lunedì 4 novembre 2013

Avarizia di Simonide e liberalità della filologia


Che uno dei tratti distintivi del carattere di Simonide fosse l'avarizia potrebbe forse dirci qualcosa non solo della sua tecnica poetica ma anche della sua fortuna, perché pur avendo avuto questo lirico al suo attivo una produzione vastissima, di lui non è rimasto quasi niente (appena
un centocinquanta meravigliosi frammenti e altre poche citazioni indirette); fatto che sembra ripetere in forma di nemesi o di contrappasso il destino di tutti i grandi avari, condannati a vedere ciò che hanno pazientemente accumulato svanire nel nulla.

Del frammento di papiro del III s. a.C., pubblicato nel 1906 insieme ad altri frammenti dalla necropoli egiziana di El Hibeh (Grenfell-Hunt, Hibeh Papyri, I, 17) e contenente risposte caustiche che Simonide avrebbe dato alla moglie del tiranno Gerone ("Invecchia tutto nel mondo?", chiede la donna. "Tutto, salvo l'amore del guadagno", è la replica) e altri suoi detti sull'essere economi (φειδολωϛ), viene normalmente riprodotta nelle antologie critiche la prima parte, e si preferisce omettere la seconda, che presenta alcune integrazioni degli editori e appare di non facile o immediata interpretazione. Anche se poi finiscono per essere proprio questi i casi che più incuriosiscono i filologi: i cosiddetti luoghi critici: quelle parole cioè che per il cattivo stato di conservazione del medium non si riescono leggere; o quei punti in cui il testo sembra far acqua - era uno dei criteri base che ci venivano insegnati a critica del testo: "se il senso non fila, quello è un locus criticus: sono intervenuti sicuramente errori dei copisti e vi troverete perciò di fronte una selva di lezioni differenti se non addirittura divergenti". Ed è appunto pane per i filologi, per chi dovrebbe avere i denti per questo genere di problemi: per i tanti editori critici che si ingegnano a elaborare le più disparate congetture, alcune immediatamente deliranti, sprovviste di quel più elementare buonsenso che si troverebbe perfino nell'uomo qualunque - in un mio articoletto giovanile su un verso dell'Agamennone, che intitolai Eschilo contorsionista, raccontavo un po' la storia di certi curiosi stravolgimenti che inevitabilmente subisce il testo di un poeta o scrittore dell'antichità se sottoposto al vaglio della "critica" testuale, contorcimenti fatti subire al testo perfino da studiosi del calibro di un Wilamowitz.

Nel caso di questi detti di Simonide del papiro di El Hibeh, databile intorno al 250, la corsa all'interpetazione della seconda e più problematica parte cominciò al momento dellaloro pubbblicazione nel 1906. Problematica per le due ragioni accennate: o il testo non si legge perché lo stato di conservazione del papiro non lo consente oppure il senso non tornerebbe. E uso non a caso il condizionale perché se il testo non fila non significa necessariamente che il luogo sia corrotto, e potrebbe non filare semplicemente perché non si conosce un certo modo di dire, un particolare uso di un verbo, di un nome, una sintassi che l'autore ha voluto forzare e potrebbe perciò il nostro testo contenere uno dei tanti esempi senza paralleli, uno dei tanti hapax di cui è piena la tradizione lettararia, e anche epigrafica, latina e greca; di sicuro un uso non frequente nella storia linguistica di una nazione, e dovremmo quindi essere grati alle idiosincrasie stilistiche di quell'autore se quel certo termine o modo di dire non sono scomparsi del tutto.

Dice Simonide, parlando delle ragioni per cui verrebbe a essere un problema non usare (parsimoniosamente) le proprie sostanze, le proprie finanze:

το δε ανηλωθεν ολιγου μεν ειληπται προσαναλισκεται δε το διπλασιον διο δει ελκειν τας ψηφουϛ

Gli editori (Grenfell e Hunt) tentarono in effetti una prima traduzione:

Expenditure is reckoned of slight account, and twice as much is spent again 

la spesa viene stimata di poco conto, e due volte tanto viene di nuovo speso

Il senso della traduzione è incerto, al limite dell'incomprensibile se lo si mette in relazione con l'assunto iniziale: le ragioni per cui bisognerebbe essere economi ed evitare di affidarsi ai beni e alle sostanze altrui. Lo fece giustamente osservare H. Richards in un articolo uscito, subito dopo la pubblicazione di questo frammento, nel 1907, nella Classical Quarterly - un numero storico, trattandosi esattamente del primo della rivista, che nasceva da una costola della Classical Review. Richards trasse però conclusioni errate. Non gli tornava nel particolare contesto ("I do not understand") ανηλωθεν (ciò che si è speso), che considerava un sicuro errore del copista dovuto alla vicinanza di προσαναλισκεται (viene speso) e suggeriva al suo posto δaνεισθεν (prestato, dato in prestito) o εληφθεν (preso [in prestito]), e per far questo doveva spostare un'intera frase per farsi tornare il senso; e inoltre trovava difficilmente giustificabile, "forse senza paralleli" ("it would be hard to parallel"), l'uso del genitivo in ολιγου ειληπται (è stato preso, o è stimato [di] poco) - ma vedi per esempio in Aristotele, nella Politica: ὀλίγου μισθωσάμενον (avendo preso in affitto a poco). Altre considerazioni portavano su ψηφουϛ (sassolini usati per fare i conti), che in realtà è il punto meno problematico (tirare - ελκειν - trattenere i sassolini, come sul pallottoliere, non lasciarli correre dall'altra parte quando si dovrà calcolare la spesa che si è sostenuta) Immagine che non presenterebbe nessun problema, a patto che si traducano correttamente le parole che precedono. E cioè: in un caso (usando le proprie sostanze, e quindi con parsimonia) la spesa viene stimata di poco conto, irrisoria, piccola (ολιγου è soltanto un genitivo di qualità, una funzione che nel Neollenico passerà all'accusativo), nell'altro (cioè nel caso in cui si prenda a prestito) si spende in sovrappù il doppio - προσαναλισκεται δε το διπλασιον - (cioè una volta per pagare la cosa che si compra, l'altra quando si restituisce il denaro avuto in prestito, se si escludono ovviamente gli interessi). Cosicché questa parte del detto attribuito a Simonide andrebbe tradotta:

In un caso si spende poco, nell'altro il doppio, motivo per cui bisogna tirare la cinghia (διο δει ελκειν τας ψηφουϛ).

Sarebbe appena il caso di ricordare che ancora nell'italiano moderno, parlando di una persona avara si usa dire che è tirata. E sembra dire, chiunque abbia effettivamente pronunciato queste parole attribuite a Simonide: se non fossimo "tirati" ci si troverebbe poi nella condizione di prendere a prestito, e quindi finire per pagare due volte. In linea col carattere sferzante che nell'antichità veniva riconosciuto ai detti di questo poeta, e di cui c'è testimonianza in Aristotele, Plutarco, Stobeo eccetera. Ma si tratta evidentemente di un topos. Considerazioni simili vengono per esempio attribuite da Seneca a Catone: "M.Cato ait: quod tibi deerit a te ipso mutuare" (ciò che ti verrà a mancare, prendilo in prestito da te stesso).     


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