“I feel so miserable!”, cioè: “sto veramente giù!”.
Sarebbe
difficile trovare un inglese della classe media che si esprima pubblicamente in questo modo – lo farebbe con un amico,
con un familiare (vedi ciò che ho scritto su un certo atteggiamento marziale dell’inglese oggi in tema di esternazione di sentimenti).
Non lo direbbe. Quasi a nascondere il suo malessere al Creatore (che in regime anglicano e in genere protestante ha orecchie soltanto quando si parla in pubblico). Insomma, la paura che il
Creatore, invidioso, tolga pure questo minimo di sofferenza che è stata concessa alla
creature.
Uno stesso ragionamento per esempio in Simone Weil:
Il segno che il
lavoro – quando non è inumano – ha un senso
per noi, è il piacere che se ne ricava, un piacere che non stanca mai ...
Gli operai non confessano volentieri questo piacere – perché hanno l'impressione che confessandolo rischierebbero di vedersi diminuito il salario! (Cahiers I)
Per quanto ingenuo, ancor prima che ironico, suoni tale riferimento al piacere dell'operaio – come convincere il minatore africano che il
buio della miniera di diamanti, i quali forse ricordano le stelle, è preferibile alla luce del sole se non
convincendolo che il paradosso è il segno della sua condizione ideale? – ma
basterebbe osservare la rabbia urlata dai lavoratori in mobilità e cassa intehrazione in deroga a piazza Montecitorio, da due anni quasi senza stipendio e senza lavoro, e immaginare la
felicità che si stamperebbe improvvisamente sulle loro facce all’annuncio che
possono finalmente tornare a lavorare in condizioni di schiavitù perfino superiori
alle precedenti, basterebbe questo piccolo annuncio per togliere ogni
possibile ironia all’aforisma della Weil e riconoscerne la disarmante giustezza.
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