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mercoledì 24 dicembre 2014
Stendhal, il teorema di Lagrange e i safety tutor sulle autostrade
La questione del successo postumo è strettamente legata al denaro che si può ricavare da un autore, da un pittore eccetera morti in assolutà povertà, in stato di quasi indigenza; per altri invece la questione non cambia: erano comunque ricchi o benestanti, anche se è difficile pensare che chi è poi finito nel calderone dei classici non sputasse costantemente sangue, se si vuole tener fuori il conte Giacomo Leopardi e pochi altri, Proust eccetera. Quando a cinquant'anni Stendhal dice nei Ricordi di egotismo che dieci anni prima gli restavano soltanto 3500 franchi (forse qualcosa come diecimila euro di oggi), e che una volta finiti avrebbe avuto almeno la gioia di farsi saltare le cerevella non immaginava il mare di denaro che gli editori in tutto il mondo avrebbero cominciato a far girare cento anni dopo coi suoi libri. Per altri - e questo è più vero in ambito accademico - la quantità di grana che si sarebbe generata con qualche loro scoperta è talmente incommensurabile che neanche il loro genio avrebbe potuto calcolarla. Che è per esempio il caso di Lagrange e del suo bellissimo teorema o formula sulle funzioni derivabili, quella che stabilisce, se applicata al movimento, che la velocità media che si percorre in un tratto di strada tra un punto a e uno b è uguale alla velocità istantanea calcolata in un punto compreso tra a e b:
(f(b)-f(a))/(b-a)=f '(x)
Che è poi la formula usata dai safety tutor in autostrada, quei dispositivi che calcolano la velocità media di un mezzo. Così se è vero il teorema di Lagrange (e non ci sono ragioni per non crederlo vero) poiché ci sarà almeno un punto nel tratto in cui la tua velocità è uguale a quella media calcolata sull'intero percorso, allora se alla fine la tua veloctà media risulterà superiore a quella che ti è stata imposta su quel tratto, vuol dire che c'è stato almeno un punto in cui l'hai superata. E questo, al di fuori della matematica, può dirsi anche di qualsiasi autore, pittore, musicista, o politico che sia passato alla storia.
Il torinese Lagrange - anzi Giusepper Ludovico Lagrangia (il suo nome sarebbe suonato ugualmente grande se avesse conservato la grafia italiana) era in fondo un semplice borghese, un benestante. Ma meno attento al denaro che alla gloria. E che sicuramente guardava solo all'esprit de géométrie: che cosa poteva fregargliene delle centinaia di milioni di euro che un giorno avrebbero fatturato con la sua formula se già sentiva il suo nome appartenere ai posteri? Ebbe vita facile (a parte gli anni di apprendistato - che fosse stato autoditatta nello studio della matematica superiore va ascritto a suo merito e dovette farlo a tozzi e bocconi e pure di nascosto dal padre - per il resto tutto in seguito filò liscio, se si escludono le sue ricadute nell'ipocondria: dal momento in cui a vent'anni fu nominato Sostituto del Maestro di Matematica nelle Regie Scuole di Artiglieria, a quando successe a Eulero a Berlino, a quando si traferì a Parigi e dopo qualche tempo sposò, a cinquantasei anni, una ventiseienne. E comuque ebbe gloria ai suoi tempi, tanto più sotto Napoleone, e diventò senatore eccetera.
Anche Stendhal aveva amato Napoleone, e - a differenza di Lagrange, che era un'opportunista - l'aveva amato davvero. E aveva amato anche la matematica (numerosi i riferimenti nell'Henry Brulard: Ma cohabitation passionnée avec les mathématiques m'a laissé un amour fou pour des bonnes définitions, sans lesquelles il n'y a que des à-peu-près). Ma non fece ugualmente una buona fine. Pochi soldi, calcoli ai reni, gotta, emicranie. E alla fine morì a cinquantanove anni d'infarto. Un piccolo trafiletto su un giornale, è morto il signor Beyle, autore della Vita di Mozart e Cimarosa. E fu tutto. E non ebbe la tomba al Panthéon a Parigi come Giuseppe Lagrangia, ma comunque sempre al Père Lachaise. Il fatto è che a quel tempo al Père Lachaise ci mettevano tutti.
venerdì 12 dicembre 2014
L'amicizia e la stima
Non si sa se sia preferibile l'amicizia alla stima. La stima comporta quella giusta distanza che manca sempre nell'amicizia: in entrambi i casi molto è dovuto all'abitudine.
Voila le portrait d'un homme - dice Stendhal nei Souvenirs d'egotisme - avec qui j'ai passé toutes mes matinées pendant huit ans. Il y avait estime, mais non amitié.
C'era stima ma non amicizia nonostante la lunga e assidua frequentazione.
E' il barone di Lussinge. E tuttavia anche la stima può col tempo lasciare il posto alla disistima:
Il ne commença à se détacher de moi et à être impoli dans le discours que lorsque la réputation d’esprit me vint, après l’affreux malheur du 15 septembre 1826.
Ci sarebbe da chiedersi che cosa apprezzasse Stendhal di Lussinge, un uomo basso, tozzo, tarchiato e che non aveva altra religione che il prezzo che metteva all'essere nato aristocratico. Un calcolatore nato (esiste una definizione di nobiltà che prevede invece assenza di calcolo), il contrario del bonapartista idealista e sognatore che era Stendhal:
toujours mal mis par avarice et employant nos promenades à faire des budgets de dépense personnelle pour un garçon vivant seul à Paris.
Ma aggiunge Stendhal:
possedeva una sagacia unica: nelle mie fervide e romanzesche illusioni io non davo che trenta (mentre il valore non era che quindici) al genio alla bontà alla gloria di tale o tal altro uomo, lui non gli dava che sei o sette.
(M. de Lussinge ... avait une rare sagacité. Dans mes illusions romanesques et brillantes, je voyais comme trente, tandis que ce n’était que quinze, le génie, la bonté, la gloire, le bonheur de tel homme qui passait, lui ne les voyant que comme six ou sept). Souvenirs, c. 2
Voila le portrait d'un homme - dice Stendhal nei Souvenirs d'egotisme - avec qui j'ai passé toutes mes matinées pendant huit ans. Il y avait estime, mais non amitié.
C'era stima ma non amicizia nonostante la lunga e assidua frequentazione.
E' il barone di Lussinge. E tuttavia anche la stima può col tempo lasciare il posto alla disistima:
Il ne commença à se détacher de moi et à être impoli dans le discours que lorsque la réputation d’esprit me vint, après l’affreux malheur du 15 septembre 1826.
Ci sarebbe da chiedersi che cosa apprezzasse Stendhal di Lussinge, un uomo basso, tozzo, tarchiato e che non aveva altra religione che il prezzo che metteva all'essere nato aristocratico. Un calcolatore nato (esiste una definizione di nobiltà che prevede invece assenza di calcolo), il contrario del bonapartista idealista e sognatore che era Stendhal:
toujours mal mis par avarice et employant nos promenades à faire des budgets de dépense personnelle pour un garçon vivant seul à Paris.
Ma aggiunge Stendhal:
possedeva una sagacia unica: nelle mie fervide e romanzesche illusioni io non davo che trenta (mentre il valore non era che quindici) al genio alla bontà alla gloria di tale o tal altro uomo, lui non gli dava che sei o sette.
(M. de Lussinge ... avait une rare sagacité. Dans mes illusions romanesques et brillantes, je voyais comme trente, tandis que ce n’était que quinze, le génie, la bonté, la gloire, le bonheur de tel homme qui passait, lui ne les voyant que comme six ou sept). Souvenirs, c. 2
mercoledì 9 luglio 2014
il fanatismo dei tedeschi e la nemesi
La partita Brasile-Germania dei mondiali del 2014 ha mostrato, dei tedeschi, uno degli aspetti più tipici del loro carattere nazionale, che è anche l'elemento peggiore: il fanatismo. Per quanto Stendhal nei suoi Ricordi d'egotismo ne parli come di una nazione essenzialmente buona se paragonata all'inglese e alla francese, e per quanto in effetti si tratti di un popolo di indole spontaneista, molto più prossimo agli italiani di quanto non si pensi, riescono poi a offrire, in certi momenti della loro incredibile storia, questi spettacoli di puro, rigido invasamento, che più che suscitare ammirazione inducono ogni volta a riflettere. Non si continua mai, contro un nemico ormai psicologicamente provato, annullato sotto gli occhi del suo generoso pubblico, a infierire senza nessuna ragione: neppure quando i giocatori in campo, come si dice, vedono soltanto la rete avversaria (un po' come il toro che dovunque si giri vede il rosso - che non sia così, che non si vede solo e sempre la porta avversaria, lo dimostra l'esistenza del concetto di un gioco tutto di difesa, il cosiddetto catenaccio). Già un quattro a zero è un risultato che una squadra veramente forte dovrebbe essere in grado di gestire senza nessun problema, divertendosi anche, mettendoci pure un pizzico di perfidia, come magari farebbe il gatto col topo; un 7 a 1 è invece il segno dell'opposto: di una squadra vincitrice mediocre, invisibile sul piano umano (il calcio è uno spettacolo viscerale, mobilita sentimenti di massa), una squadra che sta giocando contro un avversario che nemmeno esiste (e tanto più è inesistente l'avversario tanto più forti si appare agli occhi dei merli). Non ci vuole molto a capire che la prossima finale - che sia l'Olanda o l'Argentina - vedrà il mondo schierato contro il fanatismo storico (hegeliano) dei tedeschi, il quale non aspetta mai altro che la prima occasione per rivelarsi sempre e nuovamente uguale a se stesso.
Così la semifinale Italia Germania dei mondiali del 2006 (ma lo stesso potrebbe dirsi della semifinale Italia Germania dei mondiali del 1970 in Messico, nominata la "Partita del secolo", o della finale dell'82 a Madrid) per quanto giocata, la partita del 2006, per centoventi minuti ad altissimi livelli da entrambe le squadre, fu il segno, negli ultimi due minuti dei supplementari, non della superiorità degli italiani (che sono da sempre calcisticamente i veri avversari dei tedeschi), ma di una nemesi storica che andò a stanare e a punire i tedeschi proprio nella loro terra - una vendetta che prima o poi arriva e che ti ricorda che per poter dire di aver vinto devi prima di tutto avere davanti un avversario vero, non degli zombi.
Così la semifinale Italia Germania dei mondiali del 2006 (ma lo stesso potrebbe dirsi della semifinale Italia Germania dei mondiali del 1970 in Messico, nominata la "Partita del secolo", o della finale dell'82 a Madrid) per quanto giocata, la partita del 2006, per centoventi minuti ad altissimi livelli da entrambe le squadre, fu il segno, negli ultimi due minuti dei supplementari, non della superiorità degli italiani (che sono da sempre calcisticamente i veri avversari dei tedeschi), ma di una nemesi storica che andò a stanare e a punire i tedeschi proprio nella loro terra - una vendetta che prima o poi arriva e che ti ricorda che per poter dire di aver vinto devi prima di tutto avere davanti un avversario vero, non degli zombi.
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martedì 20 agosto 2013
Proust internauta e i wormholes
![]() |
Philippe E. Hurbain, Wormhole: panorama of the dunes |
Mi è capitato di trovare, anni fa, nei diari di Philippe
Sollers, un certo giocoso e nostalgico riferimento a Proust. Diceva Sollers che se Proust vivesse oggi
sarebbe senz'altro un indemoniato del fax, delle email e di tutto il resto, e che lo si vedrebbe sposare
pienamente la causa di Internet - ammesso, ovviamente, che Internet si proponga una causa, un qualche fine umanitario, e
che non sia semplicemente la più potente e cavernicola forma di retorica che la Storia conosca, basata come tutte le retoriche che si rispettino, sulla manipolazione e il controllo totale dell'individuo. A dire
il vero Sollers non diceva indemoniato, ma il senso
era quello, che cioè proprio Proust, colui che più di ogni altro era parso immerso nei discorsi sociali di un mondo chiuso ed esclusivo, si sarebbe gettato oggi anima e corpo in tutti i più minuti meccanismi e varianti globali di queste odierne e dissocianti tecnologie dell'annullamento di una distanza. E in effetti di Proust (e inevitabilmente del Narratore della Recherche) si conosce la passione per le invenzioni dell'epoca: il telefono ancora agli inizi col quale ascoltava i concerti da casa, la bicicletta di Albertine a Balbec, l'aereo ammirato a Versaille e nei pressi del castello della Raspelière ma poi oggetto temutissimo durante la guerra. Non era certo un nostalgico. E inoltre si conosce almeno un caso in cui il Proust anagrafico si divertì per qualche ora a impersonare il portiere di uno stabile nel quale abitavano alcuni suoi amici, professione da sempre lanciata nel più lontano e più moderno futuro.
Non credo tuttavia che Sollers abbia posto o indicato la questione nei termini giusti. Non ha molto senso chiedersi come sarebbe o cosa farebbe oggi un Leonardo, o come sarebbero Balzac o Stendhal o Montaigne. Fa venire in mente quegli uomini che dicono che se fossero donne farebbero sesso ogni cinque minuti. Porre la questione in questi termini svela semplicemente un sentimentalismo o un arrapamento di tipo senile, anche piuttosto preoccupante in un intellettuale di un certo calibro che dovrebbe tenere confinati i propri istinti al privato, pure in un diario da rendere pubblico.
Non credo tuttavia che Sollers abbia posto o indicato la questione nei termini giusti. Non ha molto senso chiedersi come sarebbe o cosa farebbe oggi un Leonardo, o come sarebbero Balzac o Stendhal o Montaigne. Fa venire in mente quegli uomini che dicono che se fossero donne farebbero sesso ogni cinque minuti. Porre la questione in questi termini svela semplicemente un sentimentalismo o un arrapamento di tipo senile, anche piuttosto preoccupante in un intellettuale di un certo calibro che dovrebbe tenere confinati i propri istinti al privato, pure in un diario da rendere pubblico.
Avendo scritto la mia prima tesi sugli influssi della poesia alessandrina in Catullo, per un certo periodo rimasi convinto di essere la sua reincarnazione, considerato che dopotutto si chiamava Gaio Valerio e che io pure mi chiamo Valerio, e che già al liceo amavo i suoi epigrammi e anzi li avevo riscrittti adattandoli ai miei tempi e intitolando quel lavoretto Catullo allo specchio. Così, un autunno di tanti anni fa, arrivando sul lago di Garda e andando subito a vedere i resti della supposta Villa di Catullo chiesi agli amici con cui ero di lasciarmi per un po’ da solo: volevo fare un semplice esperimento: misurare una volta per tutte l'effettiva distanza ontologica, se ce n'era una, che mi separava da Catullo. Mi sedetti tra le antiche pietre e restai in silenzio qualche minuto. Ma non sentii niente. E pensai che o io non ero Catullo o che quella non era la sua villa.
![]() |
ultima immagine di Proust |
Sarebbe più interessante chiedersi invece che cosa avrebbe da fare o cosa si troverebbe a fare uno
dei tanti scrittori che oggi vanno per la maggiore - ma anche uno dei tanti attori, musicisti, architetti o qualsiasi altro
personaggio pubblico convinto di essere qualcuno - di cosa si scoprirebbero appassionati se
venissero improvvisamente portati indietro nel tempo con lo stesso nome e
professione di oggi. E non so perché mi viene in mente una storiella morale di
san Bernardino da Siena, che racconta che un bel giorno un uomo che passeggiava per la via degli Speziali,
dove si sentivano nell'aria profumi e aromi di ogni genere, improvvisamente cadde a terra svenuto. Come ancora oggi succede, molte persone gli si fecero attorno, arrivò anche
un medico, che dopo averlo palpato e ripalpato chiese se qualcuno ne conosceva il mestiere. Quando gli dissero che faceva il
votatore di pitali, il medico sorrise e disse di portare dello sterco di cavallo. Come l'ebbe tra le mani, gliene passò un po’ sotto il naso e quello rinvenne.
Concludeva san Bernardino: voi ci ridete, et ecci da piangere.
venerdì 3 maggio 2013
L'eta giusta per pubblicare e il ragioniere
Seguier durante l'entrata di Luigi XIV a Parigi
Tentare di pubblicare per la prima volta sottintende - diciamolo subito - il desiderio di un riconoscimento: essere considerati dei pari: cercare in tutti i modi di inserirsi in un ambiente al quale ancora non si appartiene, nel quale ancora non si è stati ammessi.
Ricordo anni fa un amico d'infanzia, col quale continuavamo a divertirci pure da adulti, mi disse: “adesso sono un personaggio pubblico!” Lo disse soddisfatto, senza nessuna ironia. Ebbi allora l’impressione, anche perché non era eccessivamente alto, di trovarmi finalmente di fronte all’incarnazione
di ciò che fino ad allora conoscevo solo come termine di dizionario: un
salapuzio. Smisi di cercarlo. In realtà il suo nome apparve per pochissimo tempo su certe locandine e per quel poco che ne so credo che anche in seguito non abbia ottenuto quella visibilità che forse inizialmente si aspettava. In più ha perso un
amico. E me ne dispiaccio, perché insieme si giocava veramente bene, almeno nel modo in cui lo facevamo noi.
C’è inoltre in Italia - a parte un legttimo desiderio di "pubblicare" - una certa
ossessione per l’età giusta, quella che bisogna necessariamente avere quando si pubblica per la prima volta,
cioè attorno ai vent'anni. Il che mi sembra di buon auspicio se è vero quanto si dice da millenni: che chi muore a vent'anni è perché gli dei lo amano. Ma sia pure. Pubblichi a vent'anni. Sei forse Mozart, che a undici anni musicava l'Apollo e Giacinto? Cosa mi racconti poi nei tuoi romanzi scritti a vent'anni? il numero dei contatti che hai su FB? il numero delle cliccate ricevute o il fatto che “a quello l’ho proprio pisciato perché c’aveva solo 15 followers"? Può anche andarmi bene, e anzi mi piace, ma se me lo ripeti dalla prima all'ultima riga preferisco sentirlo dal vero.
Di Umberto Ecco si legge su un blog letterario la risposta che ha dato a un ragazzo che voleva inviargli un suo manoscritto. Quest'uomo ormai ai vertici della fama - il che significa anche fuori dell'Italia - con le mani in pasta dovunque (riviste, quotidiani, corsi universitari, saggi, romanzi eccetera), dice al povero e sconosciuto aspirante alla gloria che purtroppo non potrà leggerlo. La sua risposta è emblematica: è un paradigma di paradossale gesuitismo, dove cioè si ammette e non si ammette nessun relativismo. Avrebbe potuto tagliar corto e fare come Bacon, che al pittore che in un pub chiedeva se poteva mostrargli le sue opere dice continuando tranquillamente a bere: "non ne ho bisogno, vedo già dalla cravatta che porti che non hai nessun talento". Con piglio invece da contabile più che da professore erasmiano Eco squaderna la sua memorabile agenda e spiega quali sono i motivi del suo rifiuto. Praticamente la mancanza di tempo. La mia giornata è così regolata, dice Eco: 5 min. per questo, dieci per questo, 23 per questo, un’ora e venti per questo, 2 ore per questo. E suggerisce al futuro romanziere di inserirsi negli ambienti delle riviste e cominciare a poco a poco a fare gavetta.
Un mio collega all’università a Londra ma di un altro dipartimento, genio dell'informatica, una ventina d'anni più di me, un bel giorno che eravamo fuori per il lunch e parlavamo di Giappone e di architettura contemporanea mi dice all'improvviso: “ma sai, io fino a qualche anno fa non ero per niente conosciuto nel mio campo, mi ero sempre occupato di urbanistica, lavoravo in un semplice studio dietro King’s Road: poi a quarant’anni ho fatto un altro PhD e eccomi qua a cinquanta a insegnare quello che sai".
Di Umberto Ecco si legge su un blog letterario la risposta che ha dato a un ragazzo che voleva inviargli un suo manoscritto. Quest'uomo ormai ai vertici della fama - il che significa anche fuori dell'Italia - con le mani in pasta dovunque (riviste, quotidiani, corsi universitari, saggi, romanzi eccetera), dice al povero e sconosciuto aspirante alla gloria che purtroppo non potrà leggerlo. La sua risposta è emblematica: è un paradigma di paradossale gesuitismo, dove cioè si ammette e non si ammette nessun relativismo. Avrebbe potuto tagliar corto e fare come Bacon, che al pittore che in un pub chiedeva se poteva mostrargli le sue opere dice continuando tranquillamente a bere: "non ne ho bisogno, vedo già dalla cravatta che porti che non hai nessun talento". Con piglio invece da contabile più che da professore erasmiano Eco squaderna la sua memorabile agenda e spiega quali sono i motivi del suo rifiuto. Praticamente la mancanza di tempo. La mia giornata è così regolata, dice Eco: 5 min. per questo, dieci per questo, 23 per questo, un’ora e venti per questo, 2 ore per questo. E suggerisce al futuro romanziere di inserirsi negli ambienti delle riviste e cominciare a poco a poco a fare gavetta.
Un mio collega all’università a Londra ma di un altro dipartimento, genio dell'informatica, una ventina d'anni più di me, un bel giorno che eravamo fuori per il lunch e parlavamo di Giappone e di architettura contemporanea mi dice all'improvviso: “ma sai, io fino a qualche anno fa non ero per niente conosciuto nel mio campo, mi ero sempre occupato di urbanistica, lavoravo in un semplice studio dietro King’s Road: poi a quarant’anni ho fatto un altro PhD e eccomi qua a cinquanta a insegnare quello che sai".
L’ossessione dell’età non è poi un fatto troppo curioso in Italia (che non è per niente il reame dei navigatori dei poeti e dei santi - e la Francia ha fondato da sola più ordini monastici lei che tutti gli altri messi insieme): una nazione, la nostra, interessata più alla “bella figura”
che alla sostanza - altri segni evidenti di questa sibaritica confusione e
incertezza mentale e intellettuale sono l’intricata burocrazia e il desiderio di leggere i propri fatti sui siti stranieri - cosa dicono ad esempio il Guardian, Le Monde o il Frankfurter Algemeine o El Pais se l'ultimo dirigente di un partito se l'è fatta adddosso. C’è proprio da immaginarli i britannici mentre consultano i giornali
stranieri per vedere se si parla di loro, nelle piccole come nelle grandi cose.
Montaigne non pubblicò quasi niente, il suo diario di viaggio venne stammpato un paio di secoli dopo, e quando pubblicò la prima edizione dei Saggi aveva quarantasette anni.
Stendhal, a parte alcune cosucce su Rossini e Cimarosa e altre amenità, diede alle stampe il suo
capolavoro, Il rosso e il nero,
a cinquant’anni, forse qualche annetto in meno, ma nel tempo perso si
divertì alla grande e soffrendo anche per amore e ad ogni modo nella maniera
che descrive magistralmente in una delle sue opere più belle, pubblicata postuma, Ricordi
di egotismo.
E per sfortuna di tanti autori
che credono di aver toccato i primi gradini della fama, di avere svoltato, di essersi finalmente inseriti da qualche parte mentre tra qualche anno ne ritroveremo i
tristi volumi accatastati nei remainders, oggi c’è internet, su cui pubblicano tutti, e
tutti possono farlo. Se fossi stato quindi nei panni di Eco avrei detto a quel ragazzo: vediamoci da qualche parte e ci prendiamo un bel caffè e chiacchieriamo d'altro: per quale motivo prendersi tanto sul serio, cercare di entrare dentro un ambiente nel quale sai bene, a giudicare dalla lettera che mi hai scritto, che non ti accetterebbero, e all'interno del quale, ammesso che tu riesca a passare e fossi pure uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, saresti in compagnia di tantissima mediocrità ... Avrebbe usato anche meno parole, il ragionier Eco. Un gran risparmio sul suo prezioso tempo.
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