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martedì 6 agosto 2013

Indovina chi viene a cena

Tiepolo - Allegoria del Merito


Let me have men about me that are fat,
Sleek-headed men and such as sleep a-nights.
Yond Cassius has a lean and hungry look.
He thinks too much. Such men are dangerous.

Sono forse le più famose parole pronunciate da Cesare nell’omonimo dramma di Shakespeare, per il quale  dipende da Plutarco. Le ho sentite così tante volte a Londra a teatro pronunciate da questo o da quest'altro attore che mi sono dimenticato le singole messe in scena, stracariche di messe in piega. Un certo John Ripley, che fu professore di letteratura inglese alla Mc Gil University a Montreal, scrisse perfino un libro quando io ero ancora piccolo sulla storia degli allestimenti di questo dramma - Julius Caesar on stage in England and America, 1593-1973. Ma per tornare a bomba, e ai versi citati, si potrebbe dire che se Shakespeare avesse scritto il Giulio Cesare un po’ prima delle Idi di marzo e non mille e cinquecento anni dopo, la storia gli avrebbe dato ugualmente ragione. Bruto, Casca i congiurati, erano tutti uomini sottili (per usare un termine caro a Raymond Chandler): d'una magrezza essenziale, o che comunque dormivano poco – in particolare Bruto, che conobbe soltanto da sveglio il fantasma che l’ossessionò fino a Filippi - e che sicuramente dovevano pensare e riflettere molto, visto che ammazzare (si fa per dire) un gigante della Storia non era cosa da torpori mentali: richiedeva una non comune elasticità fisica, una certa capacità di tenere in mano un pugnale, saltare da un punto all’altro dell'aula del Senato per evitare la reazione di Cesare, che pare si difendesse fin dai primissimi fendenti con una furia che ci può soltanto immaginare.

Il contrario di questi congiurati delle Idi di marzo (per restare sulla questione dei pensatori grassi o magri) è un certo giornalista italiano, che in passato si vantò di essere stato al soldo della Cia e che in seguito, in un tribunale francese, si rimangiò tutto: spiegò che s'era trattato di una bufala all'italiana, che se l’era inventato. Lasciamo perdere il fatto che un giornalista e osservatore politico ammetta penosamente di essersi divertito a mentire e che scambi moralità pubblica coi suoi vizi privati, e dica ogni volta, quando è messo alle strette, faccio come mi pare (e lo può fare soltanto perché da tipico figlietto di papà mai veramente cresciuto non si è mai neppure affrancato, idealmente, dal tetto paterno). Lessi una volta un suo strambo e immemorabile articolo in cui più o meno lasciava trapelare un certo desiderio di passare alla Storia - in realtà condivideva questa assurda e ridicola speranza (nessuno gli ha ancora spiegato che non si passa più alla storia) con un altro giornalista italiano, da lui stesso nominato nel medesimo articolo: Paolo Mieli. Il problema (anche ammettendo che alla Storia ci si passi ancora) è come ci passi tu in particolare? Che fai? Chi ti ci mette? chi ti consegna con un suo scritto alla Storia?

Veronese, Le Nozze di Cana (il miracolo)
                                 
Disse candidamente il rigoroso Contini nel corso di una lunga intervista a Ludovica Ripa di Meana, e rispondendo indirettamente alle accuse di alcuni suoi amici scrittori  – non li aveva inseriti nella sua Letteratura Italiana tra gli autori che secondo lui sarebbero rimasti - disse Contini: "io proprio non immaginavo che avessero così tanta fiducia nella qualità della loro scrittura".

Questo giornalista in realtà una qualche chance di passare alla Storia l’avrebbe (sempre nell'ipotesi che ci si passi), indipendentemente dal fatto che da ex sessantottino (per differenza di età non posso dire di averli visti col megafono in mano) si ritrovi oggi penosamente a più di sessant’anni sul versante opposto a fare il paladino dei teocon, o del suo amato Cesarino della Brianza (in greco questo giornalista sarebbe l'erastìs, l'amante, l'altro sarebbe l'eròmenos, l'amato) – e detto en passant, trovo alquanto disgustoso l’innamoramento a una certa età. Capitò anche a Goethe, che a settant’anni si innamorò senza speranza di una ragazzina tedesca, una diciassettenne o diciottenne, un amore impossibile, quasi anticipato tanti anni prima in uno dei suoi libri peggiori: I dolori del giovane Werther, il cui inizio ricordo stranamente ancora a memoria, e proprio in tedesco: "Was ich von der Geschichte des armen Werther nur habe auffinden konnen ...": ciò che ho potuto trovare della storia del povero Werther l’ho raccolto con cura e ve lo propongo. Me lo recitavo a vent'anni lungo l'Isar a Monaco. Ma se il Werther fosse anticipazione di quell'amore impossibile che Goethe proverà in vecchiaia (e non mi meraviglierei, considerata la natura profetica di ogni artista) significherebbe allora che almeno lui, il grande Goiethe, s'era scelto un più accettabile alter ego (che tra l’altro si sparerà un colpo di pistola alla fine): un ragazzo che raccolga più di quarant'anni prima le sue pene di patetico settantenne innamorato d’una ragazzina – e per come sono viste oggi le cose, l’autore delle Affinità elettive sarebbe considerato quasi un pedofilo, con la sua Elegia di Marienbad.

Goethe

Insomma l’amore a una certa età è meglio lasciarlo ai ventenni: che si tratti di amore dei sensi o politico, mentre sarà in qualche modo più giusto, se proprio uno ci crede, inventarsi un modo più sicuro di passare ai posteri, dal momento che non si può essere tutti Giulio Cesare, che era pure un notevole crittore: chiedersi appunto sul vagone di chi - tra coloro che forse una qualche csperanza ce l'hanno - decidersi a salire.

Così, tornando al noto giornalista e considerate le sue capacità stilistiche e intellettuali, non c’è ragione alcuna di credere che davanti alla stazione della Storia riesca a transitarci coi suoi stessi piedi: avrà bisogno di un calcio, di una spinta, in linea coi bei costumi nazionali di cui è fiero assertore, trainato da qualcuno che forse i posteri potrà se non vederli quantomeno immaginarli. Dovrà sperare nel vezzo di un qualche scrittore, ma non so, non riesco a pensare a nessunissmo italiano vivente che passerà in letteratura nel numero degli eletti", se non forse quel maestrino di Busi e insieme a lui ovviamente Alberto Arbasino: sia per Fratelli d’Italia che per Super Eliogabalo. Mi pare tra l’altro che Arbasino nomini questo giornalista in uno dei suoi bellissimi rap. Quindi chissà, hai visto mai che ci passi davvero a futura memoria? Che un qualche lontano filologo tra un paio di millenni, scrivendo le note a un’edizione di Busi o di Arbasino, non inserisca una nota, un chiarimento per il lettore una volta giunto a questo oscuro nome del commensale del farmacista di Voghera: "pubblicista italiano di cui non si sa altro a parte il fatto che venne invitato a una cena con rap".

giovedì 25 aprile 2013

Sei un vero romanziere?




                            Il gioco degli ochi 

Come riconoscere se sei un vero romanziere?

1.  Da ciò che scrivi: cioè da come scrivi, e per il fatto che i tuoi personaggi s'impongono come veri fin dalle prime battute. La narrativa è arte realistica, anche quando appartiene alla letteratura fantastica - ad esempio l'Orlando Furioso, con tutti i suoi ippogrifi e le sue invenzioni fantastiche, è una delle opere più realistiche che ci siano. E perché?

2. Per via della lingua che usa. In questo senso, tra gli autori viventi pubblicati dalle grandi case editrici oggi in Italia, l'unico vero romanziere, anche quando scrive diari di viaggio è (a parte casi ancora nascosti) Aldo Busi: tutto il resto è piattume narcisistico e campagne di marketing. Soltanto Aldo Busi sa imitare, con  le sue frasi, l'effettivo movimento del suo tempo (a parte ovviamente Moresco di Lettere a nessuno, e Camilleri dialettale). Prima di lui c'erano Sciascia e, ancor prima di Sciascia, Gadda.

3. Un vero romanziere non prende mai partito per l'uno o per l'altro dei suoi personaggi: riflette sempre il suo tempo come uno specchio più o meno deformante e per questo ne preannuncia profeticamente gli sviluppi, li anticipa (per questo l'ultima parola spetta sempre ai posteri).

4.  Un vero romanziere (salvo rari casi in cui si trova suo malgrado a far parte della cricca) viene sempre inizialmente rifiutato dagli editori: anzi sputa letteralmente sangue prima di arrivare a vedersi riconosciuto, e il più delle volte lo è soltanto quando è già norto; e questo perché gli editori non capiscono un'acca della vera letteratura, capiscono solo, giustamente, come fare soldi. Non esistono editori che mirano alla qualità, e quando lo dicono, se non è pura tartufata, chiudono presto. Riconoscono un vero romanziere soltanto quando improvvisamente il manoscritto capita sotto gli occhi della persona giusta, che per sbaglio hanno assunto come lettore.

5. Un vero romanziere non ha mai seguito corsi di scrittura, né mai li seguirà né oserà organizzarli, a meno che non stia morendo di fame o non abbia un cravattaro nascosto sotto casa. Corsi di scrittura e vero romanziere sono aspetti insanabilmente contraddittori. Un vero romanziere osserva - senza poterci far niente - unicamente il suo tempo, e studia soltanto i grandi autori che l'hanno preceduto per capire come questi hanno risolto un certo problema di espressione e di imitazione del reale.

6. Un vero romanziere non proviene mai da anni di autocompiacimento nel mondo universitario, come è il caso di Umberto Eco e di altri felici universitari che si sono di punto in bianco scoperti romanzieri. I veri grandi professori universitari, rarissimi oggi, coloro cioè che scrivono i loro saggi meravigliosi centellinando le singole parole, lo sanno benissimo.

7. Umberto Eco è un vero romanziere? No. La lingua del Nome della rosa non solo fa cadere i cosiddetti tommasei ma non riproduce nulla del movimento del reale. E' puro gioco accademico, ragionieristico: è sfruttamento di una moda, un gusto del mistero, del Medioevo, di cui Eco si è occupato. Riproduce il reale solo nell'ottica dello sfruttamento della fame che il lettore ha del passato.

8. Quando inizia a scrivere un grande romanziere? Praticamente nel momento stesso in cui si rende conto che le parole sono soltanto un riflesso della realtà: che servono cioè a indicare le cose, gli oggetti, quindi intorno ai sei sette anni. E inizia a farlo scrivendo mentalmente i suoi futuri romanzi. A osservare il mondo dall'esterno pur standoci all'interno. Non ha bisogno di un'agendina.

9. Perché c'è oggi questa corsa a voler essere romanzieri? Per il semplice motivo che mai come oggi si era arrivati a essere talmente infatuati della propria immagine da convincersi non solo che si possano creare personaggi concreti senza essere veri romanzieri, ma che la propria vita valga veramente la pena di essere raccontata, cosa a cui un vero romanziere non ha mai creduto, nemmeno quando si chiama Proust, la cui vita ha avuto ai suoi occhi solo un'importanza relativa, utile a metterlo in contatto con ciò che doveva essere narrato.

10. Ho l'ispirazione, ho scritto un romanzo, e a chi me lo chiede potrei dire esattatemente come l'ho costruito. Sono un vero romanziere? No. Uno degli sceneggiatori del Grande sonno, avendo problemi con alcune parti del libro, prese a rincorrere Chandler da un albergo all'alltro del Nord America. Quando finalmente riuscì a beccarlo gli disse: "Senta, Chandler, c'è questa frase del suo romanzo, non capisco che vuole dire". E Chandler: "Ma cosa vuole che ne sappia, io ..."

11. Chiunque può diventare un vero romanziere? Si rileggano tutti i punti dall' 1 al 11 compreso.