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domenica 18 gennaio 2015

la matematica e il perdersi e il non ritrovarsi

... nella matematica preferisco perdermi, come in qualsiasi altra lingua - a che scopo ritrovarsi? ("non è tanto il perdersi", dice il principe di Foix nella Recherche a un presuntuoso avvocato ebreo (aveva fatto una stupida battuta dopo aver sentito dire che la sua carrozza s'era persa tre volte quella sera), "quanto il fatto che alla fine non ci si ritrova" - "qu'on ne se retrouve pas"). A che scopo perdersi se solo per ritrovarsi nell'illusione di aver conosciuto se stessi?... Preferisco il continuo movimento, una barca a vela quando c'è vento: l'immagine dell'Ulisse dantesco che coi suoi compagni si perde definitivamente oltre le colonne di Ercole. Una "canoscenza" non più del sé ma di ciò che va oltre il sé ...

giovedì 23 ottobre 2014

vecchiaia potere e sesso in Plutarco

Antonio Bellucci, Rinaldo e Armida

Venendo nel corso della sua opera a considerare la questione se l’uomo politico debba a un certo punto, con l’età, sottrarsi all’attività pubblica, se cioè la vecchiaia possa considerarsi un impedimento di natura all’esercizio dell’azione politica - per il fatto che l'uomo si dedicherebbe con più gusto ad altri piaceri (in primo luogo eros) - Plutarco, che affronta il problema da vecchio, lo esclude. E non solo perché è la vecchiaia a essere semmai di ostacolo a determinati piaceri. La ragione più vera è che l’uomo politico non può mai credere di poter venir meno al suo dovere etico.

Nel suo An seni respublica gerenda sit (se il vecchio debba occuparsi attivamente di politica) si serve, a esemplificazione del suo assunto, di due metafore politiche sicuramente topiche, insistenti, nell’antichità: quella dei marinai e quella di Eracle alla reggia di Onfale. La prima delle due immagini viene normalmente fraintesa: anzi non c'è mi pare traduttore che l’abbia resa correttamente. Il vecchio politico che lascia la vita politica per darsi unicamente ai sensi viene paragonato, da questi traduttori, a quei marinai che lasciano la nave prima ancora di giungere in porto. Basterebbe in realtà il semplice buon senso e un pizzico di intelligenza a indicare qui la giusta strada. Come potrebbero dei marinai abbandonare la nave prima ancora che la nave sia arrivata in porto? con delle scialuppe sulle quali concedersi ai letali riti di Afrodite, con l’aiuto magari di questa o quest’altra sirena accondiscendente? (e le sirene di Ulisse dopotutto potrebbero essere a loro volta nient’altro che una metafora proprio di questo, del sesso nudo e crudo, se l'isola nella quale albergano presuppone comunque il miraggio di un qualche porto, soprattutto trovandosi nei pressi di Scilla e Cariddi).

Dice in realtà e molto semplicemente Plutarco:

οκ οδα ποτέρ δυεν εκόνων ασχρν πρέπειν δόξει μλλον βίος ατο· πότερον
φροδίσια ναύταις γουσι πάντα τν λοιπν δη χρόνον οκ ν λιμένι τν ναν χουσιν λλ' τι πλέουσαν πολείπουσιν (785e)

... non so quale di due vergognose immagini si addica di più alla vita di un uomo simile: se quella di quei marinai che ancora in navigazione trascurano la nave invece di portarla al sicuro in porto e si dedicano per tutto il tempo  agli amori  ...”    

Quindi trascurano (πολείπουσιν), non abbandonano la nave, come viene sempre tradotto – e semmai abbandonano la nave a sé.

Il testo di Plutarco lascia giustamente pochissimo spazio a un tipo di immaginazione onirica (alla base di tanti film horror e di tanta narrativa da quattro soldi) a cui è abituato il lettore e spettatore moderno. Non è possibile osservare una nave che naviga con tutti i suoi marinai a bordo e un attimo dopo trovarla vuota. Dove sarebbero andati a finire tutti quanti? E se pure Plutarco avesse avuto un qualche interesse a distinguere le specie di eros, non avrebbe potuto farlo (φροδίσια), e anche a voler sviluppare ulteriormente una metafora che giustamente è stata appena accennata (la fortunata metafora della nave senza nocchiere) quegli amori sensuali sarebbero al massimo quelli nei quali il marinaio indulge a bordo, senza lasciare la nave: e c’è da immaginarsi prima di tutto con chi e a spese di quale parte del corpo; a meno che non si vogliano ipotizzare sulle navi antiche, triremi o da carico, bordelli con tanto di anziana maitresse, e donne imbarcate al solo scopo di rifocillare la ciurma, così come si imbarcano i viveri e tutto il necessario per la sopravvivenza in mare. D’altronde, se anche qui non c’è in Plutarco evidente ossessione classificatoria – amore omosessuale o eterosessuale – difficilmente una simile metafora risulterebbe incisiva senza una “concreta” esperienza visivo-immaginativa del lettore, lo scrittore che gli fa immaginare la scena, i bagordi, le bevute e la nave abbandonata a se stessa. Che è poi espediente narrativo - l’omissione - tipico di tutti i grandi autori che hanno superato la prova del tempo.

Ciò che invece qui conta è il fatto che questa immagine dell’abbandono del dovere tocchi e sfidi il concetto stesso di virilità al di fuori di un qualsiasi riferimento alla natura dell’amore e in direzione unicamente di un indebolimento dell’animo umano, del carattere maschile (l’amore omosessuale, o meglio l’amore per i ragazzi, non a caso non si trova mai opposto in Plutarco, in nessuna delle sue opere, a quello eterosessuale ma soltanto all’amore coniugale, e quindi al dovere - vedi il De amore e quanto ho scritto su questo; l’abbandono del proprio dovere viene qui identificato semplicemente con ciò che è vergognoso - ἐσχρόν - e tale immagine risulta ulteriormente ampliata e definita dall’altra che segue immediatamente, quella di un Eracle effeminato alla corte di Onfale:

καθάπερ νιοι τν ρακλέα παίζοντες οκ ε γράφουσιν ν μφάλης κροκωτοφόρον νδιδόντα Λυδας θεραπαινίσι ιπίζειν κα παραπλέκειν αυτόν.

“... oppure come ironizzano alcuni con Eracle, quando lo raffigurano nelle loro pitture poco presentabile, impaludato in lussuose vesti gialle e dedito e sottomesso a delle schiave lidie mentre si fa sventagliare e acconciare i capelli” (poco presentabile: traduco così, come il contesto richiede, οκ ε, riferito ovviamente a Eracle, non ai pittori - nelle Vite, nel Parallelo tra Demetrio e Marco Antonio, così come nel Teseo, non c’è nessuna condanna di questi pittori, come vuol far credere per esempio M. Cuvigny nella sua edizione del An Seni).

mercoledì 22 ottobre 2014

Ulisse contro Odisseo

Continuo a dire e scrivere Ulisse invece di Odisseo (come vorrebbe l'odierna vulgata dei ricercatori in attesa di passare almeno ad associati a novant'anni) per la semplice ragione che credo che i moderni istituti di filologia classica all'interno dei vari dipartimenti, con tutta la loro ridicola ossessione per la quantizzazione del lavoro intellettuale, abbiano in questo caso inventato l'acqua calda.

domenica 12 ottobre 2014

L'inferno della continuità

La continuità (così come il dettaglio) nuoce alla narrazione. Risulterebbe noioso e, oltre alle sorprese, toglierebbe al lettore (come una parete interminabile e senza porte) la possibilità di infilarci o anticipare qualcosa di suo, salvo ovviamente dover poi fare i conti con ciò che effettivamente sarà. Ma è il narratore il dominus:

ἔνθα τοι οὐκέτ' ἔπειτα διηνεκέως ἀγορεύσω,
ὁπποτέρῃ δή τοι ὁδὸς ἔσσεται (M, 56-57)

così Circe a Ulisse circa la strada che dovrà prendere una volta passato il luogo delle sirene.

διηνεκέως continuamente,  senza soluzione di continuità: vedi l’italiano dall’inizio alla fine

La continuità (o persistenza) è d’altronde un mito e un’illusione della percezione, la ragione per cui l’individuo, guardandosi allo specchio, continua a vedersi sempre uguale a tutte le età. Ma senza la rottura di questo mito della continuità non sarebbe possibile nessun romanzo: le psicologie dei personaggi resterebbero immobili dall’inizio alla fine, poca cosa per una storia che si svolga nell’arco di poche settimane ma insostenibile a lungo termine. Ancora, ovviamente, il panta rei di Eraclito.