venerdì 16 maggio 2014

Archiloco e il sesso sfrenato degli antichi. "Insospettato" multiculturalismo


sigillo cilindrico achemenide VI s. - Louvre


In un passo del profeta Ezechiele (23.20) si dice che Ooliba (dietro la quale si celerebbe Gerusalemme) aveva per amanti quegli uomini “la cui carne è quella degli asini e la cui alluvione è quella dei cavalli”.

L'ebraico ha:

אֲשֶׁ֤ר בְּשַׂר־חֲמוֹרִים֙ בְּשָׂרָ֔ם וְזִרְמַ֥ת סוּסִ֖ים זִרְמָתָֽ

(Asher bessar chmurim bessaram we zirmath susim zirmatham)

un passo che nella traduzione della CEI del 1974 e in quella del 2008 viene reso con:

arse di libidine per quegli amanti lussuriosi come asini, libidinosi come stalloni.

In realtà בְּשַׂר (bessar) non significa lussuria ma appunto carne, e in questo contesto avrà il significato di genitale, membro; lo stesso può dirsi di libidinosi, che non si avvicina neanche lontanamente al più poetico זִרְמַ֥ (zirma), più prossimo alla parlata popolare e che vale emissione, alluvione, in riferimento al seme: l’eiaculazione.

Appartiene, questo stile metaforico, a una koinè culturale che permea ancora nel VII e VI secolo tutta la Ionia e il più vicino Oriente: una comunanza multietnica di immagini e concetti di stampo popolare di cui discusse originariamente Martin West in un conciso e gustoso articolo apparso nel 1994 nella Zeischrift für Papirologie und Epigraphik, al quale fece seguire, a distanza di due anni, un volume dal titolo più che suggestivo: The East Face of Helicon. West Asiatic Elements in Greek Poetry and Myth, arricchito di una sostanziosa messe di dati e confronti tematici e lessicali. Un’indicazione metodologica che nonostante il prestigio dell’autore – sicuramente il maggior ellenista vivente - ha avuto mi pare scarsa risonanza negli ambienti accademici, impegnati a produrre sterili articoli carrieristici pieni di errori argomentativi e proposte e conclusioni spesso arbitrarie. L’originaria ipotesi di West aveva invece il carattere tipico di tutte le ipotesi che si rivelino in seguito fondate: la semplicità: una ipotesi formulata inizialmente sulla base di pochi semplici e ben scelti confronti di temi, di immagini ricorrenti in Archiloco e rintracciabili anche in aree linguistiche dell’Oriente più o meno prossime alla cultura ionica.

Al passo di Ezechiele si riallaccia ovviamente e immediatamente (non direttamente) il frammento 43 di Archiloco:

il suo cazzo
come quello di un asino di Priene
eiaculava come quello di uno stallone divoratore di biada

 ἡ δέ οἱ σάθη
 ὥστ' ὄνου Πριηνέως
κήλωνος ἐπλήμυρεν ὀτρυγηφάγου.

Erano due mondi, quello del vicino Oriente e dell’Egeo, necessariamente a stretto contatto di gomito (realtà, direi, sovrapponibili) e che quindi sfuggivano, si sottraevano, a segregazioni culturali di tipo regionalistico (elemento non dichiarato ma fondamentale dell’ipotesi di West): un universo molto meno ristretto e angusto di quanto non si riesca a ammettere se ci si limita a considerare - come fa la maggior parte degli editori di testi antichi - i fenomeni della poesia greca arcaica rinchiusi dentro un "ovvio" e poco concreto monoculturalismo (lo stesso che appare costantemente riflesso negli apparati di una qualsiasi edizione critica, anche recente, coi suoi inevitabili rimandi alle uniche fonti greche); non potevano invece non circolare, in una vastissima area geografica che andava dall’Iraq odierno alla Turchia alla Grecia, non solo idee ma detti, proverbi, immagini proprie della cultura popolare di una data regione e immediatamente assorbiti in un’altra, se pure non erano le stesse forme "straniere" a essere adottate, uno stesso lessico condiviso, come succede oggi con l'inglese. Si veda per esempio il frammento fiorentino di Ipponatte, a cui si appassionarono tra gli altri, negli anni Trenta del secolo scorso, Goffredo Coppola, Lavagnini e Giorgio Pasquali; un testo che al di là dei vari tentativi di ricostruzione, presenta all'interno di una scena da bassifondi del sesso (dove c'è spazio anche per il famigerato scarabeo sacro amante degli escrementi) un dialetto ionico inevitabilmente contaminato da espressioni e termini di uso comune e popolare nella Lidia di quei giorni. E basterebbe ancora pensare al proverbio sulla cagna frettolosa, che appare in un altro frammento di Archiloco indicato da West e ampiamente diffuso in culture tra le più apparentemente distanti linguisticamente. È in questo senso che, dando anche una semplice scorsa all'abbondante materiale raccolto da West nel suo libro del 1996, si possono ritenere oramai assolutamente improponibili analisi tematiche e valutazioni di fenomeni stilistici, fonetici, morfologici e sintattici della poesia greca arcaica (ma anche qualsiasi descrizione delle evoluzioni storiche del greco comune in uso in quei secoli nelle varie regioni dell'Ellade) che prescindano da questi fenomeni di globalizzazione culturale. Martin Litchfield West ha quindi dato il cosiddetto la: ha indicato una direzione non sterile ai futuri ellenisti e agli archeologi. Ovviamente le civiltà più arcaiche dominavano, culturalmente, sempre, a differenza di quanto avviene oggi (e mi ricordo uno studente canadese che seguiva un mio seminario sulla grammatica generativa, il quale non era mai stato in Italia e quando poi andò a Roma tornando a Londra mi disse, senza troppa convinzione: "I had a great time but everything looks old in Rome". In altre parole: Roma è bella, sì, ma tutto è così  vecchio!)

In un altro frammento di Archiloco (fr. 42) si legge, sempre a proposito di una donna:

ὥσπερ αὐλῶι βρῦτον ἢ Θρέϊξ ἀνὴρ
ἢ Φρὺξ ἔμυζε· κύβδα δ' ἦν πον<εο>μένη

alla maniera di un Trace o di un Frigio, per mezzo del flauto
la birra beveva. Piegata in avanti, lavorava così.

È immotivato pensare a fonti dirette per un grande poeta, eppure esisteva – e appaiono tracce già una decina di secoli prima di Archiloco nelle aree del più vicino Oriente -  un abbondante materiale iconografico su questo tema. È sempre la stessa immagine ripetuta con pochissime varianti: una donna che viene posseduta da dietro mentre è china a succhiare con una cannuccia da un recipiente.

Archiloco ha tuttavia, giustamente, rielaborato anche questa immagine, che continuava a essere comune ai suoi tempi. La donna, nel suo frammento, se anche sta bevendo la “birra” non usa però una cannuccia (kalamos): si dice che aveva in bocca un flauto (aulos). Il che rende inutile il recipiente, che giustamente non viene nominato. Il flauto (usato allora come ai nostri giorni a indicare il membro virile) e il vago riferimento alla birra bastano e avanzano. Sono in se stessi metafore più che sufficienti.

E dopo aver bevuto la birra, ovviamente qualcosa resta sulle labbra, come si legge in un altro suo frammento (44):

c’era molta schiuma sulla bocca

πολλὸς δ' ἀφρὸς ἦν περὶ στόμα.

Insomma Archiloco era uno che viveva in prima persona (non standosene in finestra) la materialità dell’esistenza e la rielaborava col talento di cui la natura era stata generosa, al di fuori di qualsiasi monoculturalismo o rarefazione poetica. Petrarca ad esempio non gli sarebbe piaciuto (avrebbe forse apprezzato una certa tecnica ma in quanto a immagini sublimizzate Petrarca sarebbe stato lontano mille miglia dal suo mondo; così come lontano da certa elevatezza poetica era Ipponatte. Avrebbero entrambi – Archiloco e Ipponatte - stretto alleanza col più realistico e prosastico e multiculturale Dante (e del cul fece trombetta) e avrebbero tutti e due apprezzato Catullo, il quale se anche ormai distante da quel vivificante multiculturalismo linguisitco non poteva non leggerli e apprezzarli, se non addirittura amarli; alcuni dei suoi epigrammi sono così artisticamene taglienti e crudi da lasciare ai destinatari pochissimo spazio per una replica. È il caso del carme 16:

In c. e in b. ve lo ficcherò
Aurelio sdolcinato e checca di un Furio
che mi ritenete un mezzo degenerato
per il fatto che  miei versi posseggono quel po’ di voluttà

Pedicabo ego vos et inrumabo
Aureli pathice et cinaede Furi,
qui me ex versiculis meis putastis,
quod sunt molliculi parum pudicum

E si potrebbe aggiungere il finale dell’epigramma immediatamente precedente (15), col quale Catullo affidava a questo stesso Aurelio un suo giovane innamorato e lo pregava di conservarglielo puro e casto e di non farsi venire cattive idee:

perché se la tua follia o la tua assurda passione
ti spingesse a commettere, maledetto, una cosa simile,
insidiare (in costui) la mia stessa persona
allora povero te quello che ti succede:
divaricate le gambe come una porta spalancata
ti ci ficcherò cefali e rafani.

 quod si te mala mens furorque vecors
in tantam impulerit, sceleste, culpam,
ut nostrum insidiis caput lacessas,
ah tum te miserum malique fati,
quem attractis pedibus patente porta
percurrent raphanique mugilesque!  


Dovevano appunto, questi versi di Catullo, essere all’altezza di quelli per cui su Archiloco si formò la nota leggenda secondo la quale Licambe e le due figlie, presi di mira dai suoi versi, si suicidarono dalla vergogna.

La fama di omofobo che Archiloco si sarebbe attirato (di cui scrive ancora qualche critico) è priva invece non tanto di riscontri testuali quanto di fondamenti storici. Era omofobo non più di quanto lo era Catullo nei versi citati. E queste categorie del presente – vedere manifestazioni omofobiche nell’antichità sul modello di quelle odierne – traggono alimento da due generi di considerazioni: prendere come morale diffusa le discussioni delle varie scuole filosofiche; e affidarsi alle tipiche rielaborazioni cristiane di questi ambienti. Il mondo ellenico del VII e VI secolo (abituato alla maggiore liberta sessuale dell'Oriente)  non conosceva la violenza dell’intolleranza e dell'apartheid sessuale tipiche dell’oggi; e la “notizia”, data in questi termini già nella tarda antichità, di questo "odio" di Archiloco per gli omosessuali, è velatamente capziosa e interessata; e viene, per quanto mi risulta, riferita soltanto dal cattolico Eusebio, con l’evidente scopo di portare acqua al suo mulino. Archiloco, al pari di Catullo, si limitava a prendere ciò che il linguaggio popolare (e non solo ellenico) offriva e a rielaborarlo per fini artistici. Esisteva indubbiamente, nel volgo, un linguaggio più offensivo, con cui attaccare di volta in volta un nemico. Ma si percepisce al massimo il sapore di una parola, di un sarcasmo. Cinedo è il termine principe, passato anche in latino (l’uomo che si vestiva, si depilava, si imbellettava come una donna). Tutta l’antichità ellenica (così come quella romana) è in fin dei conti ossessionata dal ruolo sessuale: attivo o passivo. Più che di omofobia quindi si potrebbe al massimo parlare di disprezzo per l’uomo che imita la femmina. La donna, nel rispetto che il concetto di proprietà privata e pubblica comportava, era considerata inferiore all’uomo in quanto ritenuta emotivamente più instabile:

ma fatevi forza,
via quell'abbattimento da femmine!

… ἀλλὰ τάχιστα
 τλῆτε, γυναικεῖον πένθος ἀπωσάμενοι (Archiloco, fr. 13, 9-10)

Si potrebbero citare anche Eschilo, Euripide, Aristofane, Demostene se solo ci fosse bisogno di dimostrare un concetto morale tanto ovvio parlando di quei tempi. Quello che è certo è che difficilmente si troverebbero riflesse nella letteratura e nella filosofia greche fino a Plutarco (i veri drammi iniziano con la fine del secolo successivo, quando il fanatismo cristiano si avvia a diventare sempre più religione di stato e si inizierà a toccare il fondo) rozze immagini di violenza, di criminale intolleranza ideologica e di gruppo, aggressioni agli omosessuali quali quelle alle quali si assiste oggi. Che si mettano quindi l'anima in pace i farisei delle arbitrarie interpretazioni. Oltre a chiamare (senza particolari conseguenze) un nemico cinedo i greci dei secoli di cui si è detto non andavano. D'altronde, ancora cento anni prima di Plutarco, i legionari di Cesare, in trionfo, nei loro canti, si permettevano di scherzare e chiamare il loro comandante supremo "la regina di Bitinia", per la nota storiella di Cesare che da ragazzo sarebbe finito nel letto del barbaro Nicomede, e soprattutto in un ruolo passivo. E Cesare si divertiva a ascoltarli.








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