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mercoledì 6 agosto 2014

Il paradiso e l'inferno. Perché i gay dovrebbero cambiare etichetta

I gay dovrebbero cambiare etichetta. Sembra che non si siano mai accorti che il nome del bombardiere che sganciò la bomba su Hiroshima è Enola Gay, il nome della madre del pilota.

Dizionarietto ragionato.

Hiroshima:città giapponese fondata nel 1589, bagnata dalle acque del Kyobashigawa. E' luogo di genocidio: vi si realizzò  uno dei due più grandi crimini commessi contro l'umanità durante una singola limitata azione di guerra. Vi morirono in un singolo istante quasi centomila persone. La regia scientifica venne affidata a Robert Hoppenheimer.

Robert Hoppenheimer, il maggiore responsabile in senso assoluto di quello che successe a Hiroshima e Nagasaki, il fisico fotografato in giacca e cravatta insieme al generale LeslieGroves. Disse, in un'apparente esplosione di disgustosi sensi di colpa: "Now I am become Death, the destroyer of worlds" - Sono diventato morte, distruttore di mondi, parole tratte dal canto Bhagavad Gita, della tradizione Hindu. Non ebbe nessuna crisi di coscienza come si dice, se avesse avuto una qualche crisi di coscienza non avrebbe alla fine accettato la direzione dell'Institute for Advanced Studies di Princeton - dietro questa nomina ci fu anche lo zampino del cosiddetto genio Einstein.

Harry Truman. Agricoltore. Respinto da un'accademia militare per problemi di vista. Trentatreesimo presidente americano. Partito Democratico. Insieme alla banda degli onesti fu il mandante dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki. 

Theodore Van Kirk. Navigatore dell'equipaggio che causò materialmente la morte istantanea di quasi centomila persone a Hiroshima. Era l'ultimo rimasto in vita. E' morto qualche giorno fa, sei giorni prima del 6 agosto, anniversario che dal 1945 non avrà mai smesso di ricordare. Si è spento "tranquillamente" nel suo letto, a 93 anni. Se il Dio dei cristiani, il suo Dio, esiste (cosa a cui non credo), non se la starà passando troppo bene in questo momento. A quanto pare è morto senza senza avere mai provato nessun rimorso. Cosa anche questa difficilmente credibile, essendo stato, a differenza della vera mente del male, Hoppenheimer, una semplice pedina in un gioco di cui ignorava forse perfino l'esistenza. La sua vita quindi non può non essere stata che un lungo martirio: non può non essersi svegliato ogni mattina con uno stesso pensiero, non può non essersi spento che in compagnia delle immagini infernali di Hiroshima che, come raccontava lui, sembrava, vista dall'alto, bollire in un mare di fiamme.

Sistema metafisico

L'inferno, che sta vivendo anche il defunto Hoppenheimer, è quel momento preciso - un momento matematicamente infinito - il momento della morte, quando la coscienza si spegne e fa in quel preciso istante esperienza eterna, interminabile, dell'eternità. Nel caso di alcuni il Paradiso. Nel caso di altri l'Inferno.

Vedi quanto ho già detto a proposito dell'inferno e di Wittgenstein

giovedì 26 settembre 2013

Storia del mondo in mezza pagina. Se la donna dicesse "no".


Se per un eccesso di barbarie tutte le acquisizioni tecnologiche e intellettuali venissero di colpo abolite e l’uomo e la donna si ritrovassero al semplice stato di natura e a non avere come unico possesso se non se stessi, che altro potrebbe ancora succedere? Per parecchio tempo

sabato 21 settembre 2013

voce antica più che contemporanea



Voce più che contemporanea quella di Plinio il Vecchio se nel VII libro della sua Storia naturale, pur non nascondendo una discreta, sincera ammirazione per Gaio Cesare (la sua celebrata clemenza e, in particolare, ammirazione di ciò che viene detto un eccezionale vigore d’animo e che non sarebbe oggi altro che un misto di forza di carattere e potenza intellettuale [animi vigore prestantissimum arbitror genitum Caesarem dictatorem] e ammirazione del suo incomparabile insuperabile elevato sentire, che l'avrebbe indotto dopo la battaglia di Farsalo, quando si trovò tra le mani il cofanetto con le lettere di Pompeo, e in un esempio di superiore elevatezza morale, a bruciarle senza leggerle [concremasse ea optima fide atque non legisse], lo stesso che avrebbe fatto con le lettere di Scipione a Tapso) finisce poi per accusarlo ugualmente e senza mezzi termini di crimini contro l’umanità [tantam etiam coactam humani generis iniuriam] per il milione e centonovantaduemila uomini che fece perire con le sue cinquantadue battaglie escluso però il numero dei morti delle guerre civili (la questione non cambia se si seguono altre cifre di altri scrittori dell’antichità: i quattrocentomila morti di cui parla Velleio Patercolo o il milione che riporta Plutarco). Cifre quindi abominevoli non solo per la coscienza odierna.

Non meno tagliente il giudizio di questo scrittore - anzi più che giudizio tagliente, il suo sarcasmo feroce - quando sempre in questo settimo libro della Naturalis Historia accenna ancora, in una sorta di benemerita coazione a ripetere, a un altro dittatore, a Lucio Silla. “Si è senz’altro”, dice Plinio, “attribuito il soprannome Felice a causa del sangue dei tanti concittadini che ha versato e per aver posto sotto assedio la sua stessa patria. E quali sarebbero", si domanda Plinio, "questi argomenti di felicità? Avere trucidato e proscritto così tante migliaia di uomini?” [Felicis sibi cognomen adseruit L. Sulla, civile nempe sanguine ac patriae oppugnazione adoptatum. Sed quibus felicitatis inductus argumentis? Quos proscrivere tot milia civium ac trugidare potuisset?]. Ma è un pauroso crescendo, quello di Plinio, e Lucio Silla gli suscita ancora, a centocinquant'anni dalla morte, un indicibile e irriducibile disgusto: “la sua morte non fu forse più crudele della fine di tutti i suoi proscritti se il suo stesso corpo s’incancreniva e generava da sé il suo stesso supplizio? Ma ammettiamo che abbia saputo dissimilare il suo male e prestiamo anche fede al suo ultimo sogno, all'interno del quale si è per così dire addormentato, che cioè lui soltanto sia stato in grado di vincere l’invidia generale grazie alla gloria che ritiene di avere conquistato: ciò che resta è che lui stesso ha dovuto ammettere che alla sua felicità è mancato il non aver potuto dedicare il [nuovo tempio di Giove Ottimo Massimo sul] Campidiglio [quod ut dissimulaverit et supremo somnio eius, cui immortuus quodammodo est, credamus ab uno illo invidiam gloria victam, hoc tamen nempe felicitati suae defuisse confessus est quad capitolium non dedicavisset]. Sicuramente sarebbe diventato un topos, se questa immagine di un tassello mancante fu poi ripresa anche da Tacito nelle sue Storie (vedi libro terzo).

Atteggiamento quasi beffardo (splendida nemesi storica) nei confronti anche di Ottaviano Augusto, del quale dopo aver enumerato le numerosissime disgrazie e miserie dell'esistenza terrena (tra feroci proscrizioni e figlia e nipote adultere, naufragio in Sicilia, caduta dall'alto di una torre nella guerra in Pannonia, numerose rivolte militari, infinite malattie anche gravi tra cui un brutto edema che gli gonfiava disgustosamente il corpo eccetera eccetera, a cui si aggiunse pure la sconfitta finale delle legioni di Varo in Germania) si domanda se quest'uomo non sia stato proclamato "dio" indipendentemente da tutto, e se il cielo, l'apoteosi, più che averlo meritato non gli sia stato semplicemente dato, visto che morendo fu pure costretto, tra le altre disgrazie, a lasciare erede il figlio di un suo nemico [in summa deus ille caelumque nescio adeptus magis an meritus herede hostis filio excessit].