domenica 19 maggio 2013

Il celeste imperialismo




Parecchi anni fa, poco più che ventenne, trovandomi a girare per Pechino e essendomi felicemente perso lungo un hutong, nel vecchio distretto di Xicheng, vedo a una certa distanza una turista, forse sulla sessantina, in jeans e t-shirt bianca. Sembrava anche lei girare senza meta. Senza che mi veda proseguo anch'io per lo stesso vicolo. A un certo punto, forse perché stanca, forse disorientata, la povera turista, che aveva una macchina fotografica a tracolla, si siede su una grossa pietra all’esterno di un cortile. Il tutto mi appariva nella tipica luce di Pechino, velata da un che di sabbioso, di polveroso. Quasi nello stessso momento in cui la donna si siede, escono da una casa un paio di anziane: ognuna si trascinava una sedia, e vanno a sedersi ai due lati della straniera. A proteggere la straniera. Ma c’era un qualcosa di più del semplice voler proteggere una donna che si avventurava da sola in un posto a lei sconosciuto: c’era un fare gli onori di casa. Restai un paio di minuti a osservare la scena: nessuna delle tre diceva niente, soltanto qualche sorriso reciproco.

                                      Liulichang (distretto di Pechino) - photo by Shazari 

Non so quanto sia rimasta lì fuori, la straniera, in compagnia delle due cinesi. Ma ogni volta che sento di una qualche aggressione di stampo razzista in Europa, ogni volta che sento discorsi che sottintendono una presunta superiorità razziale, di una nazione o di una etnia su un’altra, ripenso a quella scena di quel pomeriggio d'estate a Pechino. E continuo a essere grato all’onnipotente Cina di oggi, erede del Celeste Impero di ieri, di avermi dato la più divina rappresentazione dell’accettazione dell’outsider. Forse nemmeno troppo rara per quelle generazioni.

Può darsi che i cinesi di oggi nutrano un qualche desiderio di rivalsa: il ricordo - per loro tutto scolastico - dei vecchi imperialismi: quello britannico prima di tutto e poi quello francese, adesso che pure l’economia africana finisce rapidamente in mano loro. Eppure c’è una certa grazia in questa business philosophy cinese, in questo indossare una feroce sovrastruttura capitalistica che non sono stati loro dopotutto a inventare. Ignoro come si dica rendere pan per focaccia in mandarino, ma mi torna in mente l'atteggiamento di quei caparbi "bottegai" di Londra (come Napoleone chiamava gli inglesi) subito dopo la pubblicazione di una lettera aperta del commissario imperiale Lin Zexu alla regina Vittoria: una lettera umanissima, cortesissima, moralmente ineccepibile e tutta pregna di concetti di spiritulità confuciana: una lettera con la quale chiedeva a Sua Maestà Britannica di interrompere l’osceno traffico di oppio che stava fiaccando vergognosamente il popolo cinese. I "bottegai" della regina Vittoria risposero più prontamente che mai: inviando le loro cannoniere lungo le coste del Celeste Impero, a scatenarvi paradossalmente l'inferno.

                                                      Lin Zexu

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