degli altri manoscritti o famiglie
di manoscritti, cosa che nell’articoletto in effetti non mancava.
martedì 11 giugno 2013
invidia
Più che nei versi 109-111 del primo canto dell’Inferno (o più che altrove in questa stessa cantica), una più realistica descrizione delle alterazioni psico-fisiche che l’invidia produce in un qualsiasi invidioso Dante l'ha data nel Purgatorio, e in particolare in quel passo in cui Guido del Duca con estrema precisione gli descrive ciò che ha potuto di questa affezione osservare in se stesso. È in effetti non facile dover ammettere che all'invidia sia stata riservata - è il senso di questo percorso che Dante le fa fare dall'Inferno al Purgatorio - una specifica forma di espiazione. Non sembrerebbe esistere, infatti, pena sufficientemente grande per chi si abbandona a questa bestia spirituale che modifica l’aspetto esteriore di un uomo o di una donna nel modo che tutti sappiamo:
Fu il sangue mio d'invidia sì riarso
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m'avresti di
livore sparso
Non vi è individuo che fin dalla più tenera età non ne faccia esperienza, se sant'Agostino nelle Confessioni dice di aver visto un bambino guardare con penoso livore un altro bambino, suo fratello; e alberga, questa invidia, più nel mondo intellettuale e degli scrittori e degli artisti che in quello dell’uomo qualunque: le università ne sono pregne e anzi proprio chi nel mondo accademico, a giudicare dalle capacità e dalla non comune qualità del suo lavoro, dovrebbe esserne immune, appare roso dall’invidia fin nel midollo, ne è plasmato nella fisionomia, modificato nel colore, come nei versi di Dante. Lo stesso dicasi di tutti quegli ambienti dove strumento professionale è la parola: giornali e televisioni prima di tutto, ma anche di quei luoghi dove la parola dovrebbe essere preghiera: comunità monastiche, diocesane ecc.
Che l'invidia sia trattata in Dante così contraddittoriamente (una volta le fa infestare l’Inferno un’altra il Purgatorio)
non viene in realtà mai preso in considerazione nei tanti commenti inutili che i ragazzi
nelle scuole sono costretti a leggere. Eppure questa sorta di duplice localizzazione dell'invidia era forse l'unico artificio a cui il buon Dante - che dell'invidia fu vittima - avrebbe potuto ricorrere se voleva che l'intero impianto della Divina Commedia non gli crollasse addosso: perché se l’invidia l'avesse messa soltanto nell’Inferno, non ci sarebbero stati né Purgatorio né Paradiso: avrebbe dovuto fare un unico calderone di anime in pena.
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venerdì 3 maggio 2013
L'eta giusta per pubblicare e il ragioniere
Seguier durante l'entrata di Luigi XIV a Parigi
Tentare di pubblicare per la prima volta sottintende - diciamolo subito - il desiderio di un riconoscimento: essere considerati dei pari: cercare in tutti i modi di inserirsi in un ambiente al quale ancora non si appartiene, nel quale ancora non si è stati ammessi.
Ricordo anni fa un amico d'infanzia, col quale continuavamo a divertirci pure da adulti, mi disse: “adesso sono un personaggio pubblico!” Lo disse soddisfatto, senza nessuna ironia. Ebbi allora l’impressione, anche perché non era eccessivamente alto, di trovarmi finalmente di fronte all’incarnazione
di ciò che fino ad allora conoscevo solo come termine di dizionario: un
salapuzio. Smisi di cercarlo. In realtà il suo nome apparve per pochissimo tempo su certe locandine e per quel poco che ne so credo che anche in seguito non abbia ottenuto quella visibilità che forse inizialmente si aspettava. In più ha perso un
amico. E me ne dispiaccio, perché insieme si giocava veramente bene, almeno nel modo in cui lo facevamo noi.
C’è inoltre in Italia - a parte un legttimo desiderio di "pubblicare" - una certa
ossessione per l’età giusta, quella che bisogna necessariamente avere quando si pubblica per la prima volta,
cioè attorno ai vent'anni. Il che mi sembra di buon auspicio se è vero quanto si dice da millenni: che chi muore a vent'anni è perché gli dei lo amano. Ma sia pure. Pubblichi a vent'anni. Sei forse Mozart, che a undici anni musicava l'Apollo e Giacinto? Cosa mi racconti poi nei tuoi romanzi scritti a vent'anni? il numero dei contatti che hai su FB? il numero delle cliccate ricevute o il fatto che “a quello l’ho proprio pisciato perché c’aveva solo 15 followers"? Può anche andarmi bene, e anzi mi piace, ma se me lo ripeti dalla prima all'ultima riga preferisco sentirlo dal vero.
Di Umberto Ecco si legge su un blog letterario la risposta che ha dato a un ragazzo che voleva inviargli un suo manoscritto. Quest'uomo ormai ai vertici della fama - il che significa anche fuori dell'Italia - con le mani in pasta dovunque (riviste, quotidiani, corsi universitari, saggi, romanzi eccetera), dice al povero e sconosciuto aspirante alla gloria che purtroppo non potrà leggerlo. La sua risposta è emblematica: è un paradigma di paradossale gesuitismo, dove cioè si ammette e non si ammette nessun relativismo. Avrebbe potuto tagliar corto e fare come Bacon, che al pittore che in un pub chiedeva se poteva mostrargli le sue opere dice continuando tranquillamente a bere: "non ne ho bisogno, vedo già dalla cravatta che porti che non hai nessun talento". Con piglio invece da contabile più che da professore erasmiano Eco squaderna la sua memorabile agenda e spiega quali sono i motivi del suo rifiuto. Praticamente la mancanza di tempo. La mia giornata è così regolata, dice Eco: 5 min. per questo, dieci per questo, 23 per questo, un’ora e venti per questo, 2 ore per questo. E suggerisce al futuro romanziere di inserirsi negli ambienti delle riviste e cominciare a poco a poco a fare gavetta.
Un mio collega all’università a Londra ma di un altro dipartimento, genio dell'informatica, una ventina d'anni più di me, un bel giorno che eravamo fuori per il lunch e parlavamo di Giappone e di architettura contemporanea mi dice all'improvviso: “ma sai, io fino a qualche anno fa non ero per niente conosciuto nel mio campo, mi ero sempre occupato di urbanistica, lavoravo in un semplice studio dietro King’s Road: poi a quarant’anni ho fatto un altro PhD e eccomi qua a cinquanta a insegnare quello che sai".
Di Umberto Ecco si legge su un blog letterario la risposta che ha dato a un ragazzo che voleva inviargli un suo manoscritto. Quest'uomo ormai ai vertici della fama - il che significa anche fuori dell'Italia - con le mani in pasta dovunque (riviste, quotidiani, corsi universitari, saggi, romanzi eccetera), dice al povero e sconosciuto aspirante alla gloria che purtroppo non potrà leggerlo. La sua risposta è emblematica: è un paradigma di paradossale gesuitismo, dove cioè si ammette e non si ammette nessun relativismo. Avrebbe potuto tagliar corto e fare come Bacon, che al pittore che in un pub chiedeva se poteva mostrargli le sue opere dice continuando tranquillamente a bere: "non ne ho bisogno, vedo già dalla cravatta che porti che non hai nessun talento". Con piglio invece da contabile più che da professore erasmiano Eco squaderna la sua memorabile agenda e spiega quali sono i motivi del suo rifiuto. Praticamente la mancanza di tempo. La mia giornata è così regolata, dice Eco: 5 min. per questo, dieci per questo, 23 per questo, un’ora e venti per questo, 2 ore per questo. E suggerisce al futuro romanziere di inserirsi negli ambienti delle riviste e cominciare a poco a poco a fare gavetta.
Un mio collega all’università a Londra ma di un altro dipartimento, genio dell'informatica, una ventina d'anni più di me, un bel giorno che eravamo fuori per il lunch e parlavamo di Giappone e di architettura contemporanea mi dice all'improvviso: “ma sai, io fino a qualche anno fa non ero per niente conosciuto nel mio campo, mi ero sempre occupato di urbanistica, lavoravo in un semplice studio dietro King’s Road: poi a quarant’anni ho fatto un altro PhD e eccomi qua a cinquanta a insegnare quello che sai".
L’ossessione dell’età non è poi un fatto troppo curioso in Italia (che non è per niente il reame dei navigatori dei poeti e dei santi - e la Francia ha fondato da sola più ordini monastici lei che tutti gli altri messi insieme): una nazione, la nostra, interessata più alla “bella figura”
che alla sostanza - altri segni evidenti di questa sibaritica confusione e
incertezza mentale e intellettuale sono l’intricata burocrazia e il desiderio di leggere i propri fatti sui siti stranieri - cosa dicono ad esempio il Guardian, Le Monde o il Frankfurter Algemeine o El Pais se l'ultimo dirigente di un partito se l'è fatta adddosso. C’è proprio da immaginarli i britannici mentre consultano i giornali
stranieri per vedere se si parla di loro, nelle piccole come nelle grandi cose.
Montaigne non pubblicò quasi niente, il suo diario di viaggio venne stammpato un paio di secoli dopo, e quando pubblicò la prima edizione dei Saggi aveva quarantasette anni.
Stendhal, a parte alcune cosucce su Rossini e Cimarosa e altre amenità, diede alle stampe il suo
capolavoro, Il rosso e il nero,
a cinquant’anni, forse qualche annetto in meno, ma nel tempo perso si
divertì alla grande e soffrendo anche per amore e ad ogni modo nella maniera
che descrive magistralmente in una delle sue opere più belle, pubblicata postuma, Ricordi
di egotismo.
E per sfortuna di tanti autori
che credono di aver toccato i primi gradini della fama, di avere svoltato, di essersi finalmente inseriti da qualche parte mentre tra qualche anno ne ritroveremo i
tristi volumi accatastati nei remainders, oggi c’è internet, su cui pubblicano tutti, e
tutti possono farlo. Se fossi stato quindi nei panni di Eco avrei detto a quel ragazzo: vediamoci da qualche parte e ci prendiamo un bel caffè e chiacchieriamo d'altro: per quale motivo prendersi tanto sul serio, cercare di entrare dentro un ambiente nel quale sai bene, a giudicare dalla lettera che mi hai scritto, che non ti accetterebbero, e all'interno del quale, ammesso che tu riesca a passare e fossi pure uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, saresti in compagnia di tantissima mediocrità ... Avrebbe usato anche meno parole, il ragionier Eco. Un gran risparmio sul suo prezioso tempo.
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