giovedì 14 novembre 2013

L'anima grigia dell'Occidente e i colori della Mongolia




Nelle città occidentali, soprattutto l'inverno, si nota una sempre più diffusa tendenza a vestirsi in nero. E' un fatto evidente: il nero domina ovunque. Il che puo avere, mi pare,
due possibili spegazioni: o l'umanità in Occidente inizia a comprendere soltanto adesso qualcosa della sua vera natura (erano gli esistenzialisti di Sartre e di Simone de Beauvoir a vestirsi di nero) oppure è ormai in perpetuo lutto, almeno l'inverno. E anche colori sgargianti non se ne vedono, nemmeno l'estate, quando ci si veste più allegramente: sia perché mostrare colori troppo accesi è considerato "cafone", "arcaico", "alieno", sia perché i colori sintetici presentano i loro effettivi limiti, brillano di luce propria, il riflesso del capitale. E basterebbe spostarsi di poco, veramente di poco, oggi: l'Africa per esempio del Togo e della sua verdissima Lomé e della festa dei mietitori nelle vicinanze di Kara, oppure i suoi villaggi attorno a Kande, o ancora i villaggi del Burkina Faso coi loro meravigliosi batik fatti e dipinti a mano col laborioso metodo della cera con scene di vita di tutti giorni, e coi suoi suonatori di kora, lo strumento che somiglia al violoncello; oppure l'India del Madhya Pradesh o del Gujarat, per come le abbiamo conosciute, ma da evitare soprattutto le grandi città, perfino Bombay, dove quando ti siedi all'aperto al tavolino di un bar il cameriere ti chiede nome cognome e indirizzo (perfino della seconda casa se ne hai una), e inserisce tutto in un computerino portatile, il quale se non ha un microprocessore nero come l'anima razzista dell'Occidente, che guardandosi allo specchio crede di essere bianca, è semplicemente perché è grigio come il silicone da cui prende nome la Silicon Valley; e ancora sempre meno interessante la Cina di oggi, onnipotente fornace del suo mercato ormai mondiale, a buon prezzo e senza nessunissima qualità, e i cui antichi colori, come appaiono ancora in certe meravigliose stampe dell'Ottocento, sono diventati un riflesso di quel riflesso di quell'accumulo innalzato a totem pure qui, in una Cina d'altronde da sempre laboriosissima.

Qualche briciolo di colore resta ancora in Mongolia - se si esclude Ulaanbaatar, la capitale, dove l'Occidente prevale; basterebbe spostarsi un po' al centro, a Kharkhorin, all'estremità della valle superiore del fiume Orkhon, ai piedi dei monti Khangai, in questa immensa piana che fu capitale dell'impero mongolo sotto Ogedei Khan, uno dei figli di Ghengis Khan, e osservare appena fuori del centro abitato la rosse pareti esterne del tempio Erdene Zuu e il bianco e il rosso e il giallo e il blu e l'oro del suo monastero, o le meravigliose selle di tutte le fogge e di tutti i colori che ostentano ancora molti cavalli mongoli. E ancora qualche punta di colore in tutt'altra zona della terra, in Patagonia. Ma qui siamo unicamente nelle mani della Natura.

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