sabato 31 agosto 2013

Causa e tempo nella storia. Narrazione e investigazione

 L’uso del principio di causa nella narrazione storica (e del concetto di pretesto) sarebbe (se la storia in senso hegeliano esistesse) antistorico: lo faceva costantemente osservare Croce (era un po’ la sua bestia nera): è comunque un semplice scimmiottamento della metodologia delle scienze sperimentali. Varrebbe la pena ripetere quanto Croce stesso affermava per esempio nei marginalia alla Teoria e storia della storiografia: che cioè l’introduzione di questo principio di causa interromperebbe qualsiasi movimento (storico), "la storia si fermerebbe a un tratto". A Croce interessava ridurre tutto all’idea di storia contemporanea quale attività dello spirito che riflette nel presente anche su eventi cosiddetti storici, cosa che però non cambierebbe lo stato della questione; in effetti, un qualsivoglia evento non è altro che il risultato di un infinito numero di cause, che è come dire che è il risultato di nessuna causa in particolare. Introdurre di punto in bianco una causa particolare da cui si origini un determinato evento equivale a bloccare tutto il processo, tutta la processione, troncare in due con una zappa il corpo di un serpente. Lo stesso dicasi dell’uso del concetto di tempo. Tutto ciò che si riesce a ottenere - pure in una narrazione non annalistica della "storia", una narrazione cioè che non enumeri i fatti uno dietro l’altro in ordine cronologico, è una temporalizzazione parallela, il che equivale a contraddire tutta l'impostazione, a sottrarre ogni forma non relativistica del tempo. E lo stesso vale per le enumerazioni annalistiche, sicché ci saranno gli annali di un popolo e gli annali di un altro, ma non saranno altro che descrizioni cronologiche parallele, e che bisognerà in qualche modo collegare orizzontalmente; si avranno quindi tanti tempi paralleli, e il tempo, storicamente parlando, non potrà mai essere uno, non potrà essere una infinita linea all’interno della quale mettere tutto in ordine; in altri termini ciò equivale ad affermare l’impossibilità – concetto ripetuto d’altronde anche da Croce - di una storia che sia universale (mito mai veramente superato).

Il falso metodo deduttivo, usato nelle narrazioni dei romanzi gialli tradizionali, è un'idealizzazione della metodologia dell’investigazione, la quale, se pure opera con parziali deduzioni, è nel suo insieme un risalire all’indietro, alla fonte, a un individuo che con le sue leggi logiche riesca a spiegare dei fatti di cui faccio esperienza, e che è tipico del metodo induttivo: conserva del vero metodo deduttivo (quello che definisce da subito la fonte originaria) solo l'apparenza dell'andare dal generale al particolare (dalla scena del crimine all'omicida); in realtà la sorgente non ce l'ha, deve trovarla. Ma la sorgente nella natura non ha causa in sé, e non ci sarebbe sorgente se non ci fossero piogge eccetera. L’individuazione del colpevole, quando lo si individua, è comunque sempre un brutale e non realistico tentativo di interrompere il processo della vita all’interno del quale l’assassino si muove. Questa impossibilità di fissare un punto preciso originario, una fonte primaria come causa ultima dell'omicidio, una causa nec plus ultra, le colonne d'Ercole al di là delle quale niente è più conoscibile, può essere osservato nelle faide, dove un omicidio dipende sempre da un altro omicidio. Ed è talmente ovvio che una nozione di causa imbarazza da sempre gli investigatori e la macchina della giustizia, che si è stati costretti a introdurre fin dall'antichità il sinonimo di movente, che è quanto di più aleatorio, non deterministico, possa darsi, e attorno al quale i castelli delle varie scuole psicologiche oggi più che mai si perdono e che lascia sempre dubbi su dubbi anche nei profani, che continueranno a dividersi tra innocentisti e colpevolisti. Diversamente dal concetto di causa per come è definito nelle scienze sperimentali.    

venerdì 30 agosto 2013

Lapidazione e carezze. Contrasto e contraddizione.


Ciò che distingue questi due giudizi della percezione  - contrasto e contraddizione - è che nel primo caso vi è un rafforzamento e un gradimento, nel secondo una difficoltà, un imbarazzo, uno scandalo. Paradossalmente, la cosiddetta pietra dello scandalo, che sarebbe un semplice

mercoledì 28 agosto 2013

Disumano troppo umano. La luna di Goethe e le beffe di Carlyle





Selig wer sich vor der Welt 
Ohne Haß verschließt, 
Einen Freund am Busen hält 
Und mit dem genießt,
Was von Menschen nicht gewußt 
Oder nicht bedacht. 
Durch das Labyrinth der Brust 
Wandelt in der Nacht.


Felice chi senza odio
si separa dal mondo,
e tiene stretto un amico al cuore
e con lui gode
ciò che dagli uomini non è conosciuto
o è trascurato.
Nel labirinto del cuore
costui vaga nella notte.

Traduco qui i versi di chiusura di un ode di Goethe alla luna. Li ho ritrovati in una cartolina infilata in un libro dell'australiana Germaine Greer, la più famosa femminista del mondo. Non so nemmeno quanto li gradirebbe o apprezzerebbe oggi nonostante la luna sia da sempre un po' un simbolo femminile, materno, forse anche simbolo della compassione - e in passato Germaine Greer fu in effetti vittima di un suo gesto diciamo un po' troppo caritatevole: venne legata e selvaggiamente picchiata da una barbona che s'era portata a casa e a cui aveva dato coscienziosamente asilo. Donna contro donna: una poveraccia che voleva forse anche lei semplicemente mostrarsi condiscendente, compassionevole: comprendere il dramma interiore di una nota intellettuale, e può darsi che non sapesse o potesse farlo diversamente.

Questi versi di Goethe me li scriveva invece in quella cartolina anni fa - riproduceva un dipinto di Raffaello - un amico tedesco, col quale parlavamo e parliamo tuttora a volte in italiano a volte nella sua lingua a volte in inglese. Ha ereditato, questo mio sensibile amico, da suo padre un'immensa passione per la storia dell’arte e mi scriveva nella cartolina, per Natale, sotto quei versi, nel suo italiano appena tedeschizzato:

“Raffaelo quasi mai mi piace, Goethe anche – questi versi sono un grande eccezione”.

Quando iniziammo a vederci - ci conoscemmo poco più che ventenni in un bar di Schwabing - mi portò dopo un po' nella villa dei sui genitori subito fuori Monaco, una casa piena di scaffali, un riflesso dell’attività di famiglia, una grande casa editrice di libri d’arte. Mi disse allora, mentre ci bevevamo una coca cola in giardino e sentivamo in lontananza il rumore delle macchine agricole: "questi sono i veri rumori poetici ormai da cento anni, in campagna".

Da ragazzo mi sembravano poetici anche i piloni dell'alta tensione così solitari nei campi di fieno a maggio nella campagna italiana o quelli - visto che mi torna pure questa lontana immagine - di San Pedro in Calfornia, con sullo sfondo il porto industriale che allora mi pareva immenso. Come in fondo non potrebbero mancare di poesia oggi in città, per chi almeno ce lo vuol torvare, le continue sirene della polizia e delle ambulanze e gli ossessivi intermittenti blip blip e suonerie dei cellulari del proprio vicino in autobus o in treno, e gli schermi e gli altoparlanti a tutto volume che mitragliano notizie una dietro l’altra lungo le banchine nelle stazioni della metro e di cui non si fa in tempo a capire che relazione abbiano con la tua esistenza di ascoltatore forzato se non ti cali nell'elementare monotono meccanismo di imitazione rap.

Tiepolo, i cavalli del carro del sole

 Gli stessi suoni perciò a cui è abituato - e le stesse sirene che deve aver sentito - chi ha potuto vedere il corpo senza vita di quel ragazzo bianco (un australiano) ucciso in America da tre teenager (due neri e uno di sangue misto, che per l’America significa comunque nero). Un delitto sicuramente di stampo ideologico, prodotto di un miscuglio di vigliaccheria e odio razziale più che della noia, come faceva osservare giustamente un lettore che commentava questa notizia sul sito di un giornale: “Questo crimine commesso da tre amici", diceva questo lettore, "è una conseguenza diretta e necessaria del sistema capitalistico che mira unicamente a fare numero dividendo” E bisognerebbe aggiungere che mira a dividere in numeri pari e dispari. Era l’unico commento interessante, gli altri pregustavano un più o meno feroce rassicurante compiacimento al pensiero che questi ragazzi (o mostri) verranno con molta probabilità condannati a morte. Il più grande, diciassette anni, nelle foto segnaletiche appare alto non più di un metro e sessantatre.

E si riesce tranquillamente a immaginarlo l’ambiente in cui sono vissuti questi teenager americani: non certo l’ambiente familiare, l’ambiente familiare non c’entra più niente. Si riesce a immaginare l’ambiente in cui sono cresciuti perché è lo stesso in cui sono immersi oggi, nel 2013, dalla testa ai piedi, i teenager di tutto il mondo, dalla Patagonia alla Colombia al Canada, dal Sudafrica al Marocco, dall'India alla Nuova Zelanda all'Islanda e pure nel tecnologizzatissimo Giappone (dove a primavera volano dai ciliegi in fiore leggerissimi, delicati petali rosa all'interno di parchi che sono per contrasto un incanto di templi silenziosissimi), e pure nella tecnologizzatissima Europa, dove i teenager hanno però ancora qualche difficoltà a mettere mano su pistole e fucili o a guidare una macchina a soli sedici anni. E quale sarebbe questo umanissimo ambiente nel quale crescono i teenager di tutto il mondo? Televisione coatta, internet coatto, film nei quali l'unica forma di apologia concessa è quella di una spettacolare ostentazione della forza fisica e della violenza; e ancora autopsie offerte con contorni di pietose sceneggiature a colazione pranzo e cena, inseguimenti a duecento all'ora apprezzati con lo stesso sorriso con cui si segue la Formula Uno, trasmissioni morbosamente e accuratamente costruite su immagini di infinite telecamere di sorveglianza abilmente posizionate e quindi uccisioni e aggressioni sempre più in tempo reale. E in lontananza (o in vicinanza) i pacifici, sereni social network: FB, Twitter e YouTube, e le loro bachechine giornaliere, dentro le quali e grazie alle quali essere sempre indistintamente in primissimo piano, con l'illusione di arrivare a toccare quella stessa notorietà di cui godono i vip del calcio del cinema e della televisione (sicuramente perché sprovviste, queste very important persons, non meno dei loro imitatori da casa, di una qualsivoglia briciola di talento, con una notorietà costruita a tavolino o, nel caso dei loro imitatori, a forza di tags con cui posizionarsi bene nei motori di ricerca). E si può quindi immaginare che razza di risultato restituisca l’imitazione di un prodotto già scadente in partenza e in cui l'uomo reale va a farsi allegramente friggere in una padella senza manici. Che manchi effettiva concretezza e rigore - o che manchi il minimo accenno di compassione - a questo modo di guardare al dolore altrui è irrilevante: l'importante è mostrare un eccesso che comporti un ritorno, che l'immagine eccessiva, lo choc (e sarebbe meglio ormai scrivere shock), collezioni migliaia di mi piace: perché ciò che effettivamente conta non è il sacro silenzio col quale si entra nella casa dove c'è un morto, quello che conta è ottenere col video di una tragedia la stessa visibilità, in numero di click, che otterrebbe un vip twittando in 114 caratteri l'ultima idiozia che gli viene in mente dopo essersi grattato il sedere appena aperti gli occhi. Tanto che non si direbbe niente di campato in aria se si affermasse che l’unica patente e potente ideologia alla base di questo dissociante e narcisico uso dei social network è nutrire il già poco socievole amor proprio di ogni uomo e di ogni donna, di Adamo e Eva, che quando non possono postare immagini raccapriccianti di un treno che deraglia a tutta velocità contro un muro di cemento si conosolano comunicando al mondo che hanno appena mangiato un tramezzino coi carciofini o che la gattina ha fatto i figli ciechi.



Diceva l’ideatore di FB che in origine ci fu una semplice intuizione: la necessità che tutti noi avremmo di tenerci continuamente aggiornati su ciò che fanno i nostri amici. Così Socrate, che diceva che se anche la sua casa era piccola sperava comunque di riempirla di persone care, finirebbe per fare il classico baffo a un utente di un social network che oggi a quindici sedici anni può già contare su duemila amici in tutto il mondo (un imbattibile Nembo Kid, un vero ragazzo delle nuvole - così come Socrate fu rappresentato da Aristofane nelle Nuvole sospeso in alto nel suo canestrello che scrutava i poveri mortali). E mi sembrava quasi di vedere, guardando questa intervista a Zucker, la bava dell’amor proprio colare a rivoli, anzi a fiumi di preziosa porpora (e la bava - a meno che non sia quella di un setter dal pedigree purissimo - non arriva mai se non come sintomo di una qualche conosciuta patologia o di una visione priapica dell'esistenza). E il fatto che nell’intervista questo personaggio, questo nerd o ex nerd, non faccia che snocciolare numeri su numeri mentre celebra il suo amore per l'umanità non è altro che la riprova che sta illustrando un'operazione di puro marketing mascherata da istrionico filantropismo: l'individuo cioè ridotto a quel numero che è sempre stato agli occhi di ogni regime o potere che si rispetti; o nelle mani di ogni business concreto o virtuale che voglia farne un consenziente zimbello e la cui unica legge è di riprodursi e moltiplicarsi miracolosamente secondo i canoni della favoletta dei pani e dei pesci. E sempre per restare in tema faunistico, lo zimbello non sarebbe poi altro che quell'uccello legato a un'asticella e usato dagli uccellatori per adescare altri uccelli.

Mi viene in mente un’immagine di Thomas Carlyle da vecchio, il grande storico scozzese autore di Sartor Resartus e della French Revolution, che verso la fine dell’Ottocento ogni tanto saliva sull’Imperiale e andava a farsi una passeggiata all’aria aperta. Arrivava nei sobborghi di Londra, scendeva, si avvicinava alla dimora di questo o di quest’altro insaziabile magnate, si aggrappava alle sbarre del cancello e cominciava a saltare come una scimmia mostrando i denti feroci e famelici ai ricchissimi proprietari chiusi all’interno. Si faceva specchio delle loro brame. E forse in qualche modo si rifletteva anche lui nelle sembianze di quei carcerieri carcerati dentro le loro splendide dimore. Non è infatti improbabile - faceva bene Ford Madox Ford a ipotizzarlo - che anche Carlyle, e insieme a lui Ruskin, Wilberforce e gli Holman Hunt (i Preraffaeliti), e tutti quei vittoriani non ricchissimi ma ugualmente ossessionati da una certa idea di agio e di benesssere materiale, non è improbabile che avrebbero anche loro fatto di tutto per schiacciare il nemico, avrebbero perfino fatto ricorso al gas nervino, dice Ford Madox Ford, se solo avessero potuto inventarlo, contro i loro amici diventati rivali.

martedì 20 agosto 2013

Rigore, quel grande sconosciuto. Arte letteratura teatro



Pablo Piccasso, genio rigoroso del disegno
                                       

Ripa autem ita recte definietur id, quod flumen continet naturalem rigorem cursus sui tenens …

Sponda si definirà giustamente ciò che racchiude un fiume che conserva la naturale impostazione del suo corso …

Traduco con impostazione (più che con l'errato linea retta, che mi è capitato sicuramente di vedere) il latino rigor, utilizzato in questo frammento del Digesto di Giustiniano per definire il concetto di sponda di un fiume. E' uno dei pochi luoghi che conosco in cui rigor - che significa per lo più rigidezza in senso tecnico gia a partire da Lucrezio (dell’oro, della pietra, del ferro) ma anche inflessibilità sul piano morale (Tacito) - è inteso in un senso più vicino all’italiano rigore quando si intende l’esecuzione di un’opera, di un lavoro, la preparazione di una performance.

Proust internauta e i wormholes


Philippe E. Hurbain, Wormhole: panorama of the dunes

Mi è capitato di trovare, anni fa, nei diari di Philippe Sollers, un certo giocoso e nostalgico riferimento a Proust. Diceva Sollers che se Proust vivesse oggi sarebbe senz'altro un indemoniato del fax, delle email e di tutto il resto, e che lo si vedrebbe sposare pienamente la causa di Internet - ammesso, ovviamente, che Internet si proponga una causa, un qualche fine umanitario, e che non sia semplicemente la più potente e cavernicola forma di retorica che la Storia conosca, basata come tutte le retoriche che si rispettino, sulla manipolazione e il controllo totale dell'individuo. A dire il vero Sollers non diceva indemoniato, ma il senso era quello, che cioè proprio Proust, colui che più di ogni altro era parso immerso nei discorsi sociali di un mondo chiuso ed esclusivo, si sarebbe gettato oggi anima e corpo in tutti i più minuti meccanismi e varianti globali di queste odierne e dissocianti tecnologie dell'annullamento di una distanza. E in effetti di Proust (e inevitabilmente del Narratore della Recherche) si conosce la passione per le invenzioni dell'epoca: il telefono ancora agli inizi col quale ascoltava i concerti da casa, la bicicletta di Albertine a Balbec, l'aereo ammirato a Versaille e nei pressi del castello della Raspelière ma poi oggetto temutissimo durante la guerra. Non era certo un nostalgico. E inoltre si conosce almeno un caso in cui il Proust anagrafico si divertì per qualche ora a impersonare il portiere di uno stabile nel quale abitavano alcuni suoi amici, professione da sempre lanciata nel più lontano e più moderno futuro.

Non credo tuttavia che Sollers abbia posto o indicato la questione nei termini giusti. Non ha molto senso chiedersi come sarebbe o cosa farebbe oggi un Leonardo, o come sarebbero Balzac o Stendhal o Montaigne. Fa venire in mente quegli uomini che dicono che se fossero donne farebbero sesso ogni cinque minuti. Porre la questione in questi termini svela semplicemente un sentimentalismo o un arrapamento di tipo senile, anche piuttosto preoccupante in un intellettuale di un certo calibro che dovrebbe tenere confinati i propri istinti al privato, pure in un diario da rendere pubblico.

Avendo scritto la mia prima tesi sugli influssi della poesia alessandrina in Catullo, per un certo periodo rimasi convinto di essere la sua reincarnazione, considerato che dopotutto si chiamava Gaio Valerio e che io pure mi chiamo Valerio, e che già al liceo amavo i suoi epigrammi e anzi li avevo riscrittti adattandoli ai miei tempi e intitolando quel lavoretto Catullo allo specchio. Così, un autunno di tanti anni fa, arrivando sul lago di Garda e andando subito a vedere i resti della supposta Villa di Catullo chiesi agli amici con cui ero di lasciarmi per un po’ da solo: volevo fare un semplice esperimento: misurare una volta per tutte l'effettiva distanza ontologica, se ce n'era una, che mi separava da Catullo. Mi sedetti tra le antiche pietre e restai in silenzio qualche minuto. Ma non sentii niente. E pensai che o io non ero Catullo o che quella non era la sua villa.


ultima immagine di Proust

Sarebbe più interessante chiedersi invece che cosa avrebbe da fare o cosa si troverebbe a fare uno dei tanti scrittori che oggi vanno per la maggiore - ma anche uno dei tanti attori, musicisti, architetti o qualsiasi altro personaggio pubblico convinto di essere qualcuno - di cosa si scoprirebbero appassionati se venissero improvvisamente portati indietro nel tempo con lo stesso nome e professione di oggi. E non so perché mi viene in mente una storiella morale di san Bernardino da Siena, che racconta che un bel giorno un uomo che passeggiava per la via degli Speziali, dove si sentivano nell'aria profumi e aromi di ogni genere, improvvisamente cadde a terra svenuto. Come ancora oggi succede, molte persone gli si fecero attorno, arrivò anche un medico, che dopo averlo palpato e ripalpato chiese se qualcuno ne conosceva il mestiere. Quando gli dissero che faceva il votatore di pitali, il medico sorrise e disse di portare dello sterco di cavallo. Come l'ebbe tra le mani, gliene passò un po’ sotto il naso e quello rinvenne.

Concludeva san Bernardino: voi ci ridete, et ecci da piangere.  

mercoledì 14 agosto 2013

Eurialo e Niso: omosessualità in Plutarco, Virgilio e Leopardi


J.B. Roman, Eurialo e Niso (Louvre) - foto Jastrow - Wikipedia

τὴν μὲν πρὸς ἄρρεν´ ἄρρενος ὁμιλίαν, μᾶλλον δ´ ἀκρασίαν καὶ ἐπιπήδησιν, εἴποι τις ἂν ἐννοήσας

‘ὕβρις τάδ´ οὐχὶ Κύπρις ἐξεργάζεται’

Traduco quasi letteralmente questo passo che si trova verso la fine dell’Amatorius, o Erotikós, il dialogo sull'amore che Plutarco scrisse agli inizi dell’era cristiana e di cui ho già accennato altrove:

del rapporto sessuale di un maschio con un altro maschio,

La persistenza della memoria: Dalì, Lorca e Neruda




La persistenza della memoria - New York - Museum of Modern Art


Non so se sia veramente un errore confondere esistenza anagrafica e esistenza produttiva di un artista. Se così fosse, se fossero possibili tali accostamenti, bisognerebbe allora reprimere, davanti a una piccola grandiosa tela che letteralmente lascia abbagliati

venerdì 9 agosto 2013

L'abito fa la monaca: il razzismo dei ricchi






Oprah Winfrey, simpatica e nota conduttrice della tv americana, considerata una delle donne più ricche e influenti del pianeta, ha raccontato di essere entrata in un negozio di Zurigo, di aver chiesto una borsa da ventottomila euro e di essersi sentita rispondere da un'impassibile e poco compiacente commessa svizzera che quell'oggetto non era adatto a lei, che costava troppo. La Winfrey ha subito tirato in ballo il razzismo e ne ha montato un caso galattico, sicuramente non ignorando che che più che una questione di razzismo è stato un colpo al suo amor proprio: il fatto cioè che una semplice commessa europea non l'abbia riconosciuta, non abbia riconosciuto una delle dee dell’etere statunitense, l'aver preso finalmente atto che esiste almeno una persona nel mondo che non l'ha proprio mai né vista né sentita nominare. Non so se la Winfrey sia entrata in quel negozio della più esclusiva via di Zurigo in “ciavatte e bigodini”, come si dice a Roma, e coi sacchetti della spesa in mano come una bag lady ma non capisco di che razzismo cianci, né in che modo le sia venuto in mente. Sempre che non intenda quel noto razzismo alla rovescia: il fatto che la Winfrey, come tutti i ricchi di questo mondo, vede il mondo capovolto. Ci sono persone infatti che trovano che sia altamente razzista presentarsi in un negozio e chiedere a una commessa che guadagna mille e cinquecento euro al mese di mostrargli una borsa che ne costa ventottomila. E oltre che razzista la trovo una cosa da far venire i conati di vomito se penso che lo stipendio annuale non solo di una commessa ma di un infermiere di un cameriere di un professore di scuola di una domestica di un lavacessi di un poliziotto è la metà dei ventottomila euro che costa la borsetta che la Winfrey voleva comprarsi.

Il calcio non è gay: è omoerotico


Melchior d'Hondecoeter - Natura morta con galli e galline

Il termine coming out – letteralmente venir fuori, quindi uscita – presuppone soltanto che ci si trovi all’interno di un qualcosa, di un luogo dal quale effettivamente poter uscire. È semplicemente una forzatura poi identificare questo concetto dell'esterno con quello della luce del sole: posso venir fuori da un posto chiuso restando in un altro posto chiuso più grande e che lo racchiuda: ad esempio dall’ascensore alle scale. Sempre al chiuso sono.

L’ossesssione del mondo gay per tutto ciò che non è gay (vedrebbero gay dovunque e vorrebbero far fare coming out perfino ai santi), è un fatto relativamente recente. Chi ha fatto il cosiddetto coming out, chi si è finalmente “liberato”, si sente paladino di una causa morale e tende a considerare una qualsiasi manifestazione omoerotica inconscia - anche quando cioè non c’è consapevole desiderio omoerotico - come un fatto più che manifesto che lì ci sia qualcosa di gay e che in quanto tale vada esteriorizzato. Di queste frequenti manifestazioni omoerotiche inconscie, gli sport di squadra, soprattutto il calcio, abbondano: abbracci e effusioni in campo, baci bacini e bacetti dopo un gran goal ma anche dopo uno schifo di goal venuto soltanto per colpa di un girandolino a centro campo della squadra avversaria, palpatine eccetera; ma più che il segno di un conscio desiderio omosessuale queste manifestazioni non sono altro che banalissimi gesti di affetto e esultanza, la necessità di condividere con un amico o compagno di centuria un momento di felicità o comunque gesti (le palpatine) che da che mondo è mondo sono codici comportamentali tipici dell’ambiente maschile giovanile, il segno di un sopito desiderio anche fisico perché appunto codificato, l’unico modo in cui in una società globalmente e potentemente eterosessuale, certi istinti possono rivelarsi. Nel gioco, appunto. O nella lotta – si veda per esempio la lotta tra due maschi nel film Donne in amore di Ken Russel, o le scosse erotiche nel recentissimo Tensiòn sexual 1 dei registi argentini Marco Berger e Marcelo Mònaco, e si capirà molto di questo tipo di desiderio controllato, codificato. Ma di qui a dire che due uomini che fanno a botte o un calciatore che palpi le natiche di un altro calciatore sia gay ( o anche semplicemente omosessuale) ce ne passa e ce ne passa parecchia, ci passa tanta acqua quanta ce n’è nell’oceano Atlantico tra le due sponde.
A parte la questione omoerotismo, c'è da dire che non significano la stessa cosa nemmeno omosessualità e essere gay (parola bruttissima, senza spina dorsale e che fa scappare tutti - somiglia a un miagolio ed è strano che i gay non se ne siano mai accorti). Non comportano le stesse ragioni queste due parole perché "gay" riflette originariamente un’istanza politica che però oggi ha perso anche quel po’ di forza rivoluzionaria che aveva agli inizi, all’epoca degli eventi di Stonewall, il noto bar di travestiti a New York da cui si originarono a seguito di un pestaggio della polizia omofoba i violenti scontri che tennero sotto scacco il Greenwich Village per tre giorni; il primo termine invece (omosessualità) definisce un insieme di pulsioni e desideri e comportamenti ed esula dalla sfera politica in senso stretto, di impegno politico e civile, di chi combatte anche seriamente, sotto questa etichetta, per l’acquisizione di diritti per le coppie dello stesso sesso. A parte quindi la non assoluta possibilità di identificare visione gay della vita e comportamenti omoerotici e omosessuali, viene anche da chiedersi quale senso abbia (se non di presunzione) dire a un grande calciatore, a uno cioè che ha un ego smisurato, e che spesso ha pure un talento smisurato, che tocca il cielo con un dito, come si fa a dire a una persona del genere: devi fare coming out. La prima cosa che mi viene in mente è che un calciatore così impostato - che il gay vorrebbe tirare nel mondo gay come il mugnaio tira l'acqua al proprio mulino - ti faccia quand'anche sia dedito a amori omosessuali una sonora pernacchia e che finisca magari per dirti: "gay per questa volta ci sarai tu, a me di uscire dentro un ghetto non interesssa proprio un bel niente, non ho bisogno di nessuna etichetta in fronte. Se pure perde tempo a risponderti.


 C’è poi il caso di Cecchi Paone, il giornalista che ha fatto coming out e che ogni tanto si azzuffa, per la verità in maniera anche divertente, col mondo ufficiale del calcio. Mi è capitato diverse volte di sentirlo parlare in qualche intervista. Ma non mi pare che usi la parola gay, o almeno le volte che mi è capitato l’ho sempre e soltanto sentito usare termini come omoerotismo, o omosessualità. Ha pure scritto un libro su omosessualità e sport nel cui titolo non compare la parola gay e non so se e quante volte l'abbia usata all'interno perché non l'ho letto. Cecchi Paone però è cosa diversa: si diverte a mettere il dito nell’ipocrisia del mondo calcistico, e se anche la sua è una battaglia diciamo così etica fa prendere poi felicemente alla questione i toni divertenti del botta e risposta tra due ragazzini; non è comunque un caso che reagisca come reagisce ogni volta che sente un dirigente o un calciatore dire che nel calcio non ci sono maschi che vanno con altri maschi. Lo invitano a nozze. Pure a non considerare il carattere altamente omoerotico di un qualsiasi gioco di squadra (come fai a non pensare di dare il meglio anche e soprattutto perché - a parte i milioni che guadagni - i tuoi compagni di squadra ti stanno guardando e vuoi essere ammirato anche da loro?) è pure una palese assurdità, che dimostra non solo ignoranza della storia ma pure della natura se anche i cagnetti che si vedono scodinzolare nei giardini pubblici e nei parchi si annusano a tutto spiano, sia maschi con femmine che maschi con altri maschi. Ma spezzo qui una lancia in favore dei gay. In Shalespeare si trova il termine nosegay (letteralmente, nell'antico inglese, ornamento da avvicinare al naso, mazzetto di fiori che l'innamorarato regalava all'amata) e a quell'epoca a teatro i personaggi femminili erano interpretati esclusivamente da uomini.   



mercoledì 7 agosto 2013

Amor proprio, antidoto e letteratura




"… perché il sacrifizio precisamente per altrui non è possibile all’uomo …" Così Leopardi nello Zibaldone (67) a conclusione di un pensiero attorno all’amor di patria e a tutte le cose giuste e anche alle sciocchezze scritte prima di lui su questo argomento. In altri termini, nota Leopardi, l’amor di patria non sarebbe che una forma mascherata

martedì 6 agosto 2013

la volgarità, il piccolo principe e i bamboccioni

Antoine de Saint-Exupéry


Ciò che caratterizza l’Italia – ad esempio la Gran Bretagna è un paese dal forte carattere marziale, deciso, virile, che si parli di uomini o donne – ciò che caratterizza l’Italia è invece la somma volgarità: intesa nell’unica accezione possibile di "totale mancanza di educazione e cultura"; e questa è una caratteristica che in Italia non conosce distinzioni sociali: la si ritrova a uno stesso livello tanto tra l'aristocrazia quanto negli ambienti popolari, nei tristi gironi della borghesia quanto in quelli ancora più tristi della piccola borghesia. In più, come una ciliegina sulla crostata o sul millefoglie o Napoleon che dir si voglia, gli uni e gli altri si sono riconosciuti adesso tutti assieme in quel poderoso livellatore del linguaggio che è Internet.

L’italiano, a qualsiasi classe sociale appartenga, semplicemente non sa prendere le distanze dall’altro, non conosce il senso dell’ironia, come diceva l'americano Gore Vidal che in Italia abitò a lungo; e ha inoltre, sempre l'italiano, un senso dell’umorismo basato esclusivamente su rutti peti e pernacchie, esattamente alla maniera in cui ci descrive Luciana Littizzetto; e vive e prospera, l'taliano, della curiosa idea di essere ammirato nel mondo solo perché è italiano e perché Leonardo e Michelangelo erano italiani, e si dimentica che Leonardo, se ai suoi tempi fu amato come un dio, lo fu prima di tutto dai francesi e da Francesco I, non certo dagli italiani, che anzi gli intentarono pure un processo per immoralità (con accuse alimentate da sicofanti dell’epoca), per non dire poi che nel resto del mondo l'Italia non è assolutamente ammirata, cosa a cui può credere soltanto chi pur avendo viaggiato lo ha fatto con la classica fetta di prosciutto sugli occhi. Il povero italiano più che essere ammirato e invidiato è vittima consapevole di se stesso: da vent’anni non fa altro che alzarsi tutte le mattine al suono della stessa cantilena, lo stesso disco rotto: con l’avallo di televisioni e di giornali ipocriti della pseudo sinistra, ugualmente volgari come tutto il resto – Repubblica, Huffington Post e Unità - non fa che ascoltare e leggere sempre e comunque uno stesso nome, quello di quel personaggio che posando per la foto di gruppo a Buckingham Palace urlò all’improvviso, a due metri dalla regina e tra lo sconcerto generale: “Mister Obamaaaaaaaa”, come un bettoliere. Questa è l'Italia, non un'altra: Rita Levi Montalcini e pochi altri grandi nati italiani appartengono al resto del mondo non all'Italia, e se mi rimetto a pensare a quello che successe in un seggio elettorale di Roma, che tra l'altro è il mio, alla ultranovantenne Rita Montalcini, a cui un volgare elettore di destra intimò di fare la fila come tutti gli altri quando il presidente di seggio, vista l'età, voleva darle la precedenza, nonostante la Montalcini non avesse chiesto proprio un bel niente, allora mi viene il voltastomaco e non vado più avanti. Ma devo dire un'ultima cosa.

Ecomostro in Italia

Riguardo ai bamboccioni – termine applicato ai ragazzi italiani dall’ottimo Padoa Schioppa, che da ministro dell’Economia quando si spostava in Europa per incontri ufficiali volava soltanto con voli low cost senza che la cosa facesse notizia, anzi qualcuno lo prendeva pure per i fondelli, e faceva invece notizia e folklore chi riempiva gli aerei di Stato di cubiste e ruffiane e ruffiani e faccendieri – riguardo i bambocci la situazione è drammatica: a trenta quarant’anni stanno ancora a casa col padre e con la madre, e occupano lo stesso lettino di quando erano ragazzi, e anzi non a quaranta ma ancora a venti se ne stanno in famiglia, cosa che per esempio in Gran Bretagna sarebbe l’orrore degli orrori. La scusa, perché si tratta di scusa, è che gli affitti sono alti e impensabili. Anche in Gran Bretagna o in Francia gli affitti sono alti e impensabili, che vuol dire? Si condivide l’affitto se proprio si vuole prendere il volo.

Verrebbe da pensare al complesso di Peter Pan, l'eterno adolescente a trent't'anni suonati. E non sarà allora, è il caso di dirlo, che sono state proprio mammina o nonnina a educarti così: non solo a non insegnarti come ci si rifà il letto da soli ma anche a mostrarsi un po' troppo soddisfatte per questo figlio o nipote così maschio che lascia mutande e calzini sporchi e incrostati sulla sedia o per terra dopo l'ultima seduta in webcam invece che metterli con più rispetto in primo luogo per se stesso nella lavatrice? non è che sono state proprio queste tue due fate, col sostegno magari di qualche zia, come nelle Sorelle Materassi, a convincerti dell’idea strambissima di avere allevato un piccolo principe? E magari l’avessi letta l’operetta di Antoine de Saint- Exupéry, non dico gli scritti più maturi e arditi, per così dire, quando da aviatore sfidava l'Oceano (Terra degli uomini, Terra di Notte), ma proprio Il piccolo principe: avresti quantomeno trovato, tu trenta quarantenne che vivi ancora con papà e mammà, un dolce compagno che come te si stupisce della stranezza del mondo degli adulti.   

Indovina chi viene a cena

Tiepolo - Allegoria del Merito


Let me have men about me that are fat,
Sleek-headed men and such as sleep a-nights.
Yond Cassius has a lean and hungry look.
He thinks too much. Such men are dangerous.

Sono forse le più famose parole pronunciate da Cesare nell’omonimo dramma di Shakespeare, per il quale  dipende da Plutarco. Le ho sentite così tante volte a Londra a teatro pronunciate da questo o da quest'altro attore che mi sono dimenticato le singole messe in scena, stracariche di messe in piega. Un certo John Ripley, che fu professore di letteratura inglese alla Mc Gil University a Montreal, scrisse perfino un libro quando io ero ancora piccolo sulla storia degli allestimenti di questo dramma - Julius Caesar on stage in England and America, 1593-1973. Ma per tornare a bomba, e ai versi citati, si potrebbe dire che se Shakespeare avesse scritto il Giulio Cesare un po’ prima delle Idi di marzo e non mille e cinquecento anni dopo, la storia gli avrebbe dato ugualmente ragione. Bruto, Casca i congiurati, erano tutti uomini sottili (per usare un termine caro a Raymond Chandler): d'una magrezza essenziale, o che comunque dormivano poco – in particolare Bruto, che conobbe soltanto da sveglio il fantasma che l’ossessionò fino a Filippi - e che sicuramente dovevano pensare e riflettere molto, visto che ammazzare (si fa per dire) un gigante della Storia non era cosa da torpori mentali: richiedeva una non comune elasticità fisica, una certa capacità di tenere in mano un pugnale, saltare da un punto all’altro dell'aula del Senato per evitare la reazione di Cesare, che pare si difendesse fin dai primissimi fendenti con una furia che ci può soltanto immaginare.

Il contrario di questi congiurati delle Idi di marzo (per restare sulla questione dei pensatori grassi o magri) è un certo giornalista italiano, che in passato si vantò di essere stato al soldo della Cia e che in seguito, in un tribunale francese, si rimangiò tutto: spiegò che s'era trattato di una bufala all'italiana, che se l’era inventato. Lasciamo perdere il fatto che un giornalista e osservatore politico ammetta penosamente di essersi divertito a mentire e che scambi moralità pubblica coi suoi vizi privati, e dica ogni volta, quando è messo alle strette, faccio come mi pare (e lo può fare soltanto perché da tipico figlietto di papà mai veramente cresciuto non si è mai neppure affrancato, idealmente, dal tetto paterno). Lessi una volta un suo strambo e immemorabile articolo in cui più o meno lasciava trapelare un certo desiderio di passare alla Storia - in realtà condivideva questa assurda e ridicola speranza (nessuno gli ha ancora spiegato che non si passa più alla storia) con un altro giornalista italiano, da lui stesso nominato nel medesimo articolo: Paolo Mieli. Il problema (anche ammettendo che alla Storia ci si passi ancora) è come ci passi tu in particolare? Che fai? Chi ti ci mette? chi ti consegna con un suo scritto alla Storia?

Veronese, Le Nozze di Cana (il miracolo)
                                 
Disse candidamente il rigoroso Contini nel corso di una lunga intervista a Ludovica Ripa di Meana, e rispondendo indirettamente alle accuse di alcuni suoi amici scrittori  – non li aveva inseriti nella sua Letteratura Italiana tra gli autori che secondo lui sarebbero rimasti - disse Contini: "io proprio non immaginavo che avessero così tanta fiducia nella qualità della loro scrittura".

Questo giornalista in realtà una qualche chance di passare alla Storia l’avrebbe (sempre nell'ipotesi che ci si passi), indipendentemente dal fatto che da ex sessantottino (per differenza di età non posso dire di averli visti col megafono in mano) si ritrovi oggi penosamente a più di sessant’anni sul versante opposto a fare il paladino dei teocon, o del suo amato Cesarino della Brianza (in greco questo giornalista sarebbe l'erastìs, l'amante, l'altro sarebbe l'eròmenos, l'amato) – e detto en passant, trovo alquanto disgustoso l’innamoramento a una certa età. Capitò anche a Goethe, che a settant’anni si innamorò senza speranza di una ragazzina tedesca, una diciassettenne o diciottenne, un amore impossibile, quasi anticipato tanti anni prima in uno dei suoi libri peggiori: I dolori del giovane Werther, il cui inizio ricordo stranamente ancora a memoria, e proprio in tedesco: "Was ich von der Geschichte des armen Werther nur habe auffinden konnen ...": ciò che ho potuto trovare della storia del povero Werther l’ho raccolto con cura e ve lo propongo. Me lo recitavo a vent'anni lungo l'Isar a Monaco. Ma se il Werther fosse anticipazione di quell'amore impossibile che Goethe proverà in vecchiaia (e non mi meraviglierei, considerata la natura profetica di ogni artista) significherebbe allora che almeno lui, il grande Goiethe, s'era scelto un più accettabile alter ego (che tra l’altro si sparerà un colpo di pistola alla fine): un ragazzo che raccolga più di quarant'anni prima le sue pene di patetico settantenne innamorato d’una ragazzina – e per come sono viste oggi le cose, l’autore delle Affinità elettive sarebbe considerato quasi un pedofilo, con la sua Elegia di Marienbad.

Goethe

Insomma l’amore a una certa età è meglio lasciarlo ai ventenni: che si tratti di amore dei sensi o politico, mentre sarà in qualche modo più giusto, se proprio uno ci crede, inventarsi un modo più sicuro di passare ai posteri, dal momento che non si può essere tutti Giulio Cesare, che era pure un notevole crittore: chiedersi appunto sul vagone di chi - tra coloro che forse una qualche csperanza ce l'hanno - decidersi a salire.

Così, tornando al noto giornalista e considerate le sue capacità stilistiche e intellettuali, non c’è ragione alcuna di credere che davanti alla stazione della Storia riesca a transitarci coi suoi stessi piedi: avrà bisogno di un calcio, di una spinta, in linea coi bei costumi nazionali di cui è fiero assertore, trainato da qualcuno che forse i posteri potrà se non vederli quantomeno immaginarli. Dovrà sperare nel vezzo di un qualche scrittore, ma non so, non riesco a pensare a nessunissmo italiano vivente che passerà in letteratura nel numero degli eletti", se non forse quel maestrino di Busi e insieme a lui ovviamente Alberto Arbasino: sia per Fratelli d’Italia che per Super Eliogabalo. Mi pare tra l’altro che Arbasino nomini questo giornalista in uno dei suoi bellissimi rap. Quindi chissà, hai visto mai che ci passi davvero a futura memoria? Che un qualche lontano filologo tra un paio di millenni, scrivendo le note a un’edizione di Busi o di Arbasino, non inserisca una nota, un chiarimento per il lettore una volta giunto a questo oscuro nome del commensale del farmacista di Voghera: "pubblicista italiano di cui non si sa altro a parte il fatto che venne invitato a una cena con rap".

sabato 3 agosto 2013

Specchio delle mie brame: capitalisno e farsa della battaglia di Farsalo


Gneo Pompeo Magno


L’esito della famosa non battaglia di Farsalo, nella quale Cesare sconfisse Pompeo nel giro di pochissime ore, sarebbe stato deciso, a voler seguire Plutarco, da una semplice e elementare accortezza tattica: un curioso riferimento, in pieno scontro armato, al