venerdì 16 settembre 2016

Il ritardo di Dio

La questione dello stupore di fronte alla evidente non punizione del peccatore è in realtà da sempre la questione del ritardato intervento divino: un Dio in qualche modo umanizzato, capace anche di pentimento:

Et Samuhel lugebat Saulem, quia paenituerat Dominum quod unxisset eum regem super Israhel (Hier., Ep., 147, 1 - ad Sabinianum).

Il ritardo dell'intervento divino sul peccatore può essere però anche visto nell'ottica di un "progresso" ideologico dell'umanità: rendere possibile l'apparizione di quei pochi grandi intellettuali in grado di farci cambiare definitivamente il punto di vista, il modo di vedere le cose. Che non è altro che una delle interpretazioni che di questo ritardo offre Girolamo nell'epistola citata sopra:

Alioquin si protinus scelerum ultor exiteret, et multos alios et certe Paulum apostolum ecclesiae non haberent (147,3).

Invecchiare contro natura

Il san Girolamo degli ultimi anni è un notevole esempio di invecchiamento contro natura, se si deve prendere per buona la sarcastica interpretazione che della vecchiaia dà Erasmo nell'Elogio della follia. Invecchia, nonostante quanto dice di sé, nel pieno possesso delle sue facoltà e senza riacquistare niente (grazie a un salutare rim-bambimento) dell'allegra follia del ragazzino. Sempre che nel caso di san Girolamo non si debba ammettere un disguido di natura, che sia nato già vecchio e bilioso. E quella stessa bile la si trova all'inizio come alla fine della sua carriera. Le sue ultime epistole rigurgitano del fiele dell'odio ideologico - ma è sempre la stessa pappa nei Padri: un linguaggio militante mutuato dalla Sacre Scritture. Appare intrappolato a cementizzare (peraltro senza mostrare eccessiva fiducia) il traballante edificio della Chiesa in epoca di devastazioni eretiche, con qualche sospiro di sollievo nel caso in cui una contestata elezione al soglio vada a buon fine, cioè secondo i suoi piani, quando riesce a portare a casa l'elezione di un vecchio amico (Bonifacio). Ma è negli attacchi alle varie sette (ofiti, pelagiani ecc.) che offre il meglio ("hereticorum pectora non posse purgari ego testis sum", "vere dicam quod sentio: in his hereticis illud exercendum est Daviticum: in matutinis interficiebam omnes peccatores terrae", "delendi sunt, spiritualiter occidendi", non possunt per emplastra et blandas curationes recipere sanitatem", "nec eorum scriptis, quae ignoro, moveor, cum sciam voluntatem quidem blasphemiae pessimam", "tamen si scripserint et in meas aliqui pervenerit manus, ut non superbe loquar sed sim par insaniae eorum").

Insomma, se c'è follia non è giocosa, non è di tipo infantile, e soprattutto è follia consapevole (ut ...sim par insaniae eorum), ciò che ne sminuisce l'attrattiva, mostra l'uomo frustrato, il quale sente che dopotutto potrebbe aver fallito. Non sa mettere da parte il miles Christi, nemmeno quando dovrebbe congratularsi (essere felice) per il buon esito dell'ordinazione dell'amico al soglio, non riesce a non aggiungere alla fine un postscriptum in forma di spada: "sentiant heretici inimicum te esse etc".

Ilio felice

la condizione infantile è forse l'unica capace di deviare gli attacchi del linguaggio, e quindi di qualsiasi ideologia. A un in-fante, a un senza-parola, il mondo appare necessariamente irrisolto: a ogni nuovo evento si potrebbe dire per lui: inventa est res quam nulla eloquentia explicare queat. Il vero eroe allora sarebbe colui capace di non apprendere mai nessuna lingua. Sarebbe un lunghissimo assedio, nessun esercito acheo potrebbe mai espugnare Troia: Agamennone, Menelao, Aiace, Ulisse, Achille, Licomede, Medonte, Patroclo, Palamede ecc.: nessun piccolo eroe acheo riuscirebbe a portare a termine il suo compito, e morirebbe di vecchiaia sul campo. La maggior parte delle opere che li vede protagonisti sarebbe inesistente, non ci sarebbe Odissea. Ma per chi è dentro le mura sarebbe non Babele felice ma Ilio felice.

giovedì 15 settembre 2016

Leggi "simpatiche"

La legge di Osthoff è una di quelle leggi "simpatiche", poco complicate, lo studente di greco avrebbe buon gioco. Peccato che come tutte le leggi e i tentativi di normalizzare i fatti di lingua, contiene eccezioni, e basta un'eccezione per invalidare una legge (l'omerico νῆυσι resta per esempio felicemente fuori, e il tentativo di spiegarlo da un originario *néh2u-, rimane una congettura.

Lo stesso può dirsi della legge di Wheeler, ugualmente "simpatica", amichevole, una vera chicca fonologica dal soprannome sfizioso: la legge del dattilo finale. Ha quantomeno il merito di "illuminare" la questione dell'accento nel participio perfetto medio-passivo (perché diavolo a differenza degli altri participi che gli somigliano avrebbe quello strano accento sulla penultima). Ma anche qui le eccezioni non mancano: μυελός, ὀμφαλός,ὀρφανός, e restano fuori ( a differenza del latino e dell'italiano) gli aggettivi del tipo -ικος (μαθηματικός, ἀστικός ecc.) - aggettivi però di "classe", colti, intelellettualizzanti (Aristofane li mette in bocca ai "bei parlatori"),  e si prestano a essere accentuati in un certo modo, un segno di distinzione, così come in italiano si tende a accentuare in modo errato, ritraendo l'accento sulla terzultima, alcuni nomi poco nell'uso e creduti colti (pùdico, tàfano), e in effetti anche nel latino e poi nelle lingue europee questo suffisso finisce per denotare l'appartenenza a un gruppo, ha una funzione classificatoria, categorizzante (vedi su questo l'insuperato e insuperabile studio di Chantraine). In questo senso, e solo in questo senso, farebbe pensare al -ka dell'indoeuropeo, che è la marca del genitivo dei pronomi personali, una marca di appartenenza.

L'intellettuale e il paradosso del mentitore

Gli intellettuali (le "scienze" umane) hanno tuttosommato poco a che fare col progresso umano, se si escludono quei grandi nomi (compreso Sofocle, che intuiva la questione) a giusto titolo entrati a far parte del novero dei classici - totalmente assenti oggi non perché non sia passato un numero sufficiente di anni per poterli considerare tali (Ars poetica) ma perché per i nomi di oggi, a quello che almeno si vede, non ci sarà nessuna speranza di memoria, se non per qualche futuro database. E si leggono, i classici, non per quello che dicono (si possono contare, anche qui, sulla punta delle dita coloro che hanno detto qualcosa che ha determinato un cambiamento nei modi di vedere di un'epoca) ma per come lo dicono. Inoltre gli intellettuali oggi rientrano quasi tutti nella schiera dei professori universitari. E le idee dei professori universitari non sono mai state di nessuna utilità, come lo è invece il lavoro di un muratore o di un operaio dentro una fabbrica. Non sono utili nemmeno ai loro studenti, che potrebbero trovare meno compromettente tentare di afffinare da subito il senso critico e fare una cernita degli errori contenuti nei libri da portare agli esami. Non è molto interessante sentire un intellettuale in televisione, o leggerne un libro, e non solo perché lo scopo è quello di copiarsi e scopiazzarsi a vicenda senza neanche accorgersi degli errori di coloro che citano. L'importante è che il discorso abbia una coerenza, in nome di quale logica è tuttavia da vedere, dal momento che per esempio una logica fuzzy, una logica polivalente, di origine booleana, sfuggirebbe completamente a questa posizione arcaica (tuttora della televisione, del web) del professore che parla di un certo argomento con cognizione di causa. Il paradosso del mentitore non potrebbero spiegarlo, resta per loro un paradosso, non avrebbe semplicemente, come in una logica fuzzy, un valore medio tra 0 e 1.

venerdì 19 agosto 2016

Il burkini del voyeur

Ipocriti gli occidentali (Angela Merkel & C), che parlano di ostacolo all'integrazione ... "Integrazione al mercato", andrebbe detto. Ma ipocrite anche le musulmane in burkini sulle spiagge piene di maschioni col pisellone che preme sotto il costume. Si dirà: da qualche parte devono pure andare a farsi il bagno visto che le spiagge sono dovunque e comunque affollate. Ma appunto, nella vita bisogna saper rinunciare, a volte ...

martedì 21 giugno 2016

Quando Krishna aiuta la filologia. Due versi del Baghavadgita

La banalizzazione di una delle strofe più cariche di tensione del Baghavadgita - la decima del primo canto - è un tipico esempio degli errori che si producono in filologia quando una non necessariamente modesta capacità linguistica non è sorretta da sufficiente "acume" critico, quando cioè il desiderio di brillare sempre e comunque, di porsi a tutti i costi in mostra, fa scendere nel campo azzeccapastrobubbolesco della filologia un qualsiasi ultimo editore che voglia confrontarsi col già detto - e detto e ripetuto erroneamente.

Così non c'è nessuna ragione di ritenere corrotto il testo tradito di questo passo del Gita, o del suo parallelo nella tradizione separata del sesto parvan del Mahabharata (6.10.1-2):

अपर्याप्तं तद् अस्माकं बलं भीष्माभिरक्षितम् /
पर्याप्तं त्विदम् एतेषां बलं भीमाभिरक्षितम् //

Sono state proposte le più disparate interpretazioni, forzato il "genio" del sanscrito ("quello" tradotto con "questo" e viceversa), dato un significato artificioso a pariapta (limitato invece che sufficiente, all'altezza, uguale a), elaborate interpretazioni così fantasiose, così poco concrete che a volerle ammettere sarebbe permesso, in filologia, qualsiasi intervento, far dire tutto e il contrario a un autore. E basterebbe, a titolo di esempio, riportare l'incomprensibile traduzone di Winthrop Sargeant, che per il resto è sempre o quasi sempre puntuale:

sufficient is that force of ours guarded by Bhīma;
insufficient though is the force guarded by Bhima.


I primi mal di pancia iniziarono in realtà quando più di un antico commentatore indiano si accorse che le forze militari di Duryodhana (il personaggio che in questi due śloka parla) erano di gran lunga superiori a quelle degli avversari, dei figli di Pāṇḍu. Impossibile, quindi, secondo i più, che Duryodhana voglia intendere che le sue forze siano "non sufficienti", non all'altezza degli avversari; o che nel farlo non si accorga di compromettere il morale degli uomini. Il quale Duryodhana, per essere precisi, sta parlando non all'intera armata ma al loro maestro d'armi, al valoroso Drona, lo stesso che ha addestrato i guerrieri schierati sotto i loro occhi (ma se pure parlasse all'intero esercito non farebbe nessuna differenza).

Il passo, di una cristallinità disarmante, continuò a suscitare interesse nella critica moderna. Perfino uno studioso del calibro di van Buitenen cadde in questa ridicola trappola, in un vecchio articolo del Journal of American Oriental Society. Basandosi su un commento di Vedāntādeśika a Ramanuja e citando un manoscritto saradico e un commento di Bhaskara il Vedantino, arrivò a vedere nella tradizione di questo passo un'inversione dei nomi che compaiono nei due versi: in altri termini, al posto di Bhīma si dovrebbe leggere Bhīma e al posto di Bhīma Bhīma. Che non è altro, in sostanza, che il capovolgimento del criterio pirincipe della critica testuale, il criterio dell'autorevolezza della lectio difficilior (rendere al contrario tutto più semplice e accontentare una logica dei presupposti). C'è da dire che van Buitenen dedica solo le prime pagine alla questione, ammette che il passo è apparentemente adamantino, "seemingly transparent", e propone la sua versione, che in qualche modo, e indirettamente, riesce a far quadrare, si avvicina al senso più ovvio:

that army guarded by Bhima is not equal to us;
on the other hand, this army, guarded by Bhīma is equal to them;

per il resto si dedica a problemi più interessanti: ai rapporti codicologici tra le due differenti tradizioni - il testo separato del Baghavadgita, e lo stesso testo contenuto nel Mahabharata.  Perfino la critica contemporanea continua a battere sul seminato, sull'erba cattiva (tra gli antichi soltanto giustamente Sankara, il filosofo, non s'è sognato di commentare la giustezza di questi versi, ma forse, anzi sicuramente, in lui giocavano altre ragioni, il fatto che questa prima sezione del Gita non presenta interessi dottrinali).

Le confusioni e gli errori in filologia nascono sempre da un'interpretazione del testo avviata non sulla base di una nozione di uso, e di possibili usi linguistici che sfuggono alla norma, o non immediatamente "propri" di un  particolare autore, o sulla base di considerazioni di natura estetica, ma seguendo una logica normativa, di attese non pienamente soddisfatte - e non soddisfatte il più delle volte perché l'autore a tutto pensava meno che a soddisfare l'idiozia di un critico. Dove sarebbe d'altronde l'onnipresente ironia del Gita (vedi ad esempio la strofa 41 del primo canto, le donne corrotte, che coi loro figli illegittimi creano disordine nelle caste, un timore inevitabilemente ironico di Arjuna, dal momento che né lui né i suoi fratelli sono esattamente figli di Pāṇḍu; e ancora nelle strofe 20-23, l'immobilismo di Arjuna, che se da un lato chiede a  Krishna, il suo auriga, di piazzargli il carro in mezzo alle due armate, è poi incapace di agire e scegliere tra due forze opposte ecc.), dove finisce il capovolgimento artistico? e per quale motivoDuryodhana, che è senza dubbio un valente militare, e dispone di un numero superiore di soldati, avrebbe dovuto riaffermarlo, e vantarsene addirittura col suo maestro: dichiarare una simile banalità se non per attirarsi addosso un'accusa di superbia e vanagloria? E dove sarebbe l'attesa non del critico ma del lettore o dell'ascoltatore, se crede che i giochi siano già fatti visto che Duryodhana è superiore all'avversario? E in effetti lo dice: afferma che le sue forze sono superiori ma per capovolgerne immediatamente l'assunto: che non si sente cioè affatto superiore. In cosa dovrebbe consisterebbe l'eroismo se si combattesse contro un avversario ritenuto inesistente?

Sarebbe bastata questa semplice considerazione di natura estetica (pur lasciando fuori ogni considerazione sintattica) a tagliare la testa al toro. Una confusione che nasce da una visione banalizzante delle cose. E la questione era semmai come rendere il termine chiave पर्याप्त्म् (paryāptam), e la sua negazione, आपर्याप्त्म् (aparyāptam), posta in opposizione all'inizio del verso precedente. E inoltre, in che funzione intendere बलम् balam (forza - all'accusativo, non al nominativo, come si è sempre erroneamente inteso), il quale (cosa a cui nessuno ha mai pensato) è un semplice accusativo di relazione - o dipendente da un participio sottinteso (di noi che abbiamo una forza sorretta da Bhishma) - vedi su questi usi dell'accusativo ad esempio il secondo canto, anche qui un accusativo neutro, all'interno, tra l'altro, di un tipico composto bahuvrīhi:

अश्रुपूर्णाकुलेक्षणम् - laśrupūrṇākulekṣaṇam (2,1)

l'occhio abbattuto e pieno di lacrime

o nel terzo libro, le parole di Krishna a Arjuna, quando lo invita a sottostare all'inevitabilità dell'azione:

नियतं कुरु कर्म त्वम् - nyata kuru karma tvam (3,8)

sottomesso, agisci!

dove sottomesso (नियतम्) è ovviamente, anche questo, un accusativo.


Lo stesso vale - riandando al primo canto - per il secondo verso della strofa (di loro che hanno una forza sorretta da Bhima).  E così  तद् (tad - quella), e  इदम् (idam - questa) staranno bene al loro posto e continueranno a significare quello che hanno sempre significato e non l'opposto.

Insomma i due śloka vanno intesi:

Non è uguale, quella, a noi: una forza (la nostra) guidata da Bhishma
eppure è uguale, questa, alla loro: una forza (la loro) sorretta da Bhima

E il senso è che Bhima non solo non è inferiore a Bhishma (come afferma Edgerton - "unskilled") ma anzi, per il fatto che sia lui a guidare le forze dei figli di Pāṇḍu, pone questi, seppure in numero inferiore, all'altezza degli avversari.

lunedì 6 giugno 2016

Lo sguardo di chi passa alla storia

Se nella guerra contro Artaserse Ciro avesse prevalso, Senofonte avrebbe scritto un buon numero di altre opere, e siccome era destino che si conservasse tutto di questo scrittore, avremmo letto di Ciro negli anni della maturità e forse nella vecchiaia. Senofonte l'avrebbe seguito a Babilonia o a Susa, sarebbe rimasto a corte e avrebbe forse dimenticato generosità, nobiltà, coraggio, lealtà: tutto ciò che vedeva e apprezzava in lui, e avrebbe finito per scrivere papponi indigeribili.  Che sia quindi morto giovane e in battaglia è ammirevole. Restò il desiderio di scriverne. Di sicuro ebbe il tempo di farsi di nuovo osservare qualche istante prima della battaglia finale da un altrettanto giovane Senofonte, che giustamente, nella narrazione, dispone il punto di vista in terza persona, le poche righe nel primo dell'Anabasi, lo sguardo di due giganti a cavallo:

ἰδὼν δὲ αὐτὸν ἀπὸ τοῦ Ἑλληνικοῦ Ξενοφῶν Ἀθηναῖος, πελάσας ὡς συναντῆσαι ἤρετο εἴ τι παραγγέλλοι: ὁ δ᾽ ἐπιστήσας εἶπε καὶ λέγειν ἐκέλευε πᾶσιν ὅτι καὶ τὰ ἱερὰ καλὰ καὶ τὰ σφάγια καλά (I, viii, 15)

e vedendolo dalle schiere dei greci Senofonte l'ateniese essendosi avvicinato in modo da trovarselo davanti gli domandò se avesse ordini. Ciro fermandosi disse e ordinò di riferire a tutti che (ai sacerdoti)  le vittime erano apparse propizie e le viscere lo erano state ugualmente

- due giganti votati a passare alla Storia per motivi complementari: sia perché in un caso era stata una risalita (anabasis) e nell'altro sarebbe stata una discesa (katabasis), alla guida ideale della prima Ciro, della seconda Senofonte, sia perché l'uno senza l'altro sarebbe rimasto una figura sbiadita e viceversa. E resta incertezza sulla lingua usata, se ci fosse un interprete o se Ciro parlasse con Senofonte direttamente in greco.Vedi anche, sul sentimento di reciproca ammirazione - dell'uomo d'azione e dello storico - quanto scrive Plutarco nel De gloria Atheniensium, dedicato alla questione della preminenza, se sia cioè più importante chi fa la Storia o chi la scrive - Plutarco essendo semplicemnte biografo e geniale compilatore accetta la supremazia dell'uomo d'azione. E in effetti senza l'azione chi scrive di storia non avrebbe niente da dire ma è pur vero che tanti uomini d'azione ricevettero impulso dalla lettura. Che poi agli inizi, alle origini, ci sia prima di tutto l'azione diventa irrilevante.

martedì 31 maggio 2016

Velocità dell'informazione e inutilità della specie umana

La sproporzionata estensione di uno stato e la potenza di mezzi di cui dispone non giocano necessariamente a favore in caso di un attacco nemico concentrato in un punto. La velocità delle informazioni toglie indubbiamente non poche speranze all'attaccante tuttavia la sorpresa può giocare ancora un ruolo fondamentale. E tanto più quanto più sarà necessario spostare enormi contingenti da una zona a un'altra. Insomma è sempre il tempo il deus imperans, e in ultima analisi la lentezza con cui gli uomini continuano a muoversi. Vedi quanto scrive duemila e cinquecento anni fa Senofonte nel primo dell'Anabasi, le marce sempre più forzate di Ciro per impedire che Artaserse raccolga  attorno a sé l'immensa forza di cui dispone:

νομίζων, ὅσῳ θᾶττον ἔλθοι, τοσούτῳ ἀπαρασκευαστοτέρῳ βασιλεῖ μαχεῖσθαι, ὅσῳ δὲ σχολαίτερον, τοσούτῳ πλέον συναγείρεσθαι βασιλεῖ στράτευμα. καὶ συνιδεῖν δ' ἦν τῷ προσέχοντι τὸν νοῦν τῇ βασιλέως ἀρχῇ πλήθει μὲν χώρας καὶ ἀνθρώπων ἰσχυρὰ οὖσα, τοῖς δὲ μήκεσι τῶν ὁδῶν καὶ τῷ διεσπάσθαι τὰς δυνάμεις ἀσθενής, εἴ τις διὰ ταχέων τὸν πόλεμον ποιοῖτο. (I, 5, 9)


sabato 28 maggio 2016

Cremazione e fede

La chiesa cattolica continua a preferire l'inumazione alla cremazione come recita il canone 1176, comma 3:

la Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana.

Questo raccomandare è la continuazione di un atteggiamento politico, militaresco, la cremazione appartenendo a una visione non tradizionalista delle esequie e da guardare comunque con sospetto; la stessa ragione per cui nel 1886 la Chiesa aveva introdotto il divieto della cremazione opponendosi agli usi della massoneria. E' quindi la confessione di una debolezza di fede: l'attribuzione a Dio di una non capacità di arginare le rivendicazioni dell'ateismo. Una preoccupazione evidentemente ignota ai primi cattolici, in secoli di straordinaria fede, preoccupazione ignota a quanti osteggiavano il paganesimo e a chi era in guerra perpetua per la supremazia temporale. Vedi ad esempio gli esametri di coloritura omerica e ionica di Gregorio Nazianzeno, dove l'unico timore di cui si parla è quello del tribunale di Dio:

... Τυτθῆς φρενὸς ἥδε μεληδὼν,
Εἴ τε τάφῳ δώσει τις ἐμὸν δέμας, ἄπνοον ἄχθος,
Εἴ τε καὶ ἀκτερέϊστον ἕλωρ θήρεσσι γένοιτο,
Θήρεσιν, ἠὲ κύνεσσιν ἑλώριον, ἢ πετεηνοῖς,
Εἰ δ’ ἐθέλεις, πυρίκαυστον ἐς ἠέρα χείρεσι πάσσοις,
Ἠὲ κατὰ σκοπέλων μεγάλων ῥίψειας ἄτυμβον, 
Ἢ ποταμοῖσι πύθοιτο, καὶ ὑετίῃσι ῥοῇσιν
Οὐ γὰρ ἄιστος ἐγὼ μόνος ἔσσομαι, οὐδ’ ἀσύνακτος. 
Ὡς ὄφελον! πολλοῖς τόδε λώιον κτλ

E' preoccupazione di una mente angusta
se il mio corpo, fardello senza respiro, avrà una tomba,
se avrà o meno lacrime o ciberà qualche bestia,
che lo divorino cani o uccelli
o se bruciato sarà sparso nell'aria,
o se tra immense roccce lo getterai insepolto,
o se a vederlo saranno fiumi o torrenti di pioggia:
non sarò sconosciuto, non sarò solo, non sarò disperso.
Magari! ... è la speranza di molti ...
(Ad se ipsum per interrogationem et responsionem, 17-25, PG 37, 1348).



venerdì 6 maggio 2016

Lisia e la banalità del male

Una delle pagine più commoventi della letteratura greca l'ha scritta l' "avvocato" Lisia - se si può trovare commovente un qualsiasi testo di un qualsiasi autore che riconosca e approvavi la distinzione tra liberi e schiavi (in quest'ottica, l'ipocrita sensibilità di oggi dovrebbe condannare oltre alle varie forme di schiavismo tutte le letterature antiche senza eccezioni, e a farne le spese sarebbero in primo luogo le cattedre universitarie, che tali letterature esaltano e grazie alle quali prosperano, coi vari professori e ricercatori che andrebbero a zappare la terra - vedi quando ho detto in La "morte" di una schiava e il cinema degli antichi ).

E' il passo dell'orazione che Lisia pronunciò nel 404 nel processo che intenta personalmente contro Eratostene, uno dei trenta boia fascisti insediatisi quello stesso anno, per soli otto mesi, dopo la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso. E' il punto dove dice della morte del fratello Polemarco, comandata dai Trenta, che s'erano già appropriati dei suoi beni durante l'attacco ai metechi, gli "stranieri" residenti a Atene, tra i quali c'erano appunto Lisia - che era riuscito a scappare - e il fratello. E' una pagina che per la mancanza assoluta di pathos, di ostentata emozione, ottiene l'effetto opposto, quello di lasciare il lettore moderno senza parole di fronte alla narrazione della banalità del male, secondo la definizione del male che ha dato genialmente Hannah Arendt.

Πολεμάρχῳ δὲ παρήγγειλαν οἱ τριάκοντα τοὐπ' ἐκείνων εἰθισμένον παράγγελμα, πίνειν κώνειον, πρὶν τὴν αἰτίαν εἰπεῖν δι' ἥντινα ἔμελλεν ἀποθανεῖσθαι· οὕτω πολλοῦ ἐδέησε κριθῆναι καὶ ἀπολογήσασθαι. καὶ ἐπειδὴ ἀπεφέρετο ἐκ τοῦ δεσμωτηρίου τεθνεώς, τριῶν ἡμῖν οἰκιῶν οὐσῶν <ἐξ> οὐδεμιᾶς εἴασαν ἐξενεχθῆναι, ἀλλὰ κλεισίον μισθωσάμενοι προὔθεντο αὐτόν. καὶ πολλῶν ὄντων ἱματίων αἰτοῦσιν οὐδὲν ἔδοσαν εἰς τὴν ταφήν, ἀλλὰ τῶν φίλων ὁ μὲν ἱμάτιον ὁ δὲ προσκεφάλαιον ὁ δὲ ὅ τι ἕκαστος ἔτυχεν ἔδωκεν εἰς τὴν ἐκείνου ταφήν.

A Polemarco i Trenta intimarono ciò che per questa gente era all'ordine del giorno: di bere la cicuta. E lo fecero ancor prima di rendergli nota l'accusa per la quale doveva morire, facendogli così mancare processo e difesa. E appena il corpo fu portato fuori dal carcere non vollero che il corteo funebre partisse da nessuna delle tre case che noi possedevamo, ma avendo affitttato loro stessi una stanzetta lo fecero esporre lì. E pur avendo noi indumenti con cui vestirlo non concessero nemmeno questo alle persone che lo chiedevano, ma furono gli amici a dare chi un mantello chi un cuscino ognuno ciò che aveva per seppellirlo.



















Vocali al servizio della religione

Un greco dei tempi di Erodoto o un latino dei tempi di Varrone, i quali pur non sprivvisti di vocali disponevano di un gran numero di parole terminanti in consonante, se ascoltassero parlare gli italiani non sentirebbero che un continuo a-o-a-i-e-o-u-a-e-i-o-a-i-o-u-i-e-a ... Gli italiani, senza vocali, sarebbero persi, non saprebbero a che santo votarsi se è vero che riempiendosi la bocca di a-e-i-o-u continuano semplicemente un percorso di lamenti: un'attitudine in certo senso religiosa - cattolica, la nostra - nemica di tutto ciò che è civico, se per civico si intende il contrario di tutto ciò che è istituzionalmente religioso e violentemente intollerante. E continuano, gli italiani e i cattolici, una tradizione anche più antica della loro, e sicuramente meno feroce. E' con le vocali, in fondo, che i sacerdoti egiziani celebravano gli dei. Vedi quanto dice Demetrio Falereo nel De elocutione

 Ἐν Αἰγύπτῳ δὲ καὶ τοὺς θεοὺς ὑμνοῦσι διὰ τῶν ἑπτὰ φωνηέντων οἱ ἱερεῖς, ἐφεξῆς ἠχοῦντες αὐτά, καὶ ἀντὶ αὐλοῦ καὶ ἀντὶ κιθάρας τῶν γραμμάτων τούτων ὁ ἦχος ἀκούεταιì. (71, 1-5)

In Egitto i sacerdeti inneggiano agli dei per mezzo delle sette vocali, emettendole di seguito, così che invece del flauto e della cetra si sente il suono di queste lettere.

Ma le testimonianze sono innumerevoli, anche se stranamente si accumulano in maniera ossessiva proprio nei primi secoli dell'era cristiana, quando il cattolicesimo si avviava a diventare religione omicida (i settemila non catolici massacrati a Tessalonica da Teodosio, le distruzioni dei templi di Efeso e di Marnas, i massacri del vescovo Teofilo a Alessandria eccetera). Si potrebbero citare, "a cavaliere" o "a fante" di una tradizione ancora pagano-cattolica, Servio, Porfirio, Eusebio, Giamblico. Per esempio negli scoli vaticani dei commenti alla Techne grammatike di Dionisio Trace si trova la seguente chicca (si tratta sicuramente di materiale di Porfirio):

Ταῦτα γὰρ τὰ φωνήεντα τοῖς πλάνησιν ἀνάκεινται· καὶ τὸ μὲν <α> φασὶ τῇ Σελήνῃ ἀνακεῖσθαι, τὸ δὲ <ε> τῷ Ἑρμῇ, τὸ δὲ <η> τῇ Ἀφροδίτῃ, τὸ δὲ <ι> τῷ Ἡλίῳ, τὸ δὲ <ο> τῷ Ἄρει, τὸ δὲ <υ> τῷ Διί, τὸ δὲ <ω> τῷ Κρόνῳ. (p.198, 4 ed. Hilgard)

Queste vocali sono dedicate ai pianeti [divinità]: la A alla Luna, la E a Mercurio, la ETA a Venere, la I al Sole, la O a Marte, la Y a Giove, OMEGA a Saturno.

E in Apuleio, nell'undicesimo delle Metamorfosi, Lucio, che non ha ancora ripreso le sembianze umane, in forma quindi di asino, dopo essersi svegliato da un incubo si lava immergendo la testa (e la criniera) ben sette volte nel mare:

numerum praecipue religioni aptissimum divinus ille Pythagoras prodidit

un numero tramandato dal divino Pitagora come adattissimo alla religione,

non solo in accordo col numero delle vocali dei latini e dei greci, appartenendo il testo ancora a un robusto paganesimo, ma aprendo la strada anche al futuro sette cattolico romano (sette come le peccata), e al Settebello (gioco di carte e treno) e al Tresette - come dimenticare che l'asino d'oro di Apuleio, che pur emettendo vocali raglia, è debitore, nel titolo, alla Citta di Dio di sant'Agostino, il quale ci avrà sicuramente visto una storia di conversione?

Ma per tornare all'Italiano, alla lingua, e alle sue radici nella religiosità antica, il fatto che sia il paradiso delle vocali non significa che altre nazioni meno provviste non si siano date ugualmente da fare, dal momento che, a sentire sempre alcuni autori antichi, la divinità non la si venera unicamente con le vocali ma anche attraverso schiocchi, fischi, sibili e altri suoni inarticolati di ogni genere - si sa per esempio che nelle parlate zulu predominano i click, i battiti di lingua, il tedesco soffia e sibila e abbaia, gli inglesi hanno ugualmente un gran numero di aspirate, gli spagnoli seguono i latini (non tutto è vocale) e c'è molto di gutturale o semitico, i francesi tendono a smorzare le vocali in semivocali, l'arabo e l'ebraico raschiano come e più degli spagnoli - giapponese e cinese, in quanto a vocali finali si sposano con l'italiano ecc... E si potrebbe, in questo gran calderone dei suoni al servizio della religione di ognuno, citare Nicomaco di Gerasa, il matematico, :

διὸ δὴ ὅταν μάλιστα οἱ θεουργοὶ τὸ τοιοῦτον σεβάζωνται, σιγμοῖς τε καὶ ποππυσμοῖς καὶ ἀνάρθροις καὶ ἀσυμφώνοις ἤχοις συμβολικῶς ἐπικαλοῦνται. (Excerpta, 6, 12-15).

perciò i teurgi ogni volta che veneravano, invocavano simbolicamente per mezzo di sibili e schiocchi e suoni inarticolati e discordanti.

Ma per lo stesso discorso varrebbe ugualmente bene un testo magico conservato in un papiro del terzo secolo dell'era cristiana, il papiro W di Leida, che contiene estratti dai libri apocrifi di Mosè. Si parla di procedure e figure da utilizzare durante alcuni riti

αὐτὸς γὰρ ὁ ἱερακοπρόσωπος κορκόδειλος εἰς τὰς δʹ τροπὰς τὸν θεὸν ἀσπάζεται τῷ ποππυσμῷ. (p. W, p. 2, 40-41 - p. 85, v. 2, ed. Leemans).

Lo stesso coccodrillo col volto di falco, [rivolto] secondo le quattro conversioni, saluta il dio [sole] con uno schiocco.

Ecc. ecc.




mercoledì 4 maggio 2016

Lectio facilior. Il culo profumato dei cani e gli splendori offuscati di Cicerone.

Se si volesse applicare con costanza il criterio della lectio difficilior alle opere di Cicerone (cosa che nessun editore di buon senso si sognerebbe di non fare) allora parecchi degli apparati delle recenti e meno recenti edizioni critiche dovrebbero essere rivisti. Un esempio tra i tanti si trova nelle Lettere a Attico (I.16) - sempre che l'epistolario non sia un falso (la questione non è mai stata nemmeno presa in considerazione dai vari editori negli ultimi cinque secoli. Si rischierebbe, oggi, di veder mandare al macero tonnellate di libri e articoli di storia, oltre che di filologia, anche se in fondo non si eliminerebbe la sostanza: avremmo cioè sempre a che fare con un signor falsario, un antico falsario con le palle, non ignaro di niente).

 E' la lettera dell'inizio luglio 61, nella quale - la questione era già stata affrontata in altre due lettere dell'inizio dell'anno (25 gennaio e 13 febbraio - I.13 e 14) - viene raccontata la penosa costituzione della giuria chiamata a giudicare Publio Clodio nel processo per sacrilegio, un processo nel quale Cicerone è chiamato come testimone. Testimonianza, d'altronde, che gli è poca gradita:

neque dixi quicquam pro testimonio nisi quod erat ita "notum" atque testatum ut non possem praeterire.

né ho raccontato nulla che non fosse così "conosciuto" e risaputo da poterlo trascurare.

Tutti gli editori moderni (e anche antichi) accolgono notum (conosciuto), conservato da alcuni codici della famiglia sigma contro la totale concordanza dei codici della famiglia delta, che hanno novum, cioè nuovo, inaudito, mai sentito prima e quindi anche recente, accaduto da poco, fresco (per novum nel senso di recente gli esempi non sono predominanti ma si trovano comunque in Livio, Tacito eccetera).

La difficoltà per l'editore, qui, è nel decidere tra il banale (notum) e l'icastico (novum), per quanto, a seconda che si opti l'uno o per l'altro, il senso non ne viene stravolto. Novum è inoltre appunto lectio difficilior.

Il problema sollevato da Cicerone è ovvio: è quello di qualsiasi processo fondato sull'escussione di un teste in mancanza di documenti - come è nel processo a Clodio, un processo per sacrilegio (crimen incesti), che tocca per di più la sfera non pubblica, non ufficialmente certificabile, della sessualità (se cioè Clodio sia entrato o meno vestito da donna in casa di Cesare per incontrarsi con Pompea durante la celebrazione dei riti della Bona Dea): un processo nel quale Clodio offre un alibi (si trovava a Terni, quel giorno, non a Roma), di fronte a un testimone, Cicerone, che aveva già sbandierato ai sette venti, e a poche ore dal fattaccio, che Clodio quel giorno era invece andato a trovarlo nella sua casa sul Palatino. Era perciò cosa ormai risaputa (testatum) e era un fatto anche novum - recente, ma anche singolare: colpiva per una sua certa "novità" (assurdità): quella discrepanza tra le parole di un ex console e le affermazioni di Clodio, e quindi restava impresso. E' evidente, quindi, che il problema posto agli editori di questo passo delle Lettere riguarda l'attendbilità di una testimonianza man mano che ci si allontani dagli eventi relati.

Vedi su questo, ad esempio, Demostene nel De corona, dove parla di accuse che si riferiscono a fatti non recenti:

νῦν δ' ἐκστὰς τῆς ὀρθῆς καὶ δικαίας ὁδοῦ καὶ φυγὼν τοὺς παρ' αὐτὰ τὰ πράγματ' ἐλέγχους, τοσούτοις ὕστερον χρόνοις αἰτίας καὶ σκώμματα καὶ λοιδορίας συμφορήσας ὑποκρίνεται (15)

ora invece, tenendosi fuori della retta via e avendo evitato le prove vicine ai fatti, costui recita dopo tanti anni un'accozzaglia di imputazioni e beffe e offese

o anche più specificamente:

καὶ μὴν ὅταν ᾖ νέα καὶ γνώριμα πᾶσι τὰ πράγματα, ἐάν τε καλῶς ἔχῃ, χάριτος τυγχάνει, ἐάν θ' ὡς ἑτέρως, τιμωρίας. (85)

e ovviamente, quando i fatti siano recenti e conosciuti a tutti, nel momento in cui vanno bene incontrano il favore, se vanno diversamente vengono puniti.

Insomma per quanto in Demostene siano ricordati entrambi gli aspetti di una testimonianza che abbia il sostegno della memoria (recenti e conosciuti), e per quanto il "conosciuti" di cui parla Demostene (γνώριμα) non sia altro che il notum accolto dagli editori delle Lettere, difficilmente Cicerone, che sicuramente conosceva il De corona parola per parola, se avesse dovuto scegliere, avrebbe scelto il secondo a scapito del primo (quel νέα cosi appetibile che gli dava la possibilità di richiamarlo quanto meno a se stesso  - e a Attico), evitato un uso pregno di novum al solo scopo di produrre un appiattimento del testo: notum atque testatum - testatum è d'altronde lì a indicare che ciò che ha raccontato in qualità di testimone era già stato attestato, cioè provato, riconosciuto come vero, e quindi conosciuto, noto. Vedi l'uso di testatum in questo stesso senso in un'altra lettera a Attico:
  
Epistulam meam quod pervulgatam scribis esse non fero moleste, quin etiam ipse multis dedi describendam; ea enim et acciderunt iam et impendent ut testatum esse velim de pace quid senserim, (VIII, 9).

Varrebbe la pena di ricordare il peso avuto da umanisti del calibro di Manuzio nel determinare alcuni erronei procedimenti della critica testuale a partire già dai primi testi a stampa: la differenza che Manuzio poneva tra novum e recens: ciò che caratterizza il novum è l'assoluta novità, ciò che non ha precedenti. Fatto non sempre vero, si veda ad esempio proprio in Cicerone, nelle Tuscolane:

cur tantum interest inter novum et veterem exercitum, quantum experti sumus?

dove novum  non indica altro che la qualità di un esercito: un esercito fatto di giovani in opposizione a uomini già provati, veterani. Il ripetersi di un fatto, la possibilità che possa ripresentarsi in ogni tempo un esercito di giovani, esclude il carattere di assoluta novità, di inaudito, e il senso è invece prossimo a quello che si ha per esempio in agricoltura, in culinaria, vedi anche l'italiano fresco (pesce fresco, appena pescato) - vinum novum (Varrone), novuum et venire qui videt culum olfacit (Fedro - i cani che annusano il culo a ogni nuovo cane che arriva, sperando che sia uno dei loro ambasciatori inviati a Giove, ai quali avevano, in segno di ripetto per la divinità, improfumato il culo).

Lo stesso discorso andrebbe fatto e ripetuto, nonostante la concordanza dei manoscritti (che però risalgono tutti a uno stesso codice), per un passo delle Verrine:

Postremo ego causam sic agam, iudices, eius modi res, "ita notas, ita testatas", ita magnas, ita manifestas proferam, ut nemo a vobis ut istum absolvatis per gratiam conetur contendere (actio 1, 48)

dove  l'amplificazione costruita su due coppie di termini paralleli richiede la sostituzione di notas con novas. Non così conosciute, così risapute ma così singolari e così risapute.

La lectio difficilior (novas) è conservata in un'edizione delle opere di Cicerone del 1776, a cura e con una sua traduzione in castigliano, di Manuel Antonio Merino, che si firmava Andrés Merino de Jesucristo, erudito scolopio e conoscitore di lingue orientali. Il quale tuttavia non dice, nella breve introduzione, dove abbia preso il testo latino.






giovedì 24 marzo 2016

La "morte" di una schiava e il cinema degli antichi

Bisognerebbe ammettere che tuttosommato gli ateniesi - e già a partire dal quinto secolo - un qualche sforzo per riconoscere l' "umanita" degli schiavi lo fecero, tanto è vero che quando ne veniva ammazzato uno, un eventuale processo si teneva nel Tribunale del Palladio, lo stesso che per gli stranieri, i metechi, e questo in accordo col sommo disprezzo che gli ateniesi e in generale i greci mostravano per tutto ciò che era estraneo alla purezza della polis. Non si sa quanto tali processi fossero affollati, ma anche lì non doveva mancare il divertimento, i colpi di scena, come si legge per esempio in un'orazione comunemente attribuita a Isocrate, ma sicuramente non sua, dove una schiava di cui si era falsamente denunciato l'omicidio (che fine aveva fatto il corpo?) e nascosta invece dagli accusatori, viene presentata dall'accusato viva e vegeta proprio durante il dibattimento:

Μάχης δ' αὐτοῖς γενομένης, ὑποκρυψάμενοι θεράπαιναν ᾐτιῶντο τὸν Κρατῖνον συντρῖψαι τῆς κεφαλῆς αὐτῆς, ἐκ δὲ τοῦ τραύματος φάσκοντες ἀποθανεῖν τὴν ἄνθρωπον λαγχάνουσιν αὐτῷ φόνου δίκην ἐπὶ Παλλαδίῳ. Πυθόμενος δ' ὁ Κρατῖνος τὰς τούτων ἐπιβουλὰς τὸν μὲν ἄλλον χρόνον ἡσυχίαν ἦγεν, ἵνα μὴ μεταθεῖντο τὸ πρᾶγμα μηδ' ἑτέρους λόγους ἐξευρίσκοιεν, ἀλλ' ἐπ' αὐτοφώρῳ ληφθεῖεν κακουργοῦντες· ἐπειδὴ δ' ὁ κηδεστὴς μὲν ἦν ὁ τούτου κατηγορηκὼς, οὗτος δὲ [ὁ] μεμαρτυρηκὼς ἦ μὴν τεθνάναι τὴν ἄνθρωπον, ἐλθόντες εἰς τὴν οἰκίαν, ἵν' ἦν κεκρυμμένη, βίᾳ λαβόντες αὐτὴν καὶ ἀγαγόντες ἐπὶ τὸ δικαστήριον κτλ. (In Cal., 52-53)

Essendo seguita una rissa [era questione di un terreno] nascosero una schiava e accusarono Cratino di averle spaccato la testa, e dissero che a causa della ferita la donna era morta. Intentarono perciò causa a Cratino di fronte al tribunale del Palladio. Cratino, avendo saputo delle loro beghe, non disse niente, si mantenne per tutto il tempo tranquillo, in modo che quelli non escogitassero qualcosa [probabilmente che ammazzassero loro la schiava] o inventassero un'altra storia, e in modo da prenderli in flagranza. Poi dopo che il cognato [di Callimaco] ebbe ribadito la sua accusa e che Callimaco ebbe testimoniato che la donna era morta, [Cratino e i suoi] andarono nella casa dove la donna era nascosta, l'afferrarono con la forza e la portarono in tribunale ecc.



sabato 19 marzo 2016

Le eiaculazioni dei castrati del pensiero

Sarebbe difficile dare un senso alle oscene eiaculazioni sinaptiche di tanti esperti e "conoscitori" del mondo antico se non ci si vedesse quella tipica tendenza all'idiozia da cui è affetto da sempre il mondo accademico. L'entusiasmo senza riserve per questo o quest'altro autore a cui si attribusice "profondità" di pensiero è una manifestazione di una idiosincrasia al contrario, di una immoderata simpatia, non potrà mai contare su ragioni obbiettive, non è altro che conseguenza di infatuazioni pseudoideologiche. Leggere e rileggere autori greci e latini va bene finché non ci si dimentica che erano epoche (e autori) che fondavano il loro benessere su un feroce sfruttamento della manodopera schiavistica. Platone o Aristotele, Demostene o Cicerone, Catullo, Cesare, Lisia o Isocrate, Antifonte, Erodoto, Senofonte, Sallustio, Tucidite o Tacito, Pindaro, Alceo, Anacreonte e chi più ne ha ne metta non provavno nessunissima vergogna a utilizzare la parola schiavo, a maneggiare, accettando lo stato di cose, la nozione di non libero. Non se ne salva nessuno. Il Cattolicesimo trae forza unica da Platone e Aristoetle (a entrambi nella storia del pensiero, pone fine soltanto Cartesio), ancora nei Dialoghi e nelle Lettere di Gregorio Magno, che scrive in veste di pontefice, si potrebbero citare decine di riferimenti al patrimonio della Chiesa, al "va bene così", alla sua accettazione di una struttura agraria che si regge sullo stesso tipo di sfruttamento che li aveva preceduti nel mondo pagano. L'ipocrita Agostino non la passa liscia quando in una lettera a Alipio di Tagaste (appartiene all'ultimo periodo) pare soltanto scagliarsi contro i mangones (mercanti di schiavi), in realtà riproponendo da cima a fondo il sistema libero/schiavo:

Nam vix pauci reperiuntur a parentibus venditi quos tamen non ut leges Romanae sinunt ad operas viginti quinque annorum emunt isti, sed  .... (CSEL, 10)

Se ne trovano pochissimi che siano stati venduti (legalmente) dai genitori e che (i mangones) comprano per farli lavorare non venticinque anni, come richiedono le leggi romane ma ...

Basterebbe questo "scambio privato" tra un futuro santo e un vescovo a far apparire la malafede pure in tutte le altre cose che ha scritto (altro che Confessioni), non ci sarebbe nemmeno bisogno di leggere se l'idea è di farne apologia.

Ciò che rese grande la Grecia e grande Roma,e poi il Cattolicesimo, non fu altro che lo stesso meccanismo (più evidente perché più vicino) che ha reso grande la scorreggiante America bianca o che rese ricco lo scorreggiante Sudafrica bianco all'epoca dell'Apartheid. Non c'è semplicemente nessuna ragione "umanistica", di superiorità dell'uomo sulla bestia, nessuna ragione di andare fieri del pensiero antico, di visitare Atene e commuoversi sull'Acropoli perché è lì che si sentono le origini del pensiero occidentale, o andare a Delfi a respirare il soffio magnetico di Apollo, o sedersi su un pezzo di tufo al Foro a Roma e piangere di commozione dentro una confezione di kleenex, così come non c'è nessuna ragione di andare fieri del "pensiero" moderno o contemporaneo, che fonda la sua libertà parolaia sui milioni di morti sul lavoro che si registrano ogni anno in tutto il mondo (circa due milioni, comprese le morti per malattie professionali). Parlare dei quali oltre un certo limite non attirerebbe audience.

L'unico grande evento memorabile nell'antichità fu la rivolta di Spartaco, un gruppo di schiavi che anelarono alla libertà. A parte questo, non successe niente.

venerdì 5 febbraio 2016

Categoria e obsolescenza

In epoca di massima obsolescenza dell'oggettto si vede meglio la ragione per cui Aristotele non sentì il bisogno di definire la categoria, limitandosi a inserirla all'interno di un gioco della significazione (σημαίνειν): sono gli oggetti a rinviare alle categorie, a "significarle" elementarmente, non è una categoria precedentemente definita che permette di "apprehendere" l'oggetto ( τῶν κατὰ μηδεμίαν συμπλοκὴν λεγομένων ἕκαστον ἤτοι οὐσίαν σ η μ α ί ν ε ι  κτλ). Il rischio era di vedersi annullata, con la morte della funzione dell'ggetto, qualsiasi possibile definizione. Se anche si ammettesse un dualismo della durata - funzione e semplice persistenza oltre la funzione - il venire meno di uno dei due poli farebbe crollare l'intero edificio. La durata (concetto su cui ha insistito Schopenhauer) che solo si può cogliere nell'interazione del cambiamento (tempo) e della persistenza (spazio) ha un valore limitato, non ontologico, non perenne, non solo perché morta la percezione muore anche la durata, ma anche e soprattutto in considerazione dell'origine dell'oggetto, che nasce sempre (anche per "caso") con una sua funzione. Un microchip nasce per un suo senso funzionale, ma nel momento in cui distruggo una carta di credito non avrà più nessuna durata funzionale, ha perso il suo scopo: è un cadavere tra altri cadaveri. E' un osservare i resti di antiche mura, che non hanno più nessuna funzione originaria, hanno valore per il turista, lo storico eccetera.
(inizio 2015)

Polibio e gli universi paralleli

E' possibile che internet rappresenti uno dei migliori e più perfezionati modelli della teoria degli universi paralleli. Esiste tutta un'immane farragine di notizie, attribuzioni, interpretazioni fantasiose che riescono a scatenare - non si sa come - sentimenti passioni interventi apparentemente motivati. Ad esempio l'attribuzione a Polibio di un riferimento a una fantomatica norma della legge Scantinia - una legge di cui in realtà non si sa quasi niente, tanto che sarebbe più giusto chiamarla Lex Scantina de phantasmatibus: qualsiasi soldato che si fosse fatto beccare a intrattenere rapporti omosessuali con un altro soldato, soprattutto a farselo mettere nel  didietro, nel caso quindi in cui avesse accettato un ruolo passivo, di femmina, avrebbe infranto gli obblighi di una disciplinare e sarebbe incorso nella pena della fustigazione. E mi viene da pensare che il  tutto sia scaturito da una banale frase contenuta nel libro sesto delle Storie:

κἄν τις τῶν ἐν ἀκμῇ παραχρησάμενος εὑρεθῇ τῷ σώματι (6, 37, 9)

che in realtà non fornisce altro che un'indicazione di norme disciplinari, feroci ma tipiche di ogni esercito che si rispetti:

"e questo anche quando uno di coloro che sono nel pieno del vigore" (cioè uno qualsiasi dei più giovani, come venivanmo indicati, in opposizione ai veterani, e dai quali ci si aspettava ovviamente maggior capacità di impatto in uno scontro) "venga scoperto a abusare del suo corpo."

Dove poi è scritto che abusare del proprio corpo (παραχρησάμενος τῷ σώματι) significa concedersi sessualmente, o anche, come raccontano altri, "farsi le seghe", cioè masturbarsi, lo sapranno soltanto quelli che hanno messo in giro questa leggenda di Polibio e della Lex Scantinia - che un soldato possa benissimo "non usare correttamente" (abusare) il suo corpo trascurando gli esercizi fisici, facendo abuso di alcol eccetera, in altri termini quando non lo curi e conservi forte e sano, è un fatto talmente ovvio che non ci sarebbe neanche bisogno di ricordarlo. Un esercito senza donne doveva per forza in qualche modo arrangiarsi, erano campagne infinite.

A fondamento dell'erronea interpretazione del passo di Polibio resta comunque una supposta identificazione di virilità e eterosessualità. Che è quanto di più lontano dal concreto parlando di quei tempi. Non è forse neanche il caso di riandare a uno dei più grandi condottieri della Storia, nato una ventina d'anni dopo la morte di Polibio, Gaio Giulio Cesare, detto uomo di tutte le donne e donna di tutti gli uomini, o ai suoi soldati, che lo adoravano e che nei trionfi lo acclamavano pressentandolo in "veste di donna" e chiamandolo loro grande generale e regina di Bitinia, per il fatto che s'era fatto sodomizzare da giovane da Nicomede IV - Cesare divertendosi e sorridendo. Come dice un mio amico, cesariano perso: "sai che gliene fregava a Cesare se gli altri sapevano che gli piaceva farsi sp. il culo".

Παραχρησάμενος, d'altronde, non ha mai negli autori di quel periodo - ma nemmeno prima - quest'uso, per così dire, pedantemente cattolico - universale, integralista - dell'andare contro natura, e soprattutto Polibio non l'avrebbe espresso in maniera tanto prude. Bisognerà aspettare i noiosi Padri, alleati o epigoni dei neoplatonici, per trovare qualcosa che ci si avvicina. Per trovarci l'idea del sommo peccato.

sabato 30 gennaio 2016

Shark Fishing Battle

We should catch these arrogant Italian politicians, grab their leaders. turn them and make them swim the way we want, straight into the current. We should be in full control, first gear, and inch by inch slowly bring them up. They would have no more runs and we would get them by the boat. It would be a slow and painful effort, but we would manage to get the backing and most of the top shot back, and finally the rigger loop will appear and ....

mercoledì 27 gennaio 2016

Copertura dei nudi e devianza

Riguardo i nudi dei Musei Capitolini, le statute coperte in occasione della visita in Italia di non so quale papavero iraniano, ci sarebbe da dire che gli iraniani, al contrario degli italiani, mostrerebbero maggior buon senso nel caso un papavero straniero visitasse il loro paese: non coprirebbero niente, semplicemente eviterebbero di far passare i visitatori nei vari cantieri (provvisti di gru) dove il regime impicca oppositori e omosessuali.


sabato 23 gennaio 2016

La medaglia teocratica e le olimpiadi della falsa virilità

Paradossalmente sono proprio i paesi più omosessuali a non possedere ancora una legge sulle unioni civili, cioè quei paesi dove i "maschi"ostentano falsa virilità, Italia in prima fila. In un paese come l'Italia non può valere il discorso religioso: ogni volta che le ha fatto comodo non ci ha pensato due volte a mollare una nauseabonda scorreggia al Vaticano. Diverso il caso della Russia, dove gli ortodossi sono riemersi dalle fogne in cui li avevano costretti i comunisti e dettano adesso l'agenda politica a Putin. Il fatto che recentemente in Russia la Duma abbia respinto una proposta di  legge che prevede il carcere per le PDA (public displays of affection) nel caso di coppie omosessuali, e che quel disegno di legge sia stato presentato da due psuedocomunisti non fa differenza: il comunismo, come inteso da quegli idioti, non è altro che una delle due facce della medaglia teocratica.

mercoledì 13 gennaio 2016

Storia della miseria intellettuale

Come esergo a tutta la "storia dell'umanità intellettuale" (è storia solo quella che si impone perché ne ha i mezzi) può valere quanto dice da qualche parte Wittgenstein:

Anche esprimendo falsi pensieri sfacciatamente e chiaramente si può guadagnare moltissimo.

venerdì 8 gennaio 2016

Filologia cieca e accecante

Libro primo della Argonautiche, la scena in riva al mare, quando gli eroi mangiano distesi sulla sabbia e bevono in amicizia prima della partenza:

... ὅτ᾽ ἄατος ὕβρις ἀπείη

l'aggettivo verbale viene comunemente, da sempre, inteso in senso attivo. In realtà, la natura stessa di Ate, che induce alla hybris, avrebbe dovuto da sempre "indurre" a interpretare correttamente in senso passivo. Non:

... quando la hybris (funesta???) accecante è assente

ma:

... quando la hybris, generata cieca (frutto dell'accecamento), è assente.

E se la hybris è cieca, non meno cieca è Ate. Basterebbe considerare gli esempi di ἀάω al medio in Omero, la forma medio passiva che non è indicativa di altro che di questa natura nello stesso tempo cieca (vedi per esempio Il., 19,94 - κατὰ δ᾽ οὖν ἕτερόν γε πέδησε) e accecante di Ate, la quale riconduce (senso medio) la cecità generata nell'uomo a se stessa (anche quando causa se ne fa Zeus, suo padre, che in quel momento incarnerà direttamente Ate - che Zeus non sia immune da questa forma di accecamento è provato da Il., 19,  95 ss, καὶ γὰρ δή νύ ποτε Ζεὺς ἄσατο κτλ).