Se si volesse applicare con costanza il criterio della lectio difficilior alle opere di Cicerone (cosa che nessun editore di buon senso si sognerebbe di non fare) allora parecchi degli apparati delle recenti e meno recenti edizioni critiche dovrebbero essere rivisti. Un esempio tra i tanti si trova nelle Lettere a Attico (I.16) - sempre che l'epistolario non sia un falso (la questione non è mai stata nemmeno presa in considerazione dai vari editori negli ultimi cinque secoli. Si rischierebbe, oggi, di veder mandare al macero tonnellate di libri e articoli di storia, oltre che di filologia, anche se in fondo non si eliminerebbe la sostanza: avremmo cioè sempre a che fare con un signor falsario, un antico falsario con le palle, non ignaro di niente).
E' la lettera dell'inizio luglio 61, nella quale - la questione era già stata affrontata in altre due lettere dell'inizio dell'anno (25 gennaio e 13 febbraio - I.13 e 14) - viene raccontata la penosa costituzione della giuria chiamata a giudicare Publio Clodio nel processo per sacrilegio, un processo nel quale Cicerone è chiamato come testimone. Testimonianza, d'altronde, che gli è poca gradita:
neque dixi quicquam pro testimonio nisi quod erat ita "notum" atque testatum ut non possem praeterire.
né ho raccontato nulla che non fosse così "conosciuto" e risaputo da poterlo trascurare.
Tutti gli editori moderni (e anche antichi) accolgono notum (conosciuto), conservato da alcuni codici della famiglia sigma contro la totale concordanza dei codici della famiglia delta, che hanno novum, cioè nuovo, inaudito, mai sentito prima e quindi anche recente, accaduto da poco, fresco (per novum nel senso di recente gli esempi non sono predominanti ma si trovano comunque in Livio, Tacito eccetera).
La difficoltà per l'editore, qui, è nel decidere tra il banale (notum) e l'icastico (novum), per quanto, a seconda che si opti l'uno o per l'altro, il senso non ne viene stravolto. Novum è inoltre appunto lectio difficilior.
Il problema sollevato da Cicerone è ovvio: è quello di qualsiasi processo fondato sull'escussione di un teste in mancanza di documenti - come è nel processo a Clodio, un processo per sacrilegio (crimen incesti), che tocca per di più la sfera non pubblica, non ufficialmente certificabile, della sessualità (se cioè Clodio sia entrato o meno vestito da donna in casa di Cesare per incontrarsi con Pompea durante la celebrazione dei riti della Bona Dea): un processo nel quale Clodio offre un alibi (si trovava a Terni, quel giorno, non a Roma), di fronte a un testimone, Cicerone, che aveva già sbandierato ai sette venti, e a poche ore dal fattaccio, che Clodio quel giorno era invece andato a trovarlo nella sua casa sul Palatino. Era perciò cosa ormai risaputa (testatum) e era un fatto anche novum - recente, ma anche singolare: colpiva per una sua certa "novità" (assurdità): quella discrepanza tra le parole di un ex console e le affermazioni di Clodio, e quindi restava impresso. E' evidente, quindi, che il problema posto agli editori di questo passo delle Lettere riguarda l'attendbilità di una testimonianza man mano che ci si allontani dagli eventi relati.
Vedi su questo, ad esempio, Demostene nel De corona, dove parla di accuse che si riferiscono a fatti non recenti:
νῦν δ' ἐκστὰς τῆς ὀρθῆς καὶ δικαίας ὁδοῦ καὶ φυγὼν τοὺς παρ' αὐτὰ τὰ πράγματ' ἐλέγχους, τοσούτοις ὕστερον χρόνοις αἰτίας καὶ σκώμματα καὶ λοιδορίας συμφορήσας ὑποκρίνεται (15)
ora invece, tenendosi fuori della retta via e avendo evitato le prove vicine ai fatti, costui recita dopo tanti anni un'accozzaglia di imputazioni e beffe e offese
o anche più specificamente:
καὶ μὴν ὅταν ᾖ νέα καὶ γνώριμα πᾶσι τὰ πράγματα, ἐάν τε καλῶς ἔχῃ, χάριτος τυγχάνει, ἐάν θ' ὡς ἑτέρως, τιμωρίας. (85)
e ovviamente, quando i fatti siano recenti e conosciuti a tutti, nel momento in cui vanno bene incontrano il favore, se vanno diversamente vengono puniti.
Insomma per quanto in Demostene siano ricordati entrambi gli aspetti di una testimonianza che abbia il sostegno della memoria (recenti e conosciuti), e per quanto il "conosciuti" di cui parla Demostene (γνώριμα) non sia altro che il notum accolto dagli editori delle Lettere, difficilmente Cicerone, che sicuramente conosceva il De corona parola per parola, se avesse dovuto scegliere, avrebbe scelto il secondo a scapito del primo (quel νέα cosi appetibile che gli dava la possibilità di richiamarlo quanto meno a se stesso - e a Attico), evitato un uso pregno di novum al solo scopo di produrre un appiattimento del testo: notum atque testatum - testatum è d'altronde lì a indicare che ciò che ha raccontato in qualità di testimone era già stato attestato, cioè provato, riconosciuto come vero, e quindi conosciuto, noto. Vedi l'uso di testatum in questo stesso senso in un'altra lettera a Attico:
Epistulam meam quod pervulgatam scribis esse non fero moleste, quin etiam ipse multis dedi describendam; ea enim et acciderunt iam et impendent ut testatum esse velim de pace quid senserim, (VIII, 9).
Varrebbe la pena di ricordare il peso avuto da umanisti del calibro di Manuzio nel determinare alcuni erronei procedimenti della critica testuale a partire già dai primi testi a stampa: la differenza che Manuzio poneva tra novum e recens: ciò che caratterizza il novum è l'assoluta novità, ciò che non ha precedenti. Fatto non sempre vero, si veda ad esempio proprio in Cicerone, nelle Tuscolane:
cur tantum interest inter novum et veterem exercitum, quantum experti sumus?
dove novum non indica altro che la qualità di un esercito: un esercito fatto di giovani in opposizione a uomini già provati, veterani. Il ripetersi di un fatto, la possibilità che possa ripresentarsi in ogni tempo un esercito di giovani, esclude il carattere di assoluta novità, di inaudito, e il senso è invece prossimo a quello che si ha per esempio in agricoltura, in culinaria, vedi anche l'italiano fresco (pesce fresco, appena pescato) - vinum novum (Varrone), novuum et venire qui videt culum olfacit (Fedro - i cani che annusano il culo a ogni nuovo cane che arriva, sperando che sia uno dei loro ambasciatori inviati a Giove, ai quali avevano, in segno di ripetto per la divinità, improfumato il culo).
Lo stesso discorso andrebbe fatto e ripetuto, nonostante la concordanza dei manoscritti (che però risalgono tutti a uno stesso codice), per un passo delle Verrine:
Postremo ego causam sic agam, iudices, eius modi res, "ita notas, ita testatas", ita magnas, ita manifestas proferam, ut nemo a vobis ut istum absolvatis per gratiam conetur contendere (actio 1, 48)
dove l'amplificazione costruita su due coppie di termini paralleli richiede la sostituzione di notas con novas. Non così conosciute, così risapute ma così singolari e così risapute.
La lectio difficilior (novas) è conservata in un'edizione delle opere di Cicerone del 1776, a cura e con una sua traduzione in castigliano, di Manuel Antonio Merino, che si firmava Andrés Merino de Jesucristo, erudito scolopio e conoscitore di lingue orientali. Il quale tuttavia non dice, nella breve introduzione, dove abbia preso il testo latino.
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mercoledì 4 maggio 2016
sabato 19 marzo 2016
Le eiaculazioni dei castrati del pensiero
Sarebbe difficile dare un senso alle oscene eiaculazioni sinaptiche di tanti esperti e "conoscitori" del mondo antico se non ci si vedesse quella tipica tendenza all'idiozia da cui è affetto da sempre il mondo accademico. L'entusiasmo senza riserve per questo o quest'altro autore a cui si attribusice "profondità" di pensiero è una manifestazione di una idiosincrasia al contrario, di una immoderata simpatia, non potrà mai contare su ragioni obbiettive, non è altro che conseguenza di infatuazioni pseudoideologiche. Leggere e rileggere autori greci e latini va bene finché non ci si dimentica che erano epoche (e autori) che fondavano il loro benessere su un feroce sfruttamento della manodopera schiavistica. Platone o Aristotele, Demostene o Cicerone, Catullo, Cesare, Lisia o Isocrate, Antifonte, Erodoto, Senofonte, Sallustio, Tucidite o Tacito, Pindaro, Alceo, Anacreonte e chi più ne ha ne metta non provavno nessunissima vergogna a utilizzare la parola schiavo, a maneggiare, accettando lo stato di cose, la nozione di non libero. Non se ne salva nessuno. Il Cattolicesimo trae forza unica da Platone e Aristoetle (a entrambi nella storia del pensiero, pone fine soltanto Cartesio), ancora nei Dialoghi e nelle Lettere di Gregorio Magno, che scrive in veste di pontefice, si potrebbero citare decine di riferimenti al patrimonio della Chiesa, al "va bene così", alla sua accettazione di una struttura agraria che si regge sullo stesso tipo di sfruttamento che li aveva preceduti nel mondo pagano. L'ipocrita Agostino non la passa liscia quando in una lettera a Alipio di Tagaste (appartiene all'ultimo periodo) pare soltanto scagliarsi contro i mangones (mercanti di schiavi), in realtà riproponendo da cima a fondo il sistema libero/schiavo:
Nam vix pauci reperiuntur a parentibus venditi quos tamen non ut leges Romanae sinunt ad operas viginti quinque annorum emunt isti, sed .... (CSEL, 10)
Se ne trovano pochissimi che siano stati venduti (legalmente) dai genitori e che (i mangones) comprano per farli lavorare non venticinque anni, come richiedono le leggi romane ma ...
Basterebbe questo "scambio privato" tra un futuro santo e un vescovo a far apparire la malafede pure in tutte le altre cose che ha scritto (altro che Confessioni), non ci sarebbe nemmeno bisogno di leggere se l'idea è di farne apologia.
Ciò che rese grande la Grecia e grande Roma,e poi il Cattolicesimo, non fu altro che lo stesso meccanismo (più evidente perché più vicino) che ha reso grande la scorreggiante America bianca o che rese ricco lo scorreggiante Sudafrica bianco all'epoca dell'Apartheid. Non c'è semplicemente nessuna ragione "umanistica", di superiorità dell'uomo sulla bestia, nessuna ragione di andare fieri del pensiero antico, di visitare Atene e commuoversi sull'Acropoli perché è lì che si sentono le origini del pensiero occidentale, o andare a Delfi a respirare il soffio magnetico di Apollo, o sedersi su un pezzo di tufo al Foro a Roma e piangere di commozione dentro una confezione di kleenex, così come non c'è nessuna ragione di andare fieri del "pensiero" moderno o contemporaneo, che fonda la sua libertà parolaia sui milioni di morti sul lavoro che si registrano ogni anno in tutto il mondo (circa due milioni, comprese le morti per malattie professionali). Parlare dei quali oltre un certo limite non attirerebbe audience.
L'unico grande evento memorabile nell'antichità fu la rivolta di Spartaco, un gruppo di schiavi che anelarono alla libertà. A parte questo, non successe niente.
Nam vix pauci reperiuntur a parentibus venditi quos tamen non ut leges Romanae sinunt ad operas viginti quinque annorum emunt isti, sed .... (CSEL, 10)
Se ne trovano pochissimi che siano stati venduti (legalmente) dai genitori e che (i mangones) comprano per farli lavorare non venticinque anni, come richiedono le leggi romane ma ...
Basterebbe questo "scambio privato" tra un futuro santo e un vescovo a far apparire la malafede pure in tutte le altre cose che ha scritto (altro che Confessioni), non ci sarebbe nemmeno bisogno di leggere se l'idea è di farne apologia.
Ciò che rese grande la Grecia e grande Roma,e poi il Cattolicesimo, non fu altro che lo stesso meccanismo (più evidente perché più vicino) che ha reso grande la scorreggiante America bianca o che rese ricco lo scorreggiante Sudafrica bianco all'epoca dell'Apartheid. Non c'è semplicemente nessuna ragione "umanistica", di superiorità dell'uomo sulla bestia, nessuna ragione di andare fieri del pensiero antico, di visitare Atene e commuoversi sull'Acropoli perché è lì che si sentono le origini del pensiero occidentale, o andare a Delfi a respirare il soffio magnetico di Apollo, o sedersi su un pezzo di tufo al Foro a Roma e piangere di commozione dentro una confezione di kleenex, così come non c'è nessuna ragione di andare fieri del "pensiero" moderno o contemporaneo, che fonda la sua libertà parolaia sui milioni di morti sul lavoro che si registrano ogni anno in tutto il mondo (circa due milioni, comprese le morti per malattie professionali). Parlare dei quali oltre un certo limite non attirerebbe audience.
L'unico grande evento memorabile nell'antichità fu la rivolta di Spartaco, un gruppo di schiavi che anelarono alla libertà. A parte questo, non successe niente.
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venerdì 5 febbraio 2016
Polibio e gli universi paralleli
E' possibile che internet rappresenti uno dei migliori e più perfezionati modelli della teoria degli universi paralleli. Esiste tutta un'immane farragine di notizie, attribuzioni, interpretazioni fantasiose che riescono a scatenare - non si sa come - sentimenti passioni interventi apparentemente motivati. Ad esempio l'attribuzione a Polibio di un riferimento a una fantomatica norma della legge Scantinia - una legge di cui in realtà non si sa quasi niente, tanto che sarebbe più giusto chiamarla Lex Scantina de phantasmatibus: qualsiasi soldato che si fosse fatto beccare a intrattenere rapporti omosessuali con un altro soldato, soprattutto a farselo mettere nel didietro, nel caso quindi in cui avesse accettato un ruolo passivo, di femmina, avrebbe infranto gli obblighi di una disciplinare e sarebbe incorso nella pena della fustigazione. E mi viene da pensare che il tutto sia scaturito da una banale frase contenuta nel libro sesto delle Storie:
κἄν τις τῶν ἐν ἀκμῇ παραχρησάμενος εὑρεθῇ τῷ σώματι (6, 37, 9)
che in realtà non fornisce altro che un'indicazione di norme disciplinari, feroci ma tipiche di ogni esercito che si rispetti:
"e questo anche quando uno di coloro che sono nel pieno del vigore" (cioè uno qualsiasi dei più giovani, come venivanmo indicati, in opposizione ai veterani, e dai quali ci si aspettava ovviamente maggior capacità di impatto in uno scontro) "venga scoperto a abusare del suo corpo."
Dove poi è scritto che abusare del proprio corpo (παραχρησάμενος τῷ σώματι) significa concedersi sessualmente, o anche, come raccontano altri, "farsi le seghe", cioè masturbarsi, lo sapranno soltanto quelli che hanno messo in giro questa leggenda di Polibio e della Lex Scantinia - che un soldato possa benissimo "non usare correttamente" (abusare) il suo corpo trascurando gli esercizi fisici, facendo abuso di alcol eccetera, in altri termini quando non lo curi e conservi forte e sano, è un fatto talmente ovvio che non ci sarebbe neanche bisogno di ricordarlo. Un esercito senza donne doveva per forza in qualche modo arrangiarsi, erano campagne infinite.
A fondamento dell'erronea interpretazione del passo di Polibio resta comunque una supposta identificazione di virilità e eterosessualità. Che è quanto di più lontano dal concreto parlando di quei tempi. Non è forse neanche il caso di riandare a uno dei più grandi condottieri della Storia, nato una ventina d'anni dopo la morte di Polibio, Gaio Giulio Cesare, detto uomo di tutte le donne e donna di tutti gli uomini, o ai suoi soldati, che lo adoravano e che nei trionfi lo acclamavano pressentandolo in "veste di donna" e chiamandolo loro grande generale e regina di Bitinia, per il fatto che s'era fatto sodomizzare da giovane da Nicomede IV - Cesare divertendosi e sorridendo. Come dice un mio amico, cesariano perso: "sai che gliene fregava a Cesare se gli altri sapevano che gli piaceva farsi sp. il culo".
Παραχρησάμενος, d'altronde, non ha mai negli autori di quel periodo - ma nemmeno prima - quest'uso, per così dire, pedantemente cattolico - universale, integralista - dell'andare contro natura, e soprattutto Polibio non l'avrebbe espresso in maniera tanto prude. Bisognerà aspettare i noiosi Padri, alleati o epigoni dei neoplatonici, per trovare qualcosa che ci si avvicina. Per trovarci l'idea del sommo peccato.
κἄν τις τῶν ἐν ἀκμῇ παραχρησάμενος εὑρεθῇ τῷ σώματι (6, 37, 9)
che in realtà non fornisce altro che un'indicazione di norme disciplinari, feroci ma tipiche di ogni esercito che si rispetti:
"e questo anche quando uno di coloro che sono nel pieno del vigore" (cioè uno qualsiasi dei più giovani, come venivanmo indicati, in opposizione ai veterani, e dai quali ci si aspettava ovviamente maggior capacità di impatto in uno scontro) "venga scoperto a abusare del suo corpo."
Dove poi è scritto che abusare del proprio corpo (παραχρησάμενος τῷ σώματι) significa concedersi sessualmente, o anche, come raccontano altri, "farsi le seghe", cioè masturbarsi, lo sapranno soltanto quelli che hanno messo in giro questa leggenda di Polibio e della Lex Scantinia - che un soldato possa benissimo "non usare correttamente" (abusare) il suo corpo trascurando gli esercizi fisici, facendo abuso di alcol eccetera, in altri termini quando non lo curi e conservi forte e sano, è un fatto talmente ovvio che non ci sarebbe neanche bisogno di ricordarlo. Un esercito senza donne doveva per forza in qualche modo arrangiarsi, erano campagne infinite.
A fondamento dell'erronea interpretazione del passo di Polibio resta comunque una supposta identificazione di virilità e eterosessualità. Che è quanto di più lontano dal concreto parlando di quei tempi. Non è forse neanche il caso di riandare a uno dei più grandi condottieri della Storia, nato una ventina d'anni dopo la morte di Polibio, Gaio Giulio Cesare, detto uomo di tutte le donne e donna di tutti gli uomini, o ai suoi soldati, che lo adoravano e che nei trionfi lo acclamavano pressentandolo in "veste di donna" e chiamandolo loro grande generale e regina di Bitinia, per il fatto che s'era fatto sodomizzare da giovane da Nicomede IV - Cesare divertendosi e sorridendo. Come dice un mio amico, cesariano perso: "sai che gliene fregava a Cesare se gli altri sapevano che gli piaceva farsi sp. il culo".
Παραχρησάμενος, d'altronde, non ha mai negli autori di quel periodo - ma nemmeno prima - quest'uso, per così dire, pedantemente cattolico - universale, integralista - dell'andare contro natura, e soprattutto Polibio non l'avrebbe espresso in maniera tanto prude. Bisognerà aspettare i noiosi Padri, alleati o epigoni dei neoplatonici, per trovare qualcosa che ci si avvicina. Per trovarci l'idea del sommo peccato.
domenica 26 ottobre 2014
Portare acqua al mulino nero e al mulino arcobaleno
È difficile trovare un prete
cattolico o luterano o anabattista o anglicano che non porti sempre e comunque acqua al mulino
della rispettiva curia (ma è il loro mestiere), che non faccia giustamente politica pure durante un evento festoso, durante la celebrazione
di un matrimonio, quando tutti non aspettano che la fine del comizio per correre al ristorante a ingozzarsi come oche pronte per il foie gras (“siete qui a celebrare il matrimonio che è tra maschio e femmina”,
“Dio ha creato il maschio e la femmina” eccetera, non semplicemente tra uomo e donna, come in tempi più recenti con buona pace per tutti ci si era ormai abituati, ma come si diceva una volta, tra maschio e femmina, con la maggiore concretezza della Genesi: a far intendere anche ai sordi - o allo sposo nel caso covasse male intenzioni, e gli venisse in mente, ancor prima di essere sposato, di far indossare alla moglie un pene artificiale, uno strap-on - che l'incontro, in questo senso, deve essere non tra la carota e il bastone ma tra la carota e la cesta); e fa giustamente politica, il prete, perché
i vangeli (ma stranamente in quello più teologico di Giovanni la cosa non compare) lo invitano da
sempre a restituire a Cesare quel che è di Cesare. Facciamo un ultimo tentativo, via!, sembra dire il prete, poi restituisco a Cesare quel che è di Cesare.
In realtà, modificare anche di poco il linguaggio, cosa sempre auspicabile quando cambia il modo di sentire del mondo, quando cambia l'estetica, non farebbe torto a nessuno: né alla religione (che ha sempre e solo mirato a fare proseliti), né all'industria erotica (che ha interesse a favorire perversioni), e neppure al combattivo, agguerrito mulino gay (che vuole le sue parità): ma anche qui, adeguarsi ai nuovi tempi tornando a quei tempi in cui il linguaggio era più che oggi vicino al vero (non è questa l'epoca della verità, della scienza?): Cesare – ormai dovrebbe essere noto – s’infilava da ragazzo nel letto del re Nicomede, e nel ruolo di femmina, tanto da meritarsi l’appellativo (che lo divertiva un mondo anche quando era imperator maximus) di regina di Bitina. Dunque perché chi scrisse i vangeli decise effettivamente di non proclamarlo? non rese immediatamente giustizia, non ordinò di restituire a Cesare oltre a tutto anche tutto il resto, tutto il maltolto e anche quindi la famosa cesta di cui andava fiero? perché nessuno ha mai predicato in tutta onestà e verità: restituite a Cesare quel che è di Cesarina?
In realtà, modificare anche di poco il linguaggio, cosa sempre auspicabile quando cambia il modo di sentire del mondo, quando cambia l'estetica, non farebbe torto a nessuno: né alla religione (che ha sempre e solo mirato a fare proseliti), né all'industria erotica (che ha interesse a favorire perversioni), e neppure al combattivo, agguerrito mulino gay (che vuole le sue parità): ma anche qui, adeguarsi ai nuovi tempi tornando a quei tempi in cui il linguaggio era più che oggi vicino al vero (non è questa l'epoca della verità, della scienza?): Cesare – ormai dovrebbe essere noto – s’infilava da ragazzo nel letto del re Nicomede, e nel ruolo di femmina, tanto da meritarsi l’appellativo (che lo divertiva un mondo anche quando era imperator maximus) di regina di Bitina. Dunque perché chi scrisse i vangeli decise effettivamente di non proclamarlo? non rese immediatamente giustizia, non ordinò di restituire a Cesare oltre a tutto anche tutto il resto, tutto il maltolto e anche quindi la famosa cesta di cui andava fiero? perché nessuno ha mai predicato in tutta onestà e verità: restituite a Cesare quel che è di Cesarina?
Per dirla dunque alla greca, nel linguaggio dei vangeli, non
Ἀπόδοτε οὖν τὰ Καίσαρος Καίσαρι καὶ τὰ τοῦ Θεοῦ τῷ Θεῷ
ma
Ἀπόδοτε οὖν τὰ Καίσαρος Καισαρίνᾳ eccetera.
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sabato 11 ottobre 2014
Quel traditore di Ottaviano Augusto e gli scrittori di regime
Se l'orgoglioso Dante non si fosse fatto guidare dalla sua ideologia fondamentalista e teocratica (che una critica ridicola chiama "dottrina storica") e al posto di Cassio e Bruto avesse meso nelle fauci di Lucifero Ottaviano Augusto e Marco Antonio avrebbe fatto migliore e più giusta scelta, perché se ci furono traditori negli anni in cui cadeva la Repubblica (strumento, a sua volta, di latifondisti dallo stomaco senza fondo) proprio questi due furono i sommi, insieme ovviamente a Giulio Cesare - in epoca, oggi, in cui ognuno si riempie la bocca (e a vanvera) del termine democrazia (in termini moderni aveva iniziato Toqueville, con la sua convinzione di una, verrebbero accusati tutti e tre di attentato alla Costituzione e alto tradimento e se acciuffati prima di un capovolgimento delle sorti verrebbero in alcuni paesi perfino impiccati o fucilati. Così, il comune di Roma farebbe bene a cambiare il nome a piazza Augusto Imperatore e operare finalmente, su questa figura di bigotto ipocrita oltre che di feroce assassino, quella damnatio memoriae eterna che da due millenni le vittime dell'arbitrio si attendono; e la stessa cosa dovrebbe fare qualsiasi altra città nella cui toponomastica ricorre il nome di questo grissino erede di Cesare, il quale deve il potere unicamente a un attimo di stupidità di un Cicerone ormai provato e vecchio. Va da sé che insieme a lui cadrebbero anche Virgilio e Orazio, visto che la loro opera, la conoscenza della loro opera, è dipesa unicamente dal megafono di regime di questo traditore della sua patria.
Fece perciò bene questo sommo traditore a dire al nipote che di nascosto leggeva Cicerone - se l'aneddoto narrato da Plutarco è vero - che non c'era da vergognarsi, perché "era un uomo intelligente e amante della patria". Tanto amante della patria che lo fece ammazzare senza pietà e permise che i sicari di Marco Antonio, il suo degno e avvinazzato compare, gli mozzassero la testa e le mani, che facessero scempio di quel povero vecchio corpo. Tutte le altre fandonie, riportate anche da Plutarco, che Ottaviano avesse tentato per tre giorni (contrastando Marco Antonio) di salvargli la vita è tutta robaccia retorica che non è nemmeno degna di essere presa in considerazione da una qualsiasi storiografia che si rispetti.
E peccato ancora che Dante non abbia potuto citare proprio il Plutarco della Vita di Cicerone, la pagina finale in cui si commenta il modo disgustoso in cui Ottaviano, Marco Antonio e quel terzo pupazzo di Lepido si spartirono il potere con quelle loro private liste di proscrizione (l'edizione di Plutarco di Massimo Planude era proprio degli anni in cui veniva scritta la la Divina Commedia, e comuqnue Dante non conosceva il greco) e se l'avesse letta, fosse anche in latino, avrebbe comunque strappato quella pagina che non sarebbe tornata comoda alla sua delirante ideologia delle due massime potestà preordinate da Dio e di cui Cesare sarebbe stato l'incarnazione di quella imperiale:
Così per la rabbbia e il furore caddero fuori dalla ragione umana, e piuttosto dimostrarono come non vi sia belva più selvaggia dell'uomo quando alla passione aggiunge il potere.
(οὕτως ἐξέπεσον ὑπὸ θυμοῦ καὶ λύσσης τῶν ἀνθρωπίνων λογισμῶν, μᾶλλον δ' ἀπέδειξαν ὡς οὐδὲν ἀνθρώπου θηρίον ἐστὶν ἀγριώτερον ἐξουσίαν πάθει προσλαβόντος. Plu., Cic., 46,6)
Fece perciò bene questo sommo traditore a dire al nipote che di nascosto leggeva Cicerone - se l'aneddoto narrato da Plutarco è vero - che non c'era da vergognarsi, perché "era un uomo intelligente e amante della patria". Tanto amante della patria che lo fece ammazzare senza pietà e permise che i sicari di Marco Antonio, il suo degno e avvinazzato compare, gli mozzassero la testa e le mani, che facessero scempio di quel povero vecchio corpo. Tutte le altre fandonie, riportate anche da Plutarco, che Ottaviano avesse tentato per tre giorni (contrastando Marco Antonio) di salvargli la vita è tutta robaccia retorica che non è nemmeno degna di essere presa in considerazione da una qualsiasi storiografia che si rispetti.
E peccato ancora che Dante non abbia potuto citare proprio il Plutarco della Vita di Cicerone, la pagina finale in cui si commenta il modo disgustoso in cui Ottaviano, Marco Antonio e quel terzo pupazzo di Lepido si spartirono il potere con quelle loro private liste di proscrizione (l'edizione di Plutarco di Massimo Planude era proprio degli anni in cui veniva scritta la la Divina Commedia, e comuqnue Dante non conosceva il greco) e se l'avesse letta, fosse anche in latino, avrebbe comunque strappato quella pagina che non sarebbe tornata comoda alla sua delirante ideologia delle due massime potestà preordinate da Dio e di cui Cesare sarebbe stato l'incarnazione di quella imperiale:
Così per la rabbbia e il furore caddero fuori dalla ragione umana, e piuttosto dimostrarono come non vi sia belva più selvaggia dell'uomo quando alla passione aggiunge il potere.
(οὕτως ἐξέπεσον ὑπὸ θυμοῦ καὶ λύσσης τῶν ἀνθρωπίνων λογισμῶν, μᾶλλον δ' ἀπέδειξαν ὡς οὐδὲν ἀνθρώπου θηρίον ἐστὶν ἀγριώτερον ἐξουσίαν πάθει προσλαβόντος. Plu., Cic., 46,6)
martedì 23 settembre 2014
l'elefante e la morte
Una prova dell'evoluzionismo è nella nozione di persistenza. Che l'uomo discenda dall'elefante, o che sia stato in un lontano passato un elefante, è provato dal fatto che come l'elefante sentendo la morte appressarsi va a nascondersi, anche l'uomo quando sta per morire vieni rinchiuso in un hospice, con buona grazia delle multinazionali dei farmaci palliativi.
Persistenza cioè del pudore più che del dolore. Così per esempio Demostene, subito dopo aver preso il veleno:
ed abbassò la testa dopo essersela coperta
(συγκαλυψάμενος ἀπέκλινε τὴν κεφαλήν - Plut., Dem. xxix, 4).
Lo stesso nel caso di Cesare:
si tirò la veste sulla testa e si accasciò
Persistenza cioè del pudore più che del dolore. Così per esempio Demostene, subito dopo aver preso il veleno:
ed abbassò la testa dopo essersela coperta
(συγκαλυψάμενος ἀπέκλινε τὴν κεφαλήν - Plut., Dem. xxix, 4).
Lo stesso nel caso di Cesare:
si tirò la veste sulla testa e si accasciò
ἐφειλκύσατο κατὰ τῆς κεφαλῆς τὸ ἱμάτιον καὶ παρῆκεν ἑαυτόν (Plut., Caes. lxi, 12).
In fondo non è altro che il sipario che viene finalmente tirato al termine di tutto perfino da quel bigotto di Ottaviano Augusto:
acta est fabula, plaudite! la commedia è finita, applaudite!
giovedì 3 luglio 2014
L’uomo sempre arcaico. Nota su Wittgenstein etico II
“Wenn von der Majestät
des Todes ergriffen ist, kann dies durch so ein Leben zum Ausdruck bringen. –
Dies ist natürlich auch keine Erklärung, sondern setzt nur ein Symbol für ein
anderes. Oder: eine Zeremonie für eine andere.”
(Chi è afferrato dalla
maestà della morte può portare a espressione "questo" [la maestà della morte] attraverso una vita simile.
– Q u e s t o naturalmente non è una s p
i e g a z i o n e ma pone soltanto un
simbolo al posto di un altro. Oppure: una cerimonia al posto di un’altra).
Questa osservazione di Wittgenstein, nelle Note al Ramo d’oro di Frazer, dove si riferisce a un modello di vita che fai conti tutti i giorni con la sacralità della morte, potrebbe essere considerata una
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mercoledì 21 maggio 2014
l'effimero sesso degli insetti
Domandavo anni fa a un amico a cui piacciono molto gli uomini: “Ma
tu sapresti dire, guardandolo semplicemente per la strada, se uno ce l’ha grosso o piccolo?” “Certo”, fa lui. “E come?”, dico. “Basta vedere
venerdì 16 maggio 2014
Archiloco e il sesso sfrenato degli antichi. "Insospettato" multiculturalismo
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sigillo cilindrico achemenide VI s. - Louvre |
In un passo del profeta Ezechiele (23.20) si dice che Ooliba (dietro la quale si celerebbe Gerusalemme) aveva per amanti quegli uomini “la cui carne è quella
degli asini e la cui alluvione è quella dei cavalli”.
L'ebraico ha:
אֲשֶׁ֤ר בְּשַׂר־חֲמוֹרִים֙ בְּשָׂרָ֔ם וְזִרְמַ֥ת סוּסִ֖ים
זִרְמָתָֽ
(Asher bessar
chmurim bessaram we zirmath susim zirmatham)
un passo che nella traduzione della CEI
del 1974 e in quella del 2008 viene reso con:
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domenica 16 febbraio 2014
Le ingorde fauci del mare
Crinagora. Poeta greco di Mitilene che alla morte di Cesare,
nel 44, aveva meno di trent’anni. Non un grande poeta, ma in alcuni versi
appare sensibile al mondo dei
sabato 21 settembre 2013
voce antica più che contemporanea
Voce più che contemporanea quella di Plinio il Vecchio se nel VII
libro della sua Storia naturale, pur non nascondendo una discreta, sincera ammirazione per Gaio Cesare (la sua celebrata clemenza e, in particolare, ammirazione di ciò che viene detto un eccezionale vigore d’animo e che non sarebbe oggi altro che un misto di forza di carattere e potenza intellettuale [animi vigore prestantissimum arbitror
genitum Caesarem dictatorem] e ammirazione del suo incomparabile insuperabile elevato sentire, che l'avrebbe indotto dopo la battaglia di Farsalo, quando si trovò tra le mani il cofanetto con le lettere di Pompeo, e in un esempio di superiore
elevatezza morale, a bruciarle senza leggerle [concremasse
ea optima fide atque non legisse], lo stesso che avrebbe fatto con le lettere di
Scipione a Tapso) finisce poi per accusarlo ugualmente e senza mezzi termini di crimini contro l’umanità [tantam
etiam coactam humani generis iniuriam] per il milione e centonovantaduemila uomini che fece perire con le sue cinquantadue battaglie escluso però
il numero dei morti delle guerre civili (la questione non cambia se si seguono
altre cifre di altri scrittori dell’antichità: i quattrocentomila morti di
cui parla Velleio Patercolo o il milione che riporta Plutarco). Cifre quindi abominevoli non solo per la coscienza odierna.
Non meno tagliente il giudizio di questo scrittore - anzi più che giudizio tagliente, il suo sarcasmo feroce - quando sempre in questo settimo libro della Naturalis Historia accenna ancora, in una sorta di benemerita coazione a ripetere, a un altro dittatore, a Lucio Silla. “Si è senz’altro”, dice Plinio, “attribuito il
soprannome Felice a causa del sangue dei tanti concittadini che ha versato e per aver posto sotto assedio la sua stessa
patria. E quali sarebbero", si domanda Plinio, "questi argomenti di felicità? Avere trucidato e
proscritto così tante migliaia di uomini?” [Felicis
sibi cognomen adseruit L. Sulla, civile nempe sanguine ac patriae oppugnazione adoptatum.
Sed quibus felicitatis inductus argumentis? Quos proscrivere tot milia civium
ac trugidare potuisset?]. Ma è un pauroso crescendo, quello di Plinio, e Lucio
Silla gli suscita ancora, a centocinquant'anni dalla morte, un indicibile e irriducibile disgusto:
“la sua morte non fu forse più crudele della fine di tutti i suoi
proscritti se il suo stesso corpo s’incancreniva e generava da sé il suo stesso
supplizio? Ma ammettiamo che abbia saputo dissimilare il suo male e prestiamo anche
fede al suo ultimo sogno, all'interno del quale si è per così dire addormentato, che cioè lui
soltanto sia stato in grado di vincere l’invidia generale grazie alla gloria che ritiene di avere conquistato: ciò che resta è che lui stesso ha dovuto ammettere che alla sua felicità è mancato
il non aver potuto dedicare il [nuovo tempio di Giove Ottimo Massimo sul]
Campidiglio [quod ut dissimulaverit et
supremo somnio eius, cui immortuus quodammodo est, credamus ab uno illo
invidiam gloria victam, hoc tamen nempe felicitati suae defuisse confessus est
quad capitolium non dedicavisset]. Sicuramente sarebbe diventato un topos, se questa immagine di un tassello mancante fu poi ripresa anche da Tacito nelle sue Storie (vedi libro terzo).
Atteggiamento quasi beffardo (splendida nemesi storica) nei confronti anche di Ottaviano Augusto, del quale dopo aver enumerato le numerosissime disgrazie e miserie dell'esistenza terrena (tra feroci proscrizioni e figlia e nipote adultere, naufragio in Sicilia, caduta dall'alto di una torre nella guerra in Pannonia, numerose rivolte militari, infinite malattie anche gravi tra cui un brutto edema che gli gonfiava disgustosamente il corpo eccetera eccetera, a cui si aggiunse pure la sconfitta finale delle legioni di Varo in Germania) si domanda se quest'uomo non sia stato proclamato "dio" indipendentemente da tutto, e se il cielo, l'apoteosi, più che averlo meritato non gli sia stato semplicemente dato, visto che morendo fu pure costretto, tra le altre disgrazie, a lasciare erede il figlio di un suo nemico [in summa deus ille caelumque nescio adeptus magis an meritus herede hostis filio excessit].
Atteggiamento quasi beffardo (splendida nemesi storica) nei confronti anche di Ottaviano Augusto, del quale dopo aver enumerato le numerosissime disgrazie e miserie dell'esistenza terrena (tra feroci proscrizioni e figlia e nipote adultere, naufragio in Sicilia, caduta dall'alto di una torre nella guerra in Pannonia, numerose rivolte militari, infinite malattie anche gravi tra cui un brutto edema che gli gonfiava disgustosamente il corpo eccetera eccetera, a cui si aggiunse pure la sconfitta finale delle legioni di Varo in Germania) si domanda se quest'uomo non sia stato proclamato "dio" indipendentemente da tutto, e se il cielo, l'apoteosi, più che averlo meritato non gli sia stato semplicemente dato, visto che morendo fu pure costretto, tra le altre disgrazie, a lasciare erede il figlio di un suo nemico [in summa deus ille caelumque nescio adeptus magis an meritus herede hostis filio excessit].
martedì 6 agosto 2013
Indovina chi viene a cena
Let me have men about me that are fat,
Sleek-headed
men and such as sleep a-nights.
Yond
Cassius has a lean and hungry look.
He
thinks too much. Such men are dangerous.
Sono forse le più famose parole pronunciate
da Cesare nell’omonimo dramma di Shakespeare, per il quale dipende da Plutarco. Le ho sentite così tante volte a Londra a teatro pronunciate da questo o da quest'altro attore che mi sono dimenticato le singole messe in scena, stracariche di messe in piega. Un certo John Ripley, che fu professore di letteratura inglese alla Mc Gil University a Montreal, scrisse perfino un libro quando io ero ancora piccolo sulla storia degli allestimenti di questo dramma - Julius Caesar on stage in England and America, 1593-1973. Ma per tornare a bomba, e ai versi citati, si potrebbe dire che se Shakespeare avesse scritto il Giulio Cesare un po’ prima delle Idi di marzo e
non mille e cinquecento anni dopo, la storia gli avrebbe dato ugualmente ragione.
Bruto, Casca i congiurati, erano tutti uomini sottili (per usare un termine caro a Raymond Chandler): d'una magrezza essenziale, o che comunque dormivano poco –
in particolare Bruto, che conobbe soltanto da sveglio il fantasma che l’ossessionò fino a Filippi - e che sicuramente dovevano pensare e riflettere molto, visto che ammazzare (si fa per dire) un gigante della Storia non era cosa da torpori mentali: richiedeva una non comune elasticità fisica, una certa capacità di tenere in mano un pugnale, saltare da un punto all’altro dell'aula del Senato per evitare la reazione di Cesare,
che pare si difendesse fin dai primissimi fendenti con una furia che ci può soltanto immaginare.
Il contrario di questi congiurati delle Idi di marzo (per restare sulla questione dei pensatori grassi o magri) è un certo giornalista italiano, che in passato si vantò di essere stato al soldo della Cia e che in seguito, in un tribunale francese, si rimangiò tutto: spiegò che s'era trattato di una bufala all'italiana, che se l’era inventato. Lasciamo perdere il fatto che un giornalista e osservatore politico ammetta penosamente di essersi divertito a mentire e che scambi moralità pubblica coi suoi vizi privati, e dica ogni volta, quando è messo alle strette, faccio come mi pare (e lo può fare soltanto perché da tipico figlietto di papà mai veramente cresciuto non si è mai neppure affrancato, idealmente, dal tetto paterno). Lessi una volta un suo strambo e immemorabile articolo in cui più o meno lasciava trapelare un certo desiderio di passare alla Storia - in realtà condivideva questa assurda e ridicola speranza (nessuno gli ha ancora spiegato che non si passa più alla storia) con un altro giornalista italiano, da lui stesso nominato nel medesimo articolo: Paolo Mieli. Il problema (anche ammettendo che alla Storia ci si passi ancora) è come ci passi tu in particolare? Che fai? Chi ti ci mette? chi ti consegna con un suo scritto alla Storia?
Il contrario di questi congiurati delle Idi di marzo (per restare sulla questione dei pensatori grassi o magri) è un certo giornalista italiano, che in passato si vantò di essere stato al soldo della Cia e che in seguito, in un tribunale francese, si rimangiò tutto: spiegò che s'era trattato di una bufala all'italiana, che se l’era inventato. Lasciamo perdere il fatto che un giornalista e osservatore politico ammetta penosamente di essersi divertito a mentire e che scambi moralità pubblica coi suoi vizi privati, e dica ogni volta, quando è messo alle strette, faccio come mi pare (e lo può fare soltanto perché da tipico figlietto di papà mai veramente cresciuto non si è mai neppure affrancato, idealmente, dal tetto paterno). Lessi una volta un suo strambo e immemorabile articolo in cui più o meno lasciava trapelare un certo desiderio di passare alla Storia - in realtà condivideva questa assurda e ridicola speranza (nessuno gli ha ancora spiegato che non si passa più alla storia) con un altro giornalista italiano, da lui stesso nominato nel medesimo articolo: Paolo Mieli. Il problema (anche ammettendo che alla Storia ci si passi ancora) è come ci passi tu in particolare? Che fai? Chi ti ci mette? chi ti consegna con un suo scritto alla Storia?
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Veronese, Le Nozze di Cana (il miracolo) |
Disse candidamente il rigoroso Contini nel corso di una lunga intervista a Ludovica Ripa di Meana, e rispondendo indirettamente alle
accuse di alcuni suoi amici scrittori – non li aveva inseriti nella
sua Letteratura Italiana tra gli autori che secondo lui sarebbero rimasti - disse Contini:
"io proprio non immaginavo che avessero così tanta fiducia nella qualità della loro scrittura".
Questo giornalista in realtà una qualche chance di passare alla Storia l’avrebbe (sempre nell'ipotesi che ci si passi),
indipendentemente dal fatto che da ex sessantottino (per differenza di età non posso dire di averli visti col megafono in mano) si ritrovi oggi penosamente a più di sessant’anni sul versante opposto a fare il paladino dei teocon, o del suo amato Cesarino della Brianza (in greco questo giornalista sarebbe l'erastìs, l'amante, l'altro sarebbe l'eròmenos, l'amato) –
e detto en passant, trovo alquanto disgustoso l’innamoramento a una certa età. Capitò anche a Goethe, che a settant’anni si innamorò senza speranza di una ragazzina tedesca,
una diciassettenne o diciottenne, un amore impossibile, quasi anticipato tanti anni prima in uno
dei suoi libri peggiori: I dolori del
giovane Werther, il cui inizio ricordo stranamente ancora a memoria, e proprio in
tedesco: "Was ich von der Geschichte des armen Werther nur habe auffinden konnen ...": ciò che ho potuto
trovare della storia del povero Werther l’ho raccolto con cura e ve lo
propongo. Me lo recitavo a vent'anni lungo l'Isar a Monaco. Ma se il Werther fosse anticipazione di quell'amore impossibile che Goethe proverà in vecchiaia (e non mi meraviglierei, considerata la natura profetica di ogni artista) significherebbe allora che almeno lui, il grande Goiethe, s'era scelto un più accettabile alter
ego (che tra l’altro si sparerà un colpo di pistola alla fine): un ragazzo che
raccolga più di quarant'anni prima le sue pene di patetico settantenne innamorato d’una ragazzina – e per
come sono viste oggi le cose, l’autore delle Affinità elettive sarebbe considerato quasi un pedofilo, con la sua Elegia di Marienbad.
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Goethe |
Insomma l’amore
a una certa età è meglio lasciarlo ai ventenni: che si tratti di amore dei sensi o politico, mentre sarà in qualche modo più giusto, se proprio uno ci crede, inventarsi
un modo più sicuro di passare ai posteri, dal momento che non si può essere tutti Giulio Cesare, che era pure un notevole crittore: chiedersi appunto sul vagone di chi -
tra coloro che forse una qualche csperanza ce l'hanno - decidersi a salire.
Così, tornando al noto giornalista e considerate le sue capacità stilistiche e intellettuali, non c’è ragione alcuna di credere che davanti alla stazione della Storia riesca a transitarci coi suoi stessi piedi: avrà bisogno di un calcio, di una spinta, in linea coi bei costumi nazionali di cui è fiero assertore, trainato da qualcuno che forse i posteri potrà se non vederli quantomeno immaginarli. Dovrà sperare nel vezzo di un qualche scrittore, ma non so, non riesco a pensare a nessunissmo italiano vivente che passerà in letteratura nel numero degli eletti", se non forse quel maestrino di Busi e insieme a lui ovviamente Alberto Arbasino: sia per Fratelli d’Italia che per Super Eliogabalo. Mi pare tra l’altro che Arbasino nomini questo giornalista in uno dei suoi bellissimi rap. Quindi chissà, hai visto mai che ci passi davvero a futura memoria? Che un qualche lontano filologo tra un paio di millenni, scrivendo le note a un’edizione di Busi o di Arbasino, non inserisca una nota, un chiarimento per il lettore una volta giunto a questo oscuro nome del commensale del farmacista di Voghera: "pubblicista italiano di cui non si sa altro a parte il fatto che venne invitato a una cena con rap".
Così, tornando al noto giornalista e considerate le sue capacità stilistiche e intellettuali, non c’è ragione alcuna di credere che davanti alla stazione della Storia riesca a transitarci coi suoi stessi piedi: avrà bisogno di un calcio, di una spinta, in linea coi bei costumi nazionali di cui è fiero assertore, trainato da qualcuno che forse i posteri potrà se non vederli quantomeno immaginarli. Dovrà sperare nel vezzo di un qualche scrittore, ma non so, non riesco a pensare a nessunissmo italiano vivente che passerà in letteratura nel numero degli eletti", se non forse quel maestrino di Busi e insieme a lui ovviamente Alberto Arbasino: sia per Fratelli d’Italia che per Super Eliogabalo. Mi pare tra l’altro che Arbasino nomini questo giornalista in uno dei suoi bellissimi rap. Quindi chissà, hai visto mai che ci passi davvero a futura memoria? Che un qualche lontano filologo tra un paio di millenni, scrivendo le note a un’edizione di Busi o di Arbasino, non inserisca una nota, un chiarimento per il lettore una volta giunto a questo oscuro nome del commensale del farmacista di Voghera: "pubblicista italiano di cui non si sa altro a parte il fatto che venne invitato a una cena con rap".
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sabato 3 agosto 2013
Specchio delle mie brame: capitalisno e farsa della battaglia di Farsalo
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Gneo Pompeo Magno |
L’esito della famosa non battaglia di Farsalo, nella quale Cesare
sconfisse Pompeo nel giro di pochissime ore, sarebbe stato deciso, a voler seguire Plutarco, da una semplice e elementare accortezza tattica: un curioso riferimento, in pieno scontro armato, al
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Svetonio
lunedì 8 luglio 2013
Tacita democrazia, ellissi e manipolazione
Dice Tacito, nel libro quindicesimo degli Annali, che le persecuzioni dei cristiani volute da Nerone (usati anche come torce umane) facevano nascere nella cittadinanza un nuovo sentimento di
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martedì 4 giugno 2013
L'uovo e la gallina
Wilamowitz e Sauppe
Voglio accennare a uno dei più gravi problemi che angustiano la vita di chi studia Plutarco. Sono stati versati su riviste specialistiche fiumi di parole.
La sostanza della questione è la seguente: quale delle due biografie Plutarco scrisse per prima, quella di Cesare o quella di Bruto?
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