Visualizzazione post con etichetta lavoro. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta lavoro. Mostra tutti i post

lunedì 10 novembre 2014

"figli cambiali" e il teatro antico

Si dice che i figli sono come cambiali. Le cambiali si usano poco, oggi, ma il senso resta. E tutta la storia dell'umanità occidentale apparirà costellata di padri che si lamentano dei figli: dei figli che non hanno pensieri, che dormono i proverbiali sette sonni e che poltriscono a letto fino a tardi - e almeno il sabato e la domenica le cose ancora oggi non vanno diversamente che nell'antichità .

Così in Chionide - secondo Aristotele uno degli iniziatori della commedia attica - un padre porta come buon esempio al figlio tutti quegli altri ragazzi che corrono ad arruolarsi: 

πολλοὺς ἐγᾦδα κοὐ κατὰ σὲ νεανίας 
φρουροῦντας ἀτεχνῶς κἀν σάμακι κοιμωμένους. (fr. 1)

ne conosco di ragazzi che al contrario di te 
fanno semplicemente buona guardia e che come letto hanno una stuoia. 

E così ancora Aristofane una sessantina d'anni dopo, nel grandioso inizio delle Nuvole: Strepsiade che si sveglia spesso la notte col pensiero dei debiti, mentre il figlio, nella stessa stanza, dorme tranquillo, e sogna e parla nel sonno di cavalli e corse, sogna lo stadio:

ἀλλ΄ οὐδ΄ χρηστὸς οὑτοσὶ νεανίας
ἐγείρεται τῆς νυκτός͵ ἀλλὰ πέρδεται
ἐν πέντε σισύραις ἐγκεκορδυλημένος. (8-10) 

ma nemmeno questo santarello di mio figlio
si sveglia la notte e anzi non fa che scorreggiare
tutto avvolto in cinque coperte di lana. 

Non alcune coperte ma cinque: interessato com'è giustamente al borsellino, ai conti di casa.

Come il topos della misoginia - per cui vedi quanto ho scritto sul punto - anche questo dei padri che si lamentano dei figli e nello stesso tempo cercano di tenerseli buoni doveva suscitare in teatro il riso a partire da una situazione che lo spettatore conosceva in famiglia, e da un ben congeniato contrasto di ruoli sulla scena. In effetti Fidippide (con un nome del genere "messogli dalla madre" avrebbe potuto amare soltanto i costosi cavalli) a un certo punto si sveglia anche lui e rimbrotta il padre che non lo lascia dormire. Molto, ovviamente, come sempre, era dovuto all'abilità degli attori.












giovedì 24 luglio 2014

Il piacere della creatura e l'invidia del Creatore



“I feel so miserable!”, cioè: “sto veramente giù!”.

Sarebbe difficile trovare un inglese della classe media che si esprima pubblicamente in questo modo – lo farebbe con un amico, con un familiare (vedi ciò che ho scritto su un certo atteggiamento marziale dell’inglese oggi in tema di esternazione di sentimenti). Non lo direbbe. Quasi a nascondere il suo malessere al Creatore (che in regime anglicano e in genere protestante ha orecchie soltanto quando si parla in pubblico). Insomma, la paura che il Creatore, invidioso, tolga pure questo minimo di sofferenza che è stata concessa alla creature.

Uno stesso ragionamento per esempio in Simone Weil:

Il segno che il lavoro – quando non è inumano – ha un senso per noi, è il piacere che se ne ricava, un piacere che non stanca mai ...
   Gli operai non confessano volentieri questo piacere – perché hanno l'impressione che confessandolo rischierebbero di vedersi diminuito il salario! (Cahiers I)

Per quanto ingenuo, ancor prima che ironico, suoni tale riferimento al piacere dell'operaio – come convincere il minatore africano che il buio della miniera di diamanti, i quali forse ricordano le stelle, è preferibile alla luce del sole se non convincendolo che il paradosso è il segno della sua condizione ideale? – ma basterebbe osservare la rabbia urlata dai lavoratori in mobilità e cassa intehrazione in deroga a piazza Montecitorio, da due anni quasi senza stipendio e senza lavoro, e immaginare la felicità che si stamperebbe improvvisamente sulle loro facce all’annuncio che possono finalmente tornare a lavorare in condizioni di schiavitù perfino superiori alle precedenti, basterebbe questo piccolo annuncio per togliere ogni possibile ironia all’aforisma della Weil e riconoscerne la disarmante giustezza.