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lunedì 27 ottobre 2014

L'uomo perfetto e l'obsolescenza di Dio.

L'uomo perfetto, secondo Aristotele, non esiste. E non so nemmeno a chi interesserebbe quest'uomo perfetto se anche esistesse. Vedi pure la nozione di onestà e il dramma di Pirandello, che sposta il discorso al campo dell'etica. Esistono oggetti in ogni tempo considerati perfetti, che dovrebbero essere un riflesso della tendenza dell'uomo a interagire all'interno di un processo limitatizzante, per senso di compiutezza (perficio), o, che è lo stesso, della sua impossibilità a interagire all'esterno di tale processo. D'altro canto la perfezione di un oggetto, a cui la tecnica in ogni tempo mira, è in contraddizione con l'esistenza stessa della tecnica. Oggi un oggetto è considerato perfetto e nello stesso tempo deve avere un grado di obsolescenza elevatissimo, pena la morte della tecnologia, la chiusura delle fabbriche eccetera. La perfezione è quindi tanto più un mito, un inganno ideologico, quanto più si cerca di spacciarla per possibile, anzi realizzata. Questo ragionamento può applicarsi a qualsiasi settore dell'azione umana, e non soltanto all'azione ma anche alla contemplazione, dove la durata della visione di Dio si riduce a un tempo non infinitesimo ma minimo se il concetto di visione e quindi di narrazione (o auto-narrazione) indica durata. Il che toglie ogni valore che non sia propagandistico all'esperienza mistica, a meno che non la si voglia chiamare esperienza della massima obsolescenza di Dio. Vedi anche quanto detto nell'Inganno dell'ascesi e in Tempo divino e tempo umano.

giovedì 23 ottobre 2014

vecchiaia potere e sesso in Plutarco

Antonio Bellucci, Rinaldo e Armida

Venendo nel corso della sua opera a considerare la questione se l’uomo politico debba a un certo punto, con l’età, sottrarsi all’attività pubblica, se cioè la vecchiaia possa considerarsi un impedimento di natura all’esercizio dell’azione politica - per il fatto che l'uomo si dedicherebbe con più gusto ad altri piaceri (in primo luogo eros) - Plutarco, che affronta il problema da vecchio, lo esclude. E non solo perché è la vecchiaia a essere semmai di ostacolo a determinati piaceri. La ragione più vera è che l’uomo politico non può mai credere di poter venir meno al suo dovere etico.

Nel suo An seni respublica gerenda sit (se il vecchio debba occuparsi attivamente di politica) si serve, a esemplificazione del suo assunto, di due metafore politiche sicuramente topiche, insistenti, nell’antichità: quella dei marinai e quella di Eracle alla reggia di Onfale. La prima delle due immagini viene normalmente fraintesa: anzi non c'è mi pare traduttore che l’abbia resa correttamente. Il vecchio politico che lascia la vita politica per darsi unicamente ai sensi viene paragonato, da questi traduttori, a quei marinai che lasciano la nave prima ancora di giungere in porto. Basterebbe in realtà il semplice buon senso e un pizzico di intelligenza a indicare qui la giusta strada. Come potrebbero dei marinai abbandonare la nave prima ancora che la nave sia arrivata in porto? con delle scialuppe sulle quali concedersi ai letali riti di Afrodite, con l’aiuto magari di questa o quest’altra sirena accondiscendente? (e le sirene di Ulisse dopotutto potrebbero essere a loro volta nient’altro che una metafora proprio di questo, del sesso nudo e crudo, se l'isola nella quale albergano presuppone comunque il miraggio di un qualche porto, soprattutto trovandosi nei pressi di Scilla e Cariddi).

Dice in realtà e molto semplicemente Plutarco:

οκ οδα ποτέρ δυεν εκόνων ασχρν πρέπειν δόξει μλλον βίος ατο· πότερον
φροδίσια ναύταις γουσι πάντα τν λοιπν δη χρόνον οκ ν λιμένι τν ναν χουσιν λλ' τι πλέουσαν πολείπουσιν (785e)

... non so quale di due vergognose immagini si addica di più alla vita di un uomo simile: se quella di quei marinai che ancora in navigazione trascurano la nave invece di portarla al sicuro in porto e si dedicano per tutto il tempo  agli amori  ...”    

Quindi trascurano (πολείπουσιν), non abbandonano la nave, come viene sempre tradotto – e semmai abbandonano la nave a sé.

Il testo di Plutarco lascia giustamente pochissimo spazio a un tipo di immaginazione onirica (alla base di tanti film horror e di tanta narrativa da quattro soldi) a cui è abituato il lettore e spettatore moderno. Non è possibile osservare una nave che naviga con tutti i suoi marinai a bordo e un attimo dopo trovarla vuota. Dove sarebbero andati a finire tutti quanti? E se pure Plutarco avesse avuto un qualche interesse a distinguere le specie di eros, non avrebbe potuto farlo (φροδίσια), e anche a voler sviluppare ulteriormente una metafora che giustamente è stata appena accennata (la fortunata metafora della nave senza nocchiere) quegli amori sensuali sarebbero al massimo quelli nei quali il marinaio indulge a bordo, senza lasciare la nave: e c’è da immaginarsi prima di tutto con chi e a spese di quale parte del corpo; a meno che non si vogliano ipotizzare sulle navi antiche, triremi o da carico, bordelli con tanto di anziana maitresse, e donne imbarcate al solo scopo di rifocillare la ciurma, così come si imbarcano i viveri e tutto il necessario per la sopravvivenza in mare. D’altronde, se anche qui non c’è in Plutarco evidente ossessione classificatoria – amore omosessuale o eterosessuale – difficilmente una simile metafora risulterebbe incisiva senza una “concreta” esperienza visivo-immaginativa del lettore, lo scrittore che gli fa immaginare la scena, i bagordi, le bevute e la nave abbandonata a se stessa. Che è poi espediente narrativo - l’omissione - tipico di tutti i grandi autori che hanno superato la prova del tempo.

Ciò che invece qui conta è il fatto che questa immagine dell’abbandono del dovere tocchi e sfidi il concetto stesso di virilità al di fuori di un qualsiasi riferimento alla natura dell’amore e in direzione unicamente di un indebolimento dell’animo umano, del carattere maschile (l’amore omosessuale, o meglio l’amore per i ragazzi, non a caso non si trova mai opposto in Plutarco, in nessuna delle sue opere, a quello eterosessuale ma soltanto all’amore coniugale, e quindi al dovere - vedi il De amore e quanto ho scritto su questo; l’abbandono del proprio dovere viene qui identificato semplicemente con ciò che è vergognoso - ἐσχρόν - e tale immagine risulta ulteriormente ampliata e definita dall’altra che segue immediatamente, quella di un Eracle effeminato alla corte di Onfale:

καθάπερ νιοι τν ρακλέα παίζοντες οκ ε γράφουσιν ν μφάλης κροκωτοφόρον νδιδόντα Λυδας θεραπαινίσι ιπίζειν κα παραπλέκειν αυτόν.

“... oppure come ironizzano alcuni con Eracle, quando lo raffigurano nelle loro pitture poco presentabile, impaludato in lussuose vesti gialle e dedito e sottomesso a delle schiave lidie mentre si fa sventagliare e acconciare i capelli” (poco presentabile: traduco così, come il contesto richiede, οκ ε, riferito ovviamente a Eracle, non ai pittori - nelle Vite, nel Parallelo tra Demetrio e Marco Antonio, così come nel Teseo, non c’è nessuna condanna di questi pittori, come vuol far credere per esempio M. Cuvigny nella sua edizione del An Seni).

martedì 21 ottobre 2014

i notebook inesistenti di Plutarco e Montaigne

Plutarco è forse l’autore dell’antichità che più di altri ha conosciuto una durevole, invidiabile e per certi versi inattaccabile fortuna (il Plutarco morale più che quello delle Vite), e in misura così eccelsa che perfino gli dei avrebbero di che lamentarsi; delle circa 250 opere che gli si attribuiscono ne restano un terzo, un numero ugualmente enorme per un autore antico. Non desta quindi meraviglia il fatto che, soprattutto a partire da una critica per così dire più “positivista”, gli siano state lanciate contro accuse (che hanno e avrebbero avuto in realtà poco senso per l’estetica antica, a meno che non si fosse trattato di ulteriormente screditare scrittorucoli dell’ultima ora) di blando riciclaggio e riutilizzo di materiali non suoi – vedi la Quellenforschung all’inizio del Novecento, secondo la quale mancava a Plutarco capacità creativa nel trattamento delle fonti; o i tentativi di smontarne l’opera per mezzo di quello strumento critico detto dei clusters of parallel passages, elaborato dalla Scuola di Lovanio negli anni Novanta sempre del secolo scorso (soprattutto da Luc van der Stockt e van Meirvenne, ripreso ancora da Verdegem), in altri termini di moduli che si ripeterebbero da un’opera all’altra e risalenti a un ipotetico “notebook” nel quale confluiva materiale che sarebbe potuto risultare utile per le opere a venire – strumento critico d’altronde di gran successo se viene tuttora testato su questa o quest’altra opera anche al di fuori della Scuola di Lovanio – e vedi anche un più recente lavoro sulla tecnica compositiva di Plutarco – con varie forzature - di Sophia Xenophontos (American Journal of Pilology, 133, 1 2012, pp. 61-91). E tuttavia, pur prendendo atto di alcune bellezze del gioco, alla fine si resta sempre incerti di fronte a tante certezze fondate sul nulla e bisognerà forse allora chiedersi se al di là degli entusiasmi dei dipartimenti universitari per l’uno o l’altro strumento interpretativo non abbia senso indagare in primo luogo le ragioni "vere" della incontrastata quasi bi-millenaria fortuna di questo autore, che in fondo scrisse semplicemente di morale, ossia di costumi, in uno stile tra i più elaborati di quell'epoca. Che è lo stesso che faceva un autore che citava ampiamente Plutarco - Montaigne, ugualmente accusato di saccheggiare a destra e a sinistra. E si troverebbe che in realtà questi due autori lessero, raccolsero materiale, e soprattutto provarono piacere (che è sempre un fatto stilistico e potentemente personale e già meno oggettivo) nel comporre e a volte ricomporre (cioè mettere insieme quasi musivamente senza che questo debba comportare una blanda ricopiatura o plagio o mancata riflessione) le tante tessere etiche o morali strappate alle loro letture-ricerche e ai loro ricordi – i due condividono non a caso anche un gusto della descrizione di ineliminabili tensioni autobiografiche:

ἀνελεξάμην περὶ εὐθυμίας ἐκ τῶν ὑπομνημάτων ὧν ἐμαυθῷ πεποιημένος ἐτύγχανον (Plu., De tranquillitate animi, 464f)

Ho scelto sulla tranquillità dell’animo dai ricordi di ciò che facevo con me stesso

e così anche Montaigne, già nell'avvertenza al lettore, è alquanto esplicito: i suoi saggi non sono altro che uno strumento offerto alla comodità di parenti e amici, che vi ritroveranno un giorno alcuni aspetti dei suoi stati e umori:

... à ce que m'ayant perdu (ce qu'ils ont à faire bien tost) il y puissent retrouver aucun traits de mes conditions et humeurs ...

Ovviamente non c’è nulla nel famoso passo del De tranquillitate animi che dica che questi ὑπομνήματα fossero note scritte, che fosse esistito una sorta di diario o serie di appunti – anche se sicuramente sarà ipotizzabile in una qualche misura; ma non al punto da farne, senza prove, una presenza così ossessivamente vera nei dipartimenti universitari, un oggetto perduto per sempre e quasi di culto (“but unfortunately they are lost”, Xenophontos; la quale Xenophontos poi è la prima a riconoscere che forse, come ritiene di aver spiegato, non è tanto questione di un “notebook” inteso come contenitore di patchworks, di materiale grezzo o semplici collezioni di elementi, quanto piuttosto di un insieme di bozze comportanti già una sorta di composizione e rielaborazione di dati tratti dalle sue fonti). 

venerdì 27 giugno 2014

Il gioco del perché. Nota su Wittgenstein etico




La spiegazione scientifica è una tautologia. Non chiarisce assolutamente niente che non sia già osservabile nell'evento correttamente descritto; rende al massimo ragione, quantitativamente, di certi rapporti, permette attraverso una formula di misurarli. Ossessionata in effetti la scienza dall’eliminazione del garante esterno, di Dio, e dalla fuga della coscienza dalla trascendenza, e dovendo ripiegare su se stessa, servirsi soltanto degli elementi che costituiscono il fenomeno, che altro può fare se non spiegare il fenomeno attraverso il fenomeno stesso e incappare in un così elementare circolo vizioso che vedrebbe pure un bambino? la tanto ventilata oggettività va a farsi friggere, se è vero che per produrre oggettività, per definzione, c’è bisogno che gli elementi di un fenomeno siano osservati dall’esterno, ob-iectata, ripetutamente gettati davanti a sé, bisogna che non si auto-descrivano, che non siano autorefenziali, che non trovino riferimento necessario e sufficiente in se stessi. Dal che è anche ovvio, che chiunque si vanti di possedere una vera oggettività, non fa che introdurre, di necessità, un elemento trascendente all’oggetto osservato, cioè se stesso. In altri termini, quell’assoluto che vorrebbe negare

Inoltre, come dice Wittgenstein (che però mi pare non si accorge di cadere lui stesso nell’errore che critica) nelle sue Note sul Ramo d’oro di Frazer, è una qualsiasi spiegazione (non solo in ambito scientifico) a essere superflua e quindi inutile.

“Ich glaube dass das Unternehmen einer Erklaerung  schon darum verfehlt ist, weil man nur richtig susammenstellen muss, was man weiss, und nichts dazusetzen, und die Befriedigung, die durch die Erklaerung angestrebt wird, ergibt sich von selbst”.

"Credo che l’impresa di dare una spiegazione è già per questo motivo sbagliata, perché bisogna comporre soltanto ciò che si sa, e non aggiungere altro, di modo che la soddisfazione che si cerca tramite la spiegazione, si dia da sé".

Insomma Wittgestein, seguendo se stesso, avrebbe dovuto limitarsi al solo enunciato: ogni spiegazione è sbagliata, "non aggiungere altro", non dare nessuna spiegazione.

In più, la spiegazione, a differenza della composizione corretta degli elementi che di un fenomeno si conoscono e del semplice prenderne atto, non dà nessuna soddisfazione, e questo è tanto vero che fin dalla notte dei tempi il bambino non si ferma mai a un primo perché ma inizia a filare un'infinita interminabile catena. Il bambino domanda: perché, papà, questo fa questo? E il padre: perché è così e così. E il bambino: e perché è così e così?, e il padre: perché è collì e collì. E il bambino: e perché è collì e collì? E il padre: perché è collà e collà. E si andrebbe avanti veramente all’infinito se il padre a un certo punto non si mettesse a urlare.  Il meccanismo è ovvio: la spiegazione, ad ogni gradino ("every step of the way will find us with the cares of the world far behind us", dice la voce innamorata di Louis Armstrong), lascia il bambino insoddisfatto. Soltanto quando il bambino avrà un quadro più completo, una composizione degli elementi acquisiti, a quel punto (si spera) sarà adulto, non avrà più voglia di fare domande, gli basterà quello che vede, troverà fastidioso che gli si chieda il perché di qualcosa e ancora più fastidiose e inutili le risposte. Ma toccherà a lui, a quel punto, rispondere al figlio. Prendere nuovamente parte, a ruoli invertiti, al gioco perpetuo del perché.

giovedì 5 giugno 2014

il cane filosofo. dal cinismo alle monadi informatiche






Non credo possa esistere un animale più maschio e filosofo del cane (anche e forse soprattutto quando è un esemplare femmina); e come ho già detto altrove, lo Zibaldone di pensieri inizia non a caso con l’immagine di un cane che

domenica 25 maggio 2014

Le due mani destre. Misteri della tolleranza


Giotto, La Carità


 Tolleranza è un termine che dopotutto non mi appartiene, nonostante ogni tanto ne faccia uso. Non perché io sia intollerante o non sia di manica larga (weites Gewissen, si direbbe in tedesco, espressione che non a caso significa anche senza scrupoli) ma perché certe affermazioni, il proclamare coram populo che si è così o così (tipico per esempio dei politici), sono sempre sospette. Che è un po’ quello che fa osservare il barone di Charlus al giovane Narratore sulla

lunedì 21 ottobre 2013

ti faccio un organum tanto! Aristotele vs Platone?.

Non so se Alessandro di Afrodisia raccogliendo le varie opere di logica di Aristotele e chiamandole nel loro insieme Organon pensasse già allora a ciò che si intende comunemente oggi quando si dice: ti faccio un organo tanto!, con gli indici e i pollici ravvicinati a descrivere quell'ampio e ben motivato anello; se cioè intendesse mettere in guardia i

domenica 6 ottobre 2013

religione, morale e psicosi


Il fatto che in uno dei suoi pensieri Pascal faccia una certa confusione quando attribuisce a Montaigne una cosa che Montaigne non ha mai detto - che  la consuetudine vada