sabato 28 settembre 2013

Pascal e la metafora sbagliata


"Qu'on s'imagine un nombre d'hommes dans les chaînes, et tous condamnés à la mort, dont les uns étant chaque jour égorgés à la vue des autres, ceux qui restent voient leur propre condition dans celle de leurs semblables, et, se regardant les uns les autres avec douleur et sans espérance, attendent leur tour. C'est l'image de la condition des hommes".

In questo pensiero di Pascal la metafora usata non è giusta. O meglio: è vera solo parzialmente. La descrizione della condizione di un’umanità che

l'inferno

Scrive Wittgenstein in un pensiero del 1937 (Vermischte Bemerkungen) che "in un singolo giorno si possono vivere i terrori dell'inferno: il tempo è più che sufficiente". E tuttavia questo lungo giorno di cui parla Wittgenstein può essere ridotto della metà, e poi ancora della metà, fino all'infinitamente picccolo, e in quell'infinitamente piccolo istante il terrore dell'inferno può essere ugualmente provato per un tempo infinito. Così come mi è accaduto un giorno in aereo durante un apparentemente tranquillo decollo, quando a un qualche centinaio di metri dal suolo l'aereo ha cominciato paurosamente e perdere quota a causa di una depressurizzazione. Un  incidente di cui ricordo solo il terrore di una delle hostess seduta a pochi metri dalla cabina passeggeri che stringeva convulsa il braccio del collega. E ricordo il libro dal quale avevo immediatamente alzato gli occhi, una vecchia edizione del Contrat de mariage di Balzac. Lo misi semplicemente sul sedile accanto e pensai pietrificato: "è così, allora?"    

venerdì 27 settembre 2013

il mulino italiano dalle orecchie d'asino

Sarà interessante vedere se l'invito a boicottare la Barilla e il Mulino Bianco per i commenti non troppo intelligenti del suo "proprietario" sul non valore tradizionale delle famiglie gay avrà trovato risposta in termini di perdite. E un cliente in meno comunque ce l'hanno. Se la Barilla era in effetti una delle mie marche di pasta preferite, da domani non lo sarà più, e non per solidarietà col mondo gay, anche se ovviamente sono solidale sempre e in ogni maniera e quindi per partito preso, nel senso che l’omofobia mi suscita immancabilmente, ogni volta che ne scorgo anche soltanto le più velate e inconfondibili tracce di dinamiche fasciste, immediati conati di vomito - e sono irriducibilmente anche favorevole alle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso - ma non comprerò più la pasta Barilla per una semplice considerazione di buon senso. Perché in regime di mercato, e con la forza di mobilitazione di cui dispongono oggi i social network e il concetto di solidarietà che li caratterizza e che caratterizza soprattutto le ultime generazioni, un amministratore delegato o proprietario di un’azienda che si permette di fare considerazioni controriformistiche e da Concilio Tridentino, e mette a rischio il posto di migliaia di dipendenti, si merita semplicemente di essere mandato a casa il più presto possibile, e se non proprio nella forma di un commissariamento dell’azienda, quantomeno perché il mercato gli ha notificato che è una persona che non ci capisce assolutamente niente di come funziona il mondo oggi.

giovedì 26 settembre 2013

Storia del mondo in mezza pagina. Se la donna dicesse "no".


Se per un eccesso di barbarie tutte le acquisizioni tecnologiche e intellettuali venissero di colpo abolite e l’uomo e la donna si ritrovassero al semplice stato di natura e a non avere come unico possesso se non se stessi, che altro potrebbe ancora succedere? Per parecchio tempo

L'inferno sono gli altri

Convinzione di Plinio della non esistenza dell'aldilà e della vanità delle tante dottrine che invece lo presuppongono. At qanto facilius certiusque sibi quemque credere, specimen securitatis antigenitali sumere experimento (quanto più semplice e più sicuro che ognuno creda a se stesso e che prenda come prova di un assoluto stato di quiete ciò che sperimenta prima di nascere). Detto ironicamente. Securitas ha qui il senso di tranquillità, di quiete, anche se all'inizio mi faceva pensare all'idea di certezza, garanzia di certezza (di un ragionare corretto). Ma ciò che precede nello stesso paragrafo, un riferimento diretto alla quiete, all'immobilità, a cui dovrebbe tendere con la morte la natura umana me lo fa escludere. 

se l'anima proprio non esiste

E' difficile pensare che un convinto sostenitore di quell'insanabile dualismo cartesiano tra cosa pensante e materia corporea quale fu Nicolas Malebranche, il maggiore rappresentante dell'Occasionalismo e di quella teoria dell'impossibilità di un qualsiasi collegamento fisiologico e potere diretto, che pure Cartesio ammetteva, dell'anima sulla materia (e sarebbe invece il corpo, secondo Malebranche, a influire negativamente sull'anima e a ostacolare tramite i sensi i disegni di Dio, il solo ente in grado di guidare il corpo), riuscisse anche solo lontanamente a apprezzare l'opera di uno scettico dichiarato quale era Montaigne. Non è quindi un caso che tenti di smontarlo in uno dei capitoli della Connaissance de la verité, e che quasi un secolo dopo l'apparizione degli Essais gliene dica di tutti i colori e lo consideri un pedante della peggiore specie. Semplicemente Montaigne negando tout court l'esistenza dell'anima toglieva ogni giustificazione a quell'idea di rifugio che la congregazione dell'Oratorio di Gesù e Maria immacolata di Francia era per Malebranche: il giusto ambiente per il raccogliemento della sua anima e quindi, che è poi ciò che più conta, per la "concentrazione del suo pensiero", secondo un'espressione usata da un teologo contemporaneo. 

lunedì 23 settembre 2013

Illogicismo del logicismo



Esempio di errata argomentazione (proposta in ambito accademico): “Mais leur conclusion générale (di Münzer e Rabenhorst) paraît aquise: en effet, si Pline  ne s’était pas inspiré d’un ouvrage encyclopédique, comment porrait-on s’expliquer que le même groupe d’observations se retrouve chez Valère Maxime, qui dépend visiblement de la même source?

Non si contesta la possibilità che Plinio per il settimo libro della sua Naturalis Historia attinga anche (e non solo) da una raccolta enciclopedica; ciò che non torna, delle conclusioni di questo studioso, è come si possa dedurre dal fatto che Valerio Massimo dipende visibilmente da una stessa fonte (di Plinio) che questa fonte sia una raccolta enciclopedica. Al più, sulla base di questo rilevato parallelismo, si potrà ipotizzare una fonte comune. Ma li ci si ferma. Difatti, per il gruppo di osservazioni in questione la fonte di  Valerio Massimo non si conosce. Né ovviamente la conosceva chi ha dedicato interi libri a questa ridicola ipotesi di una fonte unica (enciclopedica) di Plinio (i lavori di Münzer e Rabenhorst).

È curioso che una tale illogicità argomentativa venga proposta da un francese in francese, una lingua che si è sempre piccata di essere la più logica delle lingue (mito peraltro tutto francese).

domenica 22 settembre 2013

solo la donna è sempre donna. cinema e sguardo abusivo


Esiste una genia di registi uomini che sfrutta ancora il concetto della donna pupazzo dei divertimenti e degli arrapamenti del maschio frustrato. È un’immagine vecchia come il mondo e potrebbe tranquillamente essere considerata un capitolo di quello studio che Germaine Greer ha intitolato L’eunuco femmina, la donna cioè feticcio. Si veda per esempio il terzo film della serie Alien, nel quale un modulo di salvataggio della nave spaziale USS Sulaco, costretto a un atterraggio d’emergenza, finisce su un piccolo pianeta occupato esclusivamente da un carcere di massima sicurezza. Chi sono i detenuti tutti uomini di questo carcere? Serial killer e stupratori. Chi è l’’umico membro dell’equipaggio a salvarsi? una donna, che tirata fuori dai soccorritori è rimasta guarda caso pure in slippini, con l’ombelico (il buco) bene in vista, che non sarebbe altro che l’occhietto che pure un regista del calibro di David Fincher si permette di fare al generico spettatore: da una parte al maschio, convinto che tutti i maschi di questo mondo condividano la sua visione priapica dell’esistenza, dall’altra alle donne, eccitato alla semplice idea che la generica donna possa gustare il suo momentaneo arrapamento nella visione di questo che è probabilmente il peggiore dei suoi film. Le donne non portano minori responsabilità: lo sguardo della donna spettatrice, in questo genere di film, resta in effetti ambiguo: come mamma indulgente chiude un occhio nel migliore dei casi e nel peggiore finirà per arraparsi anche lei (checché ne dica il femminismo più radicale): si arrapa a sentire il suo maschio arrapato; anche se in quanto donna lo sarebbe forse meno se si rendesse conto che il suo uomo è semplicemente arrapato perché un altro maschio, il regista, è anche lui arrapato e gli sta offrendo in una sorta di intesa - ben conosciuta nelle conversazioni tra maschi - questi suoi segni e sogni erotici da quattro soldi. Ma se un maschio si eccita ai sogni erotici di un altro maschio, il dado non è molto tratto, non si lascia nessuno spazio al caso: si tratta né più né meno di qualcosa che va oltre le aspettative, il contrario cioè di quello che questo spettatore si immagina quando entra al cinema, poco importa che la concezione priapica che il regista ha del mondo sia ampiamente condivisa dall'umanità maschile: resta il fatto che in quel particolare momento il maschio si eccita coi sogni erotici proposti da un altro. Punto. È quindi ingiusta l’accusa mossa a Holliwood di una sua certa supposta omofobia: questo tipo di pellicole, tanto più se arrivano da un ottimo regista, lo stesso che ebbe il coraggio di proporre l’omoeroticissimo Fight Club, dimostrerebbero esattamente il contrario (d'altronde è ben noto come perfino in un concreto triangolo sessuale di due uomini e una donna, quest'ultima, nel duplice tritacarne maschile, rappresenta il cosiddetto alibi, o il terzo incomodo; a differenza di un triangolo di due donne e un uomo, dove il fatto che si tratti di un rapporto lesbico a tre può essere quasi dimostrato matematicamente: aumentando il numero di donne e portandolo col metodo dell’analisi matematica all’infinito, sogno di ogni uomo: l’integrale che ne risulta non può essere che donna: l’uomo che realizza così il suo sogno di essere alla fine anche lui quello che è sempre stato: una povera donna mancata).

Le pretese del mercato non son ovviamente discutibili. Ma almeno in questo caso tutto è facilitato

sabato 21 settembre 2013

voce antica più che contemporanea



Voce più che contemporanea quella di Plinio il Vecchio se nel VII libro della sua Storia naturale, pur non nascondendo una discreta, sincera ammirazione per Gaio Cesare (la sua celebrata clemenza e, in particolare, ammirazione di ciò che viene detto un eccezionale vigore d’animo e che non sarebbe oggi altro che un misto di forza di carattere e potenza intellettuale [animi vigore prestantissimum arbitror genitum Caesarem dictatorem] e ammirazione del suo incomparabile insuperabile elevato sentire, che l'avrebbe indotto dopo la battaglia di Farsalo, quando si trovò tra le mani il cofanetto con le lettere di Pompeo, e in un esempio di superiore elevatezza morale, a bruciarle senza leggerle [concremasse ea optima fide atque non legisse], lo stesso che avrebbe fatto con le lettere di Scipione a Tapso) finisce poi per accusarlo ugualmente e senza mezzi termini di crimini contro l’umanità [tantam etiam coactam humani generis iniuriam] per il milione e centonovantaduemila uomini che fece perire con le sue cinquantadue battaglie escluso però il numero dei morti delle guerre civili (la questione non cambia se si seguono altre cifre di altri scrittori dell’antichità: i quattrocentomila morti di cui parla Velleio Patercolo o il milione che riporta Plutarco). Cifre quindi abominevoli non solo per la coscienza odierna.

Non meno tagliente il giudizio di questo scrittore - anzi più che giudizio tagliente, il suo sarcasmo feroce - quando sempre in questo settimo libro della Naturalis Historia accenna ancora, in una sorta di benemerita coazione a ripetere, a un altro dittatore, a Lucio Silla. “Si è senz’altro”, dice Plinio, “attribuito il soprannome Felice a causa del sangue dei tanti concittadini che ha versato e per aver posto sotto assedio la sua stessa patria. E quali sarebbero", si domanda Plinio, "questi argomenti di felicità? Avere trucidato e proscritto così tante migliaia di uomini?” [Felicis sibi cognomen adseruit L. Sulla, civile nempe sanguine ac patriae oppugnazione adoptatum. Sed quibus felicitatis inductus argumentis? Quos proscrivere tot milia civium ac trugidare potuisset?]. Ma è un pauroso crescendo, quello di Plinio, e Lucio Silla gli suscita ancora, a centocinquant'anni dalla morte, un indicibile e irriducibile disgusto: “la sua morte non fu forse più crudele della fine di tutti i suoi proscritti se il suo stesso corpo s’incancreniva e generava da sé il suo stesso supplizio? Ma ammettiamo che abbia saputo dissimilare il suo male e prestiamo anche fede al suo ultimo sogno, all'interno del quale si è per così dire addormentato, che cioè lui soltanto sia stato in grado di vincere l’invidia generale grazie alla gloria che ritiene di avere conquistato: ciò che resta è che lui stesso ha dovuto ammettere che alla sua felicità è mancato il non aver potuto dedicare il [nuovo tempio di Giove Ottimo Massimo sul] Campidiglio [quod ut dissimulaverit et supremo somnio eius, cui immortuus quodammodo est, credamus ab uno illo invidiam gloria victam, hoc tamen nempe felicitati suae defuisse confessus est quad capitolium non dedicavisset]. Sicuramente sarebbe diventato un topos, se questa immagine di un tassello mancante fu poi ripresa anche da Tacito nelle sue Storie (vedi libro terzo).

Atteggiamento quasi beffardo (splendida nemesi storica) nei confronti anche di Ottaviano Augusto, del quale dopo aver enumerato le numerosissime disgrazie e miserie dell'esistenza terrena (tra feroci proscrizioni e figlia e nipote adultere, naufragio in Sicilia, caduta dall'alto di una torre nella guerra in Pannonia, numerose rivolte militari, infinite malattie anche gravi tra cui un brutto edema che gli gonfiava disgustosamente il corpo eccetera eccetera, a cui si aggiunse pure la sconfitta finale delle legioni di Varo in Germania) si domanda se quest'uomo non sia stato proclamato "dio" indipendentemente da tutto, e se il cielo, l'apoteosi, più che averlo meritato non gli sia stato semplicemente dato, visto che morendo fu pure costretto, tra le altre disgrazie, a lasciare erede il figlio di un suo nemico [in summa deus ille caelumque nescio adeptus magis an meritus herede hostis filio excessit].      

martedì 17 settembre 2013

Giulietto e Romeo, splendori della filologia e potenza della parola in Shakespeare



Non è un caso che ancora oggi, parlando delle più recenti produzioni del Romeo and Juliet, i registi teatrali italiani – ma è da almeno una trentina d’anni - dietro una sempre più ossessiva spinta all’imitazione di tutto ciò che è inglese o americano e per evitare l’accusa di essere poco filologici si attengano anche più che in passato a una precisa, anzi letterale traduzione del titolo e preferiscano portare in scena un meno compromettente Romeo e Giulietta invece del classico Giulietta e Romeo, come in Italia il grosso pubblico continua a nominarsi questa coppia; e in questo modo più popolare e più diffuso continuano in effetti a chiamarsi tanti alberghi ristoranti, bar eccetera. E sarà poi, checché ne dica la popolazione rozza e ignorante, una banale questione di abitudine. E per chi vuole capire questo è campo specifico dell’estetica. Ci si dimentica d'altronde, pur con le migliori intenzioni di tanti registi e traduttori, che una qualsiasi rappresentazione del teatro di Shakespeare oggi sarebbe comunque non precisamente filologica in partenza se non si escludessero dal palcoscenico le donne - women were prohibited by law, se volessi ripetere il fatto in inglese, to act on the Elizabethan stage.  Elisabetta non gradiva. Così come non gradiva Giacomo I. I più accreditati anglisti, pronti a difendere l’indifendibile, assicurano, in mancanza di fonti certe, che le parti femminili erano sempre e soltanto affidate a ragazzi e mai a uomini maturi. Quando possibile sarà stato così: ma se mancavano questi benedetti bei ragazzi senza barba e dai tratti poco virili e a cui la voce si “rompeva” tardi, tanto che se ne sarebbero potute ascoltare le grazie femminili anche dopo i vent’anni, e che fossero nello stesso tempo bravi e professionali, che si faceva, si rinunciava al teatro? È vero invece che il teatro shakesperiano era un teatro molto più simbolico di quanto il pubblico che va a teatro oggi non immagini, ciò che risulta abbastanza chiaramente dalle stage directions inserite nei manoscritti e nelle prime edizioni, cioè dalle didascalie relative ai movimenti degli attori, alla musica, e agli eventi, e anche dalle descrizioni scenografiche, che riportano, quando pure avviene, soltanto miseri suggerimenti, tanto che un allampanato cespuglio poteva indicare un’intera foresta – un intelligente contributo in questo senso venne da Masolino D’Amico, nel suo antico Scena e parola in Shakespeare, del lontano 1974, insuperata ricerca sulle funzioni sceniche della parola: la sola parola, il testo, avrebbe la capacità di generare spazi, luoghi, tempo e gli aspetti più materiali del teatro. Che poi è cosa tipica di ogni grande autore, mentre si vedano i goffi tentativi di Baudelaire di elaborare un proprio teatro, il quale risulta in realtà un non teatro: la parola cioè non sa generare gli spazi, le azioni, non c'è movimento. In questo senso il teatro elisabettiano ricorda invece, anche più di altre grandi tradizioni nazionali, la simbologia del teatro giapponese e orientale in generale: il pubblico era così abituato alla magia della parola che per assurdo pure una peluria non l’avrebbe vista sul volto della stupenda e poco più che ragazzina Cordelia; oppure se l’attore l’avesse indicata con un dito e avesse detto che era cipria o belletto lo spettatore ci avrebbe visto soltanto questi, perché alla parola era interessato, non a gustare voyeuristicamente, con la bava alla bocca, le forme dell’attrice sotto il costume. Shakespeare stesso ci gioca nel Midsummer Night’s Dream, quando una compagnia di dilettanti deve spiegare alle altezze reali – alle donne in primo luogo - che il personaggio che fa la parte del leone e indossa soltanto una pellaccia polverosa e sudicia non è un vero leone, e lo stesso deve fare l’attore che impersona una parete attraverso un buco della quale i due innamorati devono parlarsi.  Così, se si volessero scimmiottare fino in fondo i filologi, non basterebbe più nemmeno scrivere Romeo e Giulietta, bisognerebbe semmai avere il coraggio di allestire un Romeo e Giulietto, o anche un Rometto e Giulieo. Oppure abbandonare completamente questi sogni di gloria e di originalità camuffati contraddittoriamente nel concetto opposto e non interessante di “in origine era così”, di scarsa rilevanza per il contemporaneo.  

sabato 14 settembre 2013

i cassetti e la morte degli oggetti

in fondo liberarsi in blocco dei cosiddetti "amici" non è difficile, basta il più semplice degli atti di volontà, non servono parole ... E' come liberarsi di quegli oggetti che non usiamo più e che lasciamo per anni dentro un cassetto ... Arriva un momento in cui si prende l'intero cassetto e lo si svuota nel secchio della mondezza senza pensarci troppo ... La funzione di certi cassetti è d'altra parte quella di rendere inizialmente la morte degli oggetti meno dolorosa per chi li usava ... E mai verbo è stato più adatto a definire questi cosiddetti "amici", i quali, a conti fatti, non hanno fatto altro che utilizzarti da sempre senza accorgersi che anche tu li utlizzavi, anche se, a differenza di loro, per il semplice piacere di averli amici ...   sicché dal momento in cu te ne liberi si trovano di punto in bianco con una risorsa pratica in meno ...