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giovedì 10 luglio 2014

Il caso Canella-Bruneri, il dna e gli occhi di Sciascia


Lo smemorato in manicomio e foto segnaletica di Bruneri


Sembra che ci credano. I giornali, voglio dire. Credono al dna come prova definitiva di qualcosa. Sarebbe interessante vedere questi cronisti, freschi di laurea (li si può ancora immaginare a farsela sotto nelle varie sessioni d'esame) sarebbe interessante, visto che hanno tutto il tempo e i mezzi che offre un grande giornale, una televisione, vederli domandare, almeno una volta nella loro vita, a questi cosiddetti "scienziati" (in realtà non sono altro che tecnici) se sia possibile da un semplice peto ricavare il dna di un individuo, o se invece la puzza non sia - come per il dna - già personalizzata e tipica, differente da persona a persona e da caso a caso, e se non siano quindi soldi sprecati quelli investiti in ricerche simili se dopotutto lo scopo è riconoscere semplicemente chi l'ha fatta, chi ha offeso le povere narici del prossimo, sull'autobus o su un treno della metropolitana, o anche in ascensore, chiunque l'abbia usato un attimo prima, e che come lo struzzo, contando sulle carenze della scienza, l'ha mollata.

Così il caso Bruneri-Canella, di cui i giornali oggi dopo ottant'anni, e dopo che Sciascia aveva già

martedì 24 giugno 2014

Vasi comunicanti. Scienza e tremore in corte d'assise







Quando si gestisce la cosiddetta azione penale, in particolare in fase istruttoria, cioè in quei momenti durante i quali col codice di procedura alla mano gli inquirenti raccolgono prove che il pubblico ministero poi utilizzerà per chiedere il rinvio a giudizio (le stesse che serviranno eventualmente in aula contro la difesa), non dovrebbero certo essere gli  indizi a corroborare le lacune della scienza, semmai il contrario. In entrambi i casi è evidente che in un qualsiasi processo indiziario non ci sono e non ci saranno mai certezze. Dire che il tale test del dna, se anche contiene un elemento di errore non può lasciare dubbi all'accusa in quanto ci sono poi gli altri indizi a corroborarne la validità, non significa altro se non che tale conclusione fa, sul piano formale, acqua e arriva al massimo a dimostrare uno spaparacchiato pressappoco, quel pressappochismo di cui gli italiani sono maestri nel mondo (il colpevole è pressappoco questo ... il colpevole è “praticamente” questo - vedi il mio post precedente).

La questione può essere anche facilmente (ac)quantizzata, cioè allegata come somma. Se la probabilità che  un certo indagato non sia l’autore di un reato è zero virgola zero zero zero zero zero zero zero zero qualcosa e se perciò non esiste "assoluta certezza" (il dire “assoluta certezza” è già una boiata logica e se ci fosse veramente certezza non si capisce per quale ragione venga fornito un margine di errore, infinitesimale quanto si voglia) e se gli indizi ugualmente per loro natura concorrono allo stesso modo con degli zero qualcosa, allora sommando tutti questi zeri, lo zero della “prova scientifica” e gli zeri degli indizi, il risultato è sempre zero. Zero più zero fa ancora zero, anche se fa qualcosa

Il colpo definitivo ai fenomeni di malafede della scienza, alle tanto sventagliate “certezze” della scienza (che dal momento che vengono platealmente ostentate non sono per niente certezze), arriva poi dalla confessione dell’indagato, che alla fine, stanco di lottare, dice: sì, sono stato io! In effetti la sicumera dei sacerdoti  e apostoli della scienza e della prova scientifica è tale che anche in questo caso, in cui la scienza non ha avuto nessun merito, non esiterebbero a rivoltare la frittata di uova di struzzo e a considerare la confessione (da cui stranamente proviene attestato di certezza alla prova scientifica) non come prova della “fasullita” del concetto di certezza scientifica ma come dimostrazione che la prova scientifica era "così" certa da far tremare perfino l'indagato, da costringerlo a confessare.