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domenica 15 dicembre 2013

La porta di Babouli: nel segno della reciprocità


La porta di Babouli

Partendo in macchina da Ouagadogu, la capitale del Burkina Faso, e percorrendo una quarantina di chilometri in direzione nord, si prende a un certo punto a sinistra una strada sterrata in direzione di Pella. La si percorre per circa dieci chilometri e ci si trova in aperta savana alla ricerca di Bologò. Si possono soltanto

giovedì 14 novembre 2013

L'anima grigia dell'Occidente e i colori della Mongolia




Nelle città occidentali, soprattutto l'inverno, si nota una sempre più diffusa tendenza a vestirsi in nero. E' un fatto evidente: il nero domina ovunque. Il che puo avere, mi pare,

giovedì 20 giugno 2013

Fiction, Africa, guerriglia, medici nazisti e emissari neri della mafia

                                                   Cascate Vittoria e ponte sullo Zambesi  



Ripubblico qui in italiano un mio pezzo inglese uscito a Londra alla fine del 2001 e ormai introvabile in originale. L'ho semplicemente ripreso e tradotto.





                                                                                      alla memoria di Miriam Basner


C’è un capitolo della storia dei movimenti anticolonialisti africani che a un certo punto, per quanto mi riguarda, si intreccia con un capitolo della topografia londinese: precisamente col Cinema Rio di Dalston, zona a nord est di Londra,

venerdì 24 maggio 2013

Land diving, Pentecost Island e lo zapping


                                      Gabbiano al Vittoriano - foto di Lance 94

Quando un inglese della classe media vuole farti capire che è al limite della sopportazione fa un gesto che per lui è normale: alza velocemente gli occhi al cielo e in un attimo te li ripunta addosso. È un semplice movimento leggermente in diagonale rispetto al normale asse visivo, in cui però la testa resta immobile, ma se non sei inglese è inutile che provi a imitarlo. Una cosa simile la fanno anche gli italiani, che però invece di riportare subito gli occhi a terra, di tuffarsi di nuovo negli occhi dell’interlocutore, continuano a fissare in alto.



Land diving (tuffarsi verso terra) è non a caso un'espressione inglese. Indica non tanto uno sport estremo quanto un rituale religioso, propiziatorio: lo stesso che poi ha dato nascita al moderno bunjee jumping. Nell’isola di Pentecoste, nello Repubblica di Vanuatu (gruppo di isole chiamate ancora Nuove Ebridi quando ebbi la fortuna di vederle da piccolo), a quasi duemila chilometri dalla costa australiana nell'Oceano Pacifico, gli uomini ancora oggi si abbandonano a questo affascinante rito, che in lingua locale si chiama mi pare nagol, o forse ngol: dopo avere assicurato le caviglie a una liana e sotto lo sguardo di centinaia di turisti si lanciano in un certo periodo dell’anno da un'alta torre fatta di rami tutti intrecciati, le punte acuminate: una cosa impressionante per come la rivedo – o forse era solo lo sguardo di un bambino. Veniva un tempo in questo modo eletto il capo tribù: colui che riusciva a saltare dal punto più alto - e le torri raggiungevano anche i trenta metri. Ovviamente rischiavi di crepare, di rimanere infilzato.



Oggi il bunjee jumping è uno sport relativamente sicuro. Lo fanno un po’ dappertutto e forse non c'è nessuno che non l'abbia ancora visto. Vedendo il bunjee jumping versione moderna per la prima volta a Londra, un pomeriggio che camminavo verso Chelsea Bridge Road in direzione del ponte e dell'imponente struttura costruita per questo genere di tuffi legati a un cavo, mi rivenne da pensare all’isola di Pentecoste, e alle cose che da piccolo cercarono di farmi intendere di quel rito propiziatorio. E facendo un confronto, guardando questi uomini e donne completamente imbracati, pieni di ganci, moschettoni, cinture di sicurezza e confortati da premurosi istruttori, è difficile non rendersi conto di come l'umanità abbia fatto notevoli passi avanti, sperimentato uno sviluppo veramente galattico sul piano sociale e psico-evolutivo se si considera che si è passati dallo scegliere un capo tribù utilizzando arcaici criteri religioso-agonistici all'individuazione della semplice bravura in uno qualsiasi di questi sport estremi in cui si è circondati da tutto un corteggio di paramedici e ambulanze. Inoltre, se il capo tribù si trovava allora in un certo senso soffocato e rintronato per giorni dall'ammirazione collettiva della sua gente, il nostro campione la sera tornato casa si trova in compagnia delle rassicuranti pareti domestiche, dei suoi mobili più o meno di fabbrica, del pc e della televisone, oltre che del necessario cellulare: e se si tratta di una donna è immeditamante presa da tante altre cure e responsabilità (normalmente in cucina a preparare la cena), se invece è un uomo, la prima cosa che fa è spogliarsi e buttarsi sul divano, allungare le gambe sul tavolino in modo da poter subito iniziare a muovere le dita dei piedi e a scaricare la tensione accumulata nella competizione. Poi, col telecomando in mano (questa sorta di scettro), comincia a fare zapping, a passare da un canale all’altro fino a ritrovarsi magicamente a quello di partenza. Insomma il campione, pur dando l’impressione, a differenza della campionessa, di volersi fermare, non smette mai in realtà neppure lui di tenere occupati la mente e il corpo.


Tutto ovviamente dipende dai punti di vista, e quelli di una donna non coincideranno mai alla fine con quelli di un uomo, checché ne dicano i nemici della generalizzazione. Così una mia amica - che pure è una buona velista - mi dice che ogni volta che il marito torna a casa stanco da una partita di calcetto e si sdraia sul divano davanti alla televisione, lei immancabilmente, da un po' di anni a questa parte, non fa che ripetergli la stessa cosa: "te lo dico una volta per tutte: mi so' stufata di trovarmi tutte le sere questa salma davanti!"

mercoledì 22 maggio 2013

Strabismo: consigli per gli etero per i gay e per entrambi


                                      Bangor - photo by Velela
                                   
Un’estate di una decina d’anni fa mi trovavo in Galles con un amico italiano a cui piacciono parecchio gli uomini. L’avevo portato a Bangor, a vedere il piccolo Bishop’s Garden, “il giardino del vescovo”, creato da un religioso anglicano con l'idea di farne una sorta di Eden: mettere in quel fazzoletto di terra fuori della Cattedrale di Saint Deiniol tutte le piante nominate nella Bibbia. Quel giorno il giardino era in uno stato pietoso: le piante s’erano seccate per il gran caldo, c’era erba gialla dapertutto e le etichette coi nomi erano sparite. Insomma a tutto veniva da pensare meno che all'Eden. Mentre andiamo verso un pub vedo una coppia sulla trentina che viene nella nostra direzione, un uomo e una donna, che si tenevano teneramente allacciati. Lo sguardo mi va istintivamente all'espressione simpatica di lei, e siccome volevo continuare a guardarla senza provocare il compagno, ho continuato a farlo con la coda dell'occhio, finché a forza di storcere lo sguardo non mi ritrovo a guardare il mio amico, che invece fissava con gli occhi completamente strabuzzati il maschio. Una volta superata la coppia gli dico: “Vabbè, ti interessano gli uomini! non mi dire però che questa non ti piaceva …” “Ma sei fuori?”, fa lui. “E chi l’ha vista, lei?”



Dice Aldo Busi in uno dei suoi tanti libri - mi pare Il manuale del perfetto gentiluomo - che non sta bene che un uomo interessato a un altro uomo si metta a fissarlo senza ritegno quando vede che è in dolce compagnia: in dolce compagnia di una donna, si capisce. Se ricordo bene, ciò che suggerisce Busi è che se proprio non puoi farne a meno il modo migliore, il più educato, è guardare prima di tutto lei e solo allora far scivolare lo sguardo sull'uomo, e tenercelo comunque per pochissimo: comportamento che avrebbe un duplice obbiettivo: dare alla donna ciò che è dovuto e apprezzamento della giusta scelta fatta dal maschio. Il quale se poi rientra nella categoria dei curiosi una chance puoi sempre averla.

Quando ero piccolo (avevo forse sei o sette anni), mio nonno mi disse, dopo avermi visto spingere bruscamente di lato una ragazzina che voleva vedere certe mie figurine: “ricordati che con una donna devi essere sempre gentile, perché se non è bella fai una cosa giusta per lei, se invece è bella fai una cosa giusta per te”. E di questo mi colpì il fatto che non disse “brutta” ma appunto “non bella”, applicando il suo detto in primo luogo a se stesso anche nel momento in cui istruiva l’amato nipote.

Credo di avere in seguito tratto sempre dei grossi benefici da quelle parole sacrosante. Tanto che a volte, ancora oggi, per essere eccessivamente gentile, per mostrare che apprezzo la bellezza come la bruttezza, e a forza di storcere gli occhi per evitare grane con gli altri maschi, continuo a farlo anche quando una donna è sola, e rischio veramente che prima o poi l’asse visivo si scardini del tutto.




Ovviamente tutti i consigli in campo amoroso lasciano il tempo che trovano. E tuttavia credo sia una cosa sensata avere sempre e comunque delle regole quando si guarda inizialmente qualcuno perché si è arrapati: perché il prossimo non è mai un semplice oggetto, nemmeno quando è apparentemente lui stesso a voler essere trattato da oggetto. 

domenica 19 maggio 2013

Il celeste imperialismo




Parecchi anni fa, poco più che ventenne, trovandomi a girare per Pechino e essendomi felicemente perso lungo un hutong, nel vecchio distretto di Xicheng, vedo a una certa distanza una turista, forse sulla sessantina, in jeans e t-shirt bianca. Sembrava anche lei girare senza meta. Senza che mi veda proseguo anch'io per lo stesso vicolo. A un certo punto, forse perché stanca, forse disorientata, la povera turista, che aveva una macchina fotografica a tracolla, si siede su una grossa pietra all’esterno di un cortile. Il tutto mi appariva nella tipica luce di Pechino, velata da un che di sabbioso, di polveroso. Quasi nello stessso momento in cui la donna si siede, escono da una casa un paio di anziane: ognuna si trascinava una sedia, e vanno a sedersi ai due lati della straniera. A proteggere la straniera. Ma c’era un qualcosa di più del semplice voler proteggere una donna che si avventurava da sola in un posto a lei sconosciuto: c’era un fare gli onori di casa. Restai un paio di minuti a osservare la scena: nessuna delle tre diceva niente, soltanto qualche sorriso reciproco.

                                      Liulichang (distretto di Pechino) - photo by Shazari 

Non so quanto sia rimasta lì fuori, la straniera, in compagnia delle due cinesi. Ma ogni volta che sento di una qualche aggressione di stampo razzista in Europa, ogni volta che sento discorsi che sottintendono una presunta superiorità razziale, di una nazione o di una etnia su un’altra, ripenso a quella scena di quel pomeriggio d'estate a Pechino. E continuo a essere grato all’onnipotente Cina di oggi, erede del Celeste Impero di ieri, di avermi dato la più divina rappresentazione dell’accettazione dell’outsider. Forse nemmeno troppo rara per quelle generazioni.

Può darsi che i cinesi di oggi nutrano un qualche desiderio di rivalsa: il ricordo - per loro tutto scolastico - dei vecchi imperialismi: quello britannico prima di tutto e poi quello francese, adesso che pure l’economia africana finisce rapidamente in mano loro. Eppure c’è una certa grazia in questa business philosophy cinese, in questo indossare una feroce sovrastruttura capitalistica che non sono stati loro dopotutto a inventare. Ignoro come si dica rendere pan per focaccia in mandarino, ma mi torna in mente l'atteggiamento di quei caparbi "bottegai" di Londra (come Napoleone chiamava gli inglesi) subito dopo la pubblicazione di una lettera aperta del commissario imperiale Lin Zexu alla regina Vittoria: una lettera umanissima, cortesissima, moralmente ineccepibile e tutta pregna di concetti di spiritulità confuciana: una lettera con la quale chiedeva a Sua Maestà Britannica di interrompere l’osceno traffico di oppio che stava fiaccando vergognosamente il popolo cinese. I "bottegai" della regina Vittoria risposero più prontamente che mai: inviando le loro cannoniere lungo le coste del Celeste Impero, a scatenarvi paradossalmente l'inferno.

                                                      Lin Zexu

lunedì 29 aprile 2013

La medicina i germi e la letteratura. Un ricordo di Isaac Bashevis Singer




                            Brueghel il Vecchio - La parabola del cieco


Dice Neville, il personaggio del mio romanzo inglese citato nel post su Chatwin, che l’inglese parlato a Londra è una realtà polverosa (dusty) se lo si confronta con l’inglese di New York. Polveroso è un termine che non saprei come meglio definire; ed effettivamente in generale non saprei dare nessuna spiegazione delle cose che scrivo se non che il modo in cui le scrivo è il miglior modo in cui  potrei farlo.

Oggi credo che Neville, che parlava in epoca post-Thatcher, quando a governare la Gran Bretagna c’era l’anche più grigio Major, verrebbe a contatto, tornando a New York, con un inglese newyorkese meno magico, e forse più asettico: di sicuro non ritroverebbe più molti di quei piccoli caffè dove gli piaceva andare sulle orme di Isaac Bashevis Singer (che scriveva in yddish) alla ricerca di qualche volto che pensa di aver perduto per sempre - e di cui parla a Fanfan, il giovane narratore, che ormai teme di essere finito nelle mani di uno psicopatico:
 
   ‘… perhaps death is not the end, and people do miraculously live on, even if just in the memory of those who knew them.’
    
   “... forse la morte non è tutto, e le persone continuano a vivere, fosse anche nella memoria di chi le ha conosciute. Ma sono veramente morte?”

Ma proprio grazie a Singer, cioè grazie alla letteratura, Neville ritrova ugualmente la sua New York: il luogo di ogni possibile incontro, anche con chi crede che sia già morto. E quando scrivevo questo romanzo mi sembrava di capire che Neville fosse andato a New York proprio per cercare di ritrovare nelle sue strade, in uno dei tanti volti di quella città, sua nonna Zita, che in punto di morte gli impedirono di vedere, rinchiusa in una stanza asettica. La rivide soltanto nella forma impalpabile di una colonna di fumo che saliva dalla ciminiera del crematorio. Il suo pensiero, allora, era stato abbastanza frivolo, forse perché sognava o immaginava che l’avrebbe comunque nuovamente incontrata. Dice tranquillo, a un Fanfan circospetto, che di quella cremazione l’aveva incuriosito soltanto un particolare tecnico:
  
   “Nel momento in cui Zita veniva cremata, qualcuno – credo fosse l'impiegato delle pompe funebri – mi disse che le differenti parti del corpo bruciano separatamente. Una cosa che già sapevo, ovviamente: il teschio resta intatto fino alla fine. E poi esplode” (‘the skull is left to the last. It explodes’).
  
Non si riesce a capire se Fanfan, che sta diventando cieco, creda veramente all’inquietante Neville quando Neville gli dice a un certo punto di essere un medico. Non sembra nemmeno voler capire se ci sia ironia quando dopo vergli detto che l’ultimo libro di Singer è una fogna di noia (totally dreary), Neville aggiunge, su quei suoi possibili incontri con gente scomparsa:
  
“I haven’t ever really recognized anybody, though I haven’t given up looking …”
  
“Non ho mai riconosciuto nessuno, anche se ovviamente non ho mai smesso di guardare …”


sabato 20 aprile 2013

In Patagonia la leggenda del ritorno. Un flash su Chatwin


                                  Annalisa Parisi - Cavalli al pascolo, Massiccio del Fitz Roy, Patagonia

La berberis buxifolia è un arbusto che supera normalmente i due metri di altezza. È il simbolo della Patagonia, ed è conosciuto volgarmente come calafate, un termine della lingua dei Tehuelche, la lingua Chon. Con i suoi frutti si produce una marmellata che è tra le più gustose. Si dice che chi assaggi una di queste bacche sferiche, che hanno un colore che può andare dal blu al porpora, avrà la certezza di tornare un giorno in Patagonia.

Non ricordo se Bruce Chatwin, di cui è abbastanza conosciuto il diario del suo viaggio in quelle zone, le abbia provate, quelle bacche, e se i versi del poeta svizzero Cendrars ("non c'è che la Patagonia, la Patagonia che si adatti alla mia immensa tristezza") abbiano continuato a tormentarlo. So solo che quando lo vidi in un’ultima intervista alla televisione inglese, un po’ prima che morisse - l’immagine di uno scheletro - non faceva più pensare al Chatwin di cui parla Neville, il misterioso personaggio di un mio romanzo inglese, che lo descrive al giovane narratore in un momento in cui sembra dissolversi una loro precedente tensione (e mi viene da citare le prime righe proprio nell'originale):

   'Oh, yes ... He was a variation of that old type, the English explorer.  A valiant chap.  But he was modern, more sophisticated.  Nonetheless of the same breed.  And then ... he wrote a succession of books ... I think half a dozen.  I read most of them ... But how did I discover him?'
   'Kaleidoscope?'

che poi ho riscritto in italiano :

   “Questo autore”, mi dice Neville, “fu una variante di un vecchio modello già esistente: l’esploratore inglese, uno di quei tipi veramente tosti, anche se lui era già più moderno, più sofisticato. Eppure appartenente alla stessa razza. E poi scrisse una serie di libri, credo una mezza dozzina. Li lessi quasi tutti … Ma come lo scoprii? Questo è il dilemma …”
   “Caleidoscopio?”, faccio.
   “No”, fa lui. “Credo lessi semplicemente un articolo di un vecchio giornale, che avevo usato per incartare alcune tazze ... Fu quando traslocai nel mio nuovo appartamento ... Avevo avvolto tutte le mie poche cose e tutti quei miei insignificanti piattini in alcune pagine di giornale, e quando arrivai nella nuova casa e cominciai a fare un po' d'ordine trovai la foto di questo favoloso personaggio dai lineamenti incredibili: era Bruce Chatwin! E pensai: che cosa inusuale per un uomo così bello chiamarsi Bruce. Tutti i Bruce che avevo conosciuto erano uno più brutto dell'altro. E invece avevo adesso l'immagine di quest’uomo di straordinaria bellezza. E in più era uno scrittore. Così mi dissi: devo assolutamente leggerlo … E comprai Sulla collina nera ...”

Sulla collina nera è solo la storia di due fratelli in un villaggio del Galles, entrambi talmente attaccati l’uno all’altro che nessuno dei due riesce a sposarsi; ma di sicuro il Galles è stato centrale pure nel suo libro sulla  Patagonia, dove si parla di gruppi di agricoltori che emigrarono in quelle lontanissime regioni mi pare nell’Ottocento. Di una di queste sperdute comunità, che ancora parlano gallese, Chatwin andò alla ricerca. 

Non saprei dire se Neville abbia visto giusto riguardo alla bellezza di Chatwin. Resta il fatto che l’immagine pubblica che questo narratore ha lasciato di sé non è certo quella di uno scrittore a cui piacesse far capannello, unirsi coi suoi simili in un salotto o in un ristorante di una grande città. Non che ce ne siano molti di veri scrittori a cui piace incontrarsi nei momenti liberi coi propri pari, così come in fondo è difficile che un carrozziere la sera  preferisca vedersi con altri del mestiere. Chatwin però li riunì un po’ tutti, alla fine. Dice sempre Neville a Fanfan, lanciandosi in un inaspettato viscerale attacco contro un autore caratterialmente e stilisticamente diverso dal suo eroe:

   “È strano come certi scrittori in certe situazioni tendano a socializzare. Salman Rushdie era amico di Bruce Chatwin. E così un bel giorno quell’altro scrittore, come si chiama? … Paul Theroux, mi pare ... sì, si chiama così  … Ecco, Paul Theroux incontrò Salman Rushdie ai funerali di Bruce Chatwin. Erano passati un po' di giorni da quando l’ayatollah aveva pronunciato la famosa fatwa. E Paul Theroux disse: il prossimo funerale sarà il tuo se non ti guardi il sedere. Una frase veramente stupida.”
   “Bè, una frase tanto stupida non mi sembra.”
   “Che cosa?”
   “Era un consiglio amichevole.”
   “Assolutamente da imbecilli! Salman conosce il mondo musulmano molto bene, non ha bisogno di consigli. Questo è un altro motivo per cui non sopporto Paul Theroux”.

C’è da dire che Paul Theroux, che è americano, è scrittore anche lui di diari di viaggio, e se le premesse  sono queste a cui sembra alludere Neville, allora ci si dovrà aspettare un viaggiatore più sul modello statunitense, un tantino cioè ossessionato dal comfort personale - se in una stazione mettiamo del Tashkent ci siano dei gabinetti puliti, o se il bar offre dei sandwich presentabili invece che coloratissime bacche locali, che se non saranno proprio di calafate, ci si immagina comunque di un qualche altro arbusto di quei posti. E magari proprio una variante della berberis buxifolia: ad esempio la berberis buxifolia nana, che è molto più diffusa della prima, e i cui fiori sono gialli invece che arancione.

giovedì 18 aprile 2013

Alle pendici dell’Aconcagua la guarigione dalla sofferenza





                                                      Aconcagua Mountain from base, Argentina
                                                                         by Winkyintheuk - Flickr 

Silo è un nome che a molti non direbbe niente, eppure lo si trova addirittura in una breve lista di psicologi e psicanalisti nell’agendina di Clarice Starling, nel film Il silenzio deglli innocenti, in una scena in cui Clarice parla a una collega del caso che sta seguendo. La pagina dell’agendina (parola che in italiano richiama Argentina, il paese dove Silo è nato) si vede per pochi secondi, e forse non si fa nemmeno in tempo a rendersi conto … Bisognerebbe mettere velocemente in pausa il DVD per leggere quel nome. C'è da immaginare, comunque, che tra le centinaia di milioni di persone che hanno visto il film pochissimi si saranno accorti di qualcosa, la maggior parte avrà notato appena i nomi di Freud e di Jung. Non so se l'inclusione di Silo in quella lista di Clarice Starling sia dovuta a una reminiscenza del regista, Jonathan Demme, o se il nome compaia già nel libro di Thomas Harris, che non ho mai terminato. 

Silo, per intenderci, è nientedimeno che l’iniziatore del Movimento Umanista. Le stesse origini di questo Movimento avrebbero a mio avviso, pure nei nomi, qualcosa di straordinariamente letterario: si tratta del famoso discorso che Silo tenne nel 1969, considerato un po’ l’atto di nascita del Movimento, una sorta di discorso della montagna: "La curaciòn del sufrimiento", pronunciato a Punta de Vacas, nelle Ande, alle pendici dell’Aconcagua, la seconda montagna più alta della terra – la giunta militare argentina alla fine lo autorizzò, ma a pattto che il tutto avvenisse lontano da centri abitati, dalle città. Ho letto pochissimo di Silo, devo confessarlo (Lettere ai miei amici e qualche altro testo), ma ho avuto la fortuna di osservare e conoscere molti di questi umanisti, di cui mi sento amico.

                                                Silo - foto Anita Szeicz

C’è in fondo, negli umanisti, un credo che non è mai né sopra né sotto le righe, e questo indubbiamente si avverte: un qualcosa di simile a una certa atmosfera che trovi alle origini (secondo le testimonianze) in tutti i più grandi movimenti ideologici: quei movimenti cioè che hanno provato a cambiare il mondo con un certo successo.  Pur conoscendo il Movimento dall’esterno, e necessariamente lasciando non detto, per ignoranza, ogni riferimento a ciò che è più strettamente teorico, già il semplice contatto con un umanista non mi ha mai passato quell'angoscioso, triste senso di pesantezza che senti ogni volta che qualcuno dice "noi siamo questo" "voi siete questo"; e avverto piuttosto un’aria di perenne freschezza - dico perenne nonostante la relativa giovinezza di questo già storicamente importante movimento ideologico. Forse in questo ci senti qualcosa di più vicino a certo spirito ilare di cui si parla nella Regola di San Benedetto. E anche gli umanisti a modo loro “pregano”, cioè si riuniscono, studiano e riflettono con tenacia, intelligenza e passione sui grandi temi che da sempre interessano l’uomo e la donna: il superamento della sofferenza, la possibilita di accedere al sacro. E in questi momenti di meditazione utilizzano tecniche di grande spesore teorico che (per quel poco che ho letto)  niente hanno da invidiare ai grandi sistemi tradizionali. Sono ormai, in tutti e cinque i continenti, più di venti i parchi umanisti dove si svolgono questi incontri. E la loro presenza nel mondo, la presenza del Nuovo Umanesimo, è tutt’altro che nascosta, velata. Silo stesso, cioè Mario Rodrìguez Cobos, riuscì a promuovere nel 2006 una campagna per il disarmo nucleare nel mondo, e fu uno dei rappresentanti, nel 2007, della giornata mondiale della nonviolenza.   

A frequentarli un po’, a prenderti un caffè con loro, senti che hanno una fede bella tosta, allegri o incazzati che siano: partecipano al mondo, lavorano, hanno figli, gioie, dolori, sono persone normalissime, ma in loro, nel loro quotidiano, si incarna concretamente un desiderio di cambiarlo, questo mondo. E hanno pazienza.

                                          foto di Anita Szeicz

Cerchi di capire quale sia questa fede, in cosa si distingua dal Cristianesimo o dal Marxismo, anche perché alcuni temi erano già lì, presenti nell’uno o nell’altro di quei movimenti: ripudiare la violenza in tutte le sue forme, affermazione dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, l’essere umano come valore e interesse centrale, il concetto di reciprocità, inteso quasi come precetto biblico del tratta l’altro come vuoi essere trattato, oppure il concetto di coerenza, nel senso di pensare, agire e sentire nella stessa direzione. E allora, quella differenza ti sembra di poterla andare a cercare solo in quel po’ che vieni a sapere di quanto hanno già fatto, fanno e continuano a fare. Quel poco che vieni a sapere, appunto, perché se perfino i grandi giornali in Italia hanno dedicato appena un trafiletto alla morte di Silo, che come si è visto passò pure l’esamino di Holliwood (oltre che della letteratura, dal momento che certi nomi e fatti a lui legati possiedono innegabilmente quella sorta di  solarità che soltanto la grande letteratura sempre possiede), non puoi certo aspettarti di più, non puoi immaginare che questi ragazzi e ragazze e uomini e donne di tutte le età ricevano anche solo una goccia dello spazio che ottiene il bello o la bella dell’Isola dei famosi o del Grande Fratello.

Eppure, anche a considerarli così, nell’ingenuità di uno sguardo esterirore, si rischia di dire sempre poco, di non avvicinarti mai abbastanza al cuore della questione. E se poi lo domandi a uno di loro: ma voi cosa volete ottenere, veramente? ti rispondono ancora più candidamente (e ti commuove il tono per nulla  presuntuoso): vogliamo umanizzare la terra, che è poi il titolo di una delle opere di Silo. E ti domandi a quel punto cosa significherà umanizzare la terra, con quali gesti azioni pensieri.  E allora qui c’è poco da fare o dire: per poco che li hai conosciuti, senti che questi gesti e azioni e pensieri sono dei più semplici: non sono fatti per nulla di conferenze pubbliche, di chiamate a raccolta, di slogan robanti, di grandi manifesti. Non ci sono le penne di pavone di ciò che non si farà. Sarà tra le altre cose anche per questo che attirano e suscitano simpatia in quei quartieri dove operano, con un profondo radicamento nel territorio. Alcuni temi di cui si fanno forti oggi i grillini erano già degli umanisti una ventina di anni fa, e già allora portati avanti con meno fumosità e con più concretezza nel loro libro arancione (politiche incisive su banche, finanziamento pubblico dei partiti - non completamente abolito ma ridotto all'osso, la stessa cifra per ogni partito, grande o piccolo, e gestita direttamente dalla Stato con pagamenti fatti direttamente dallo Stato - eccetera). In questo senso la loro è vera politica, cioè politica concreta, anche perché non può esistere politica al di fuori del radicamento nel territorio: non c’è politica esclusivamente in streaming, fatta soltanto di click di un mouse, che sarebbe una politica senza responsabilità - e ci sarebbe tuttavia da dire, che se le penne di pavone o i cri cri dei nuovi grilli parlanti, di chi crede cioè di far politica senza nessun radicamento nel territorio, se queste penne sembrano belle e inconsistenti, non saranno però prive di una loro ironica utiltità: a definire magari per contrasto alcuni elementi di un più generale concetto di umanizzazione, considerata la fortuna che dopotutto hanno avuto quasi tutti gli animali e gli insetti nell'universo dei grandi moralisti, da Esopo in poi.

Ma intanto, in questo loro mettere mattone sopra mattone, raccolgono, gli umanisti, soldi per costruire una piccola scuola o un piccolo ospedale grande come un appartamento di 250 mq in Burkina Faso o in Togo, paesi la cui economia, il cambio della moneta, sono ancora oggi gestiti e imposti dalle banche francesi. E in quel "250 mq", la superficie di un semplice villino, in questa misura apparentemente minima, mi pare sia racchiuso il senso di ciò che significa per loro essere umanisti, umanizzare il mondo. Li vedi a Natale o a Pasqua coi loro banchetti a vedere panettoni e colombe nelle grandi città italiane. O in altri paesi a vendere qualcosa di simile. Si deprimono quando non raggiungono una certa cifra. E fanno anche loro come le formichine: mettono da parte ogni singolo centesimo per dedicarli poi tutti all'Africa, alla loro Africa: metterci anche e soprattutto di tasca propria. Perché dovrebbe essere in fondo questo il vero spirito di chi fa volontariato, che ben poco ha in comune con le ONG, perché se prendi due tremila euro al mese per farlo, non si capisce che razza o che tipo di volontario sei.

Di questi panettoni pare che una volta, a largo Goldoni a Roma, Brignano ne abbia comprati cinquanta tutti in una volta. Illuminato forse da un soriso di uno degli umanisti, o forse dal sentimento che gli dei alla fine potrebbero mostrarsi invidiosi, punirti della tua eccessiva fortuna, del tuo talento. Mentre una mezzora dopo, una ragazzina di vent’anni, scesa da una grossa macchina scura con autista se ne è andata tranquilla e spensierata per via Condotti, dove ci sono Gucci Fendi e compagnia bella. Una ragazza del movimento pare abbia in quel momento stretto i pugno e digrignato i denti.   

Ho detto tempo fa a un umanista: in fondo anche i radicali sarebbero un movimento non violento, transazionale. Mi ha risposto, in napoletano: i radicali hanno prodotto Capezzone … E forse ha ragione il Movimento Umanista …