giovedì 2 febbraio 2017

Demòni e angeli






Nelle moderne democrazie – anche e soprattutto le più fasulle e orripilanti, quali quelle capitalistiche (liberiste o comuniste) -  l’individuo potrà esperire al meglio i concetti di angelico e di demoniaco osservando se stesso nei suoi rapporti con la burocrazia. In un ufficio aperto al pubblico si troverà in media un angelo ogni dieci impiegati. Incappare in un angelo e risolvere un annoso problema dipenderà quindi unicamente dal caso, cioè dalla maggiore iniziale proliferazione dei demòni dopo la cacciata dalla corte celeste. Può anche succedere - fatto estremamente raro - che tra dieci impiegati otto o nove siano angeli, e questo avviene quando il dirigente è lui stesso un angelo. E' un fatto che si potrà sempre osservare, con un minimo di pazienza. La maggior parte degli uffici postali sono infernali, gli altri sono come un'illuminazione: tutto sembra filare angelicamente.

Non solo il demonio ma anche il diavolo è originariamente una figura generica, anche nel bene (come per esempio nel Libro di Giobbe, dove satana (שטן) non è altro - come nell’etimologia ricevuta dal greco, diaballo – che il principale accusatore residente presso la corte di Dio, una sorta di pubblico ministero, o di giudice istruttore (prima della riforma): la sua funzione può essere rivestita di volta in volta da un’entità diversa); ma nella tradizione cristiana il diavolo è  nudo e crudo il principe dei demòni, come nell’Apocalisse, e come giustamente appare e è indicato nel film L’esorcista, quando padre Karras, il gesuita psichiatra, dice che l’entità che "possiede" la ragazzina afferma di essere non un demonio qualsiasi ma il diavolo in persona. Tuttavia, considerata l’ambiguità delle figure demoniache, non è improbabile che nel caso dell’Esorcista un demonio qualunque stia prendendo per il culo padre Karras, spacciandosi per il loro capo.

mercoledì 18 gennaio 2017

La fine dell'incanto




Ai tempi in cui studiavo l'arabo, il cosiddetto arabo standard, quello dei giornali , della tv, dei film egiziani, l'arabo del Corano e dell'immensa letteratura non dialettale, un arabo che nessuno parla come prima lingua mentre esistono invece un numero infinito di dialetti vivi, mi capitò una frase che mi convinse che in qualche modo quello era nonostante tutto, nonostante certa artificiosità di questa lingua colta, il mio mondo. Era una frase che sarebbe possibile ancora oggi cogliere tranquillamente in una conversazione mettiamo tra un arabo levantino e uno del Maghreb (letteralmente luogo del tramonto), che se vogliono capirsi userebbero questa lingua normalizzata:

أركب آقطار، لأنّه سوف يدهب بعد ساعة

che suona pressappoco:

àrkabul chitàr liànnahu saufa iàdhabu bàada sàa

salgo sul treno perché parte tra un'ora.

L'idea cioè di un tempo paradossalmente dilatato - se un'ora equivale a cinque o dieci minuti allora ho bisogno dell'eternità per portare a termine un qualsiasi compito. Il che si sposava con la mia risaputa indolenza, la quale tra l'altro non mi ha impedito di fare più cose nella vita di chi non si è mai fermato un secondo (è il vero segreto dell'oriente).

Ma c'era altro all'origine che mi affascinava, mi incantava dell'arabo: la scrittura: una sorta di bosco incantato più allettante di quelli dell'Orlando Furioso (che pure tratta di Mori), una selva al di qua della quale mi ostinavo a trattenermi per il semplice gusto di non volerla capire: il desiderio di penetrarla e nello stesso tempo di ritardarne l'apprendimento - il pericolo che molto del fascino che la scrittura esercitava sarebbe svanito con la sua comprensione, con la comprensione dell'arabo, era costante. Cosa regolarmente verificatasi. Così come è successo col sanscrito, che ho iniziato a studiare a sedici anni quando ero ancora sui banchi del liceo e avrei dovuto pensare alla letteratura italiana piuttosto che alla rigogliosa fioritura dei caratteri devanagari, simili a giungle ugualmente impenetrabili. Fascino, incantamento cessato anche qui con la comprensione dei testi, per quanto a causa delle centinaia di legature possibili questa scrittura può sempre apparire un rompicapo pure al più navigato degli indologi.

(L'attrattiva della scrittura è stata in qualche modo minore col greco (familiarità di cultura), col cirillico e con l'ebraico, che al di là delle somiglianze con l'arabo (popoli di dura cervice li chiama la Bibbia) mi ha appassionato sempre poco - senz'altro a causa dell'orrenda complicatezza del sistema accentuativo e vocalico masoretico, l'incontrollata proliferazione di segni per le vocali lunghe, medie, brevi e brevissime, e altri simboli per la lettura e recitazione dei testi sacri, i primi che si iniziano a leggere, e che gli danno l'aspetto di una pelle disgustosamente infetta e purulenta; in più il sapere che si trattava di una tradizione letteraria fondata quasi esclusivamente su testi e commenti religiosi, fatto ancora oggi evidente nell'ebraico "resuscitato" e parlato in Israele, esperimento anacronistico e poliziesco, antistorico, come dimostra la chiusura al mondo di quel paese, l'impianto di una lingua morta, la lingua biblica (per quanto ricca la sua storia), su un territorio da sempre cosmopolita ma considerato dal XIX secolo di proprietà esclusiva di un gruppo ristretto di attivisti in cerca di "pace" e dei loro fanatici epigoni - che lo si voglia o meno, gli israeliani , anche i meravigliosi non credenti, parlano ancora un linguaggio biblico: le parole, la struttura, la sintassi sono le stesse, e anche nei neologismi la  אקדמיה ללשון העברית, l' akademya lalashon haivrit, l'Accademia della lingua ebraica, non fa che ricorrere - adattandole a nuovi significati - a termini dell'Antico Testamento, così come prima di lei aveva fatto il Comitato della lingua ebraica di Eliezer Ben Yehuda).

venerdì 16 settembre 2016

Il ritardo di Dio

La questione dello stupore di fronte alla evidente non punizione del peccatore è in realtà da sempre la questione del ritardato intervento divino: un Dio in qualche modo umanizzato, capace anche di pentimento:

Et Samuhel lugebat Saulem, quia paenituerat Dominum quod unxisset eum regem super Israhel (Hier., Ep., 147, 1 - ad Sabinianum).

Il ritardo dell'intervento divino sul peccatore può essere però anche visto nell'ottica di un "progresso" ideologico dell'umanità: rendere possibile l'apparizione di quei pochi grandi intellettuali in grado di farci cambiare definitivamente il punto di vista, il modo di vedere le cose. Che non è altro che una delle interpretazioni che di questo ritardo offre Girolamo nell'epistola citata sopra:

Alioquin si protinus scelerum ultor exiteret, et multos alios et certe Paulum apostolum ecclesiae non haberent (147,3).

Invecchiare contro natura

Il san Girolamo degli ultimi anni è un notevole esempio di invecchiamento contro natura, se si deve prendere per buona la sarcastica interpretazione che della vecchiaia dà Erasmo nell'Elogio della follia. Invecchia, nonostante quanto dice di sé, nel pieno possesso delle sue facoltà e senza riacquistare niente (grazie a un salutare rim-bambimento) dell'allegra follia del ragazzino. Sempre che nel caso di san Girolamo non si debba ammettere un disguido di natura, che sia nato già vecchio e bilioso. E quella stessa bile la si trova all'inizio come alla fine della sua carriera. Le sue ultime epistole rigurgitano del fiele dell'odio ideologico - ma è sempre la stessa pappa nei Padri: un linguaggio militante mutuato dalla Sacre Scritture. Appare intrappolato a cementizzare (peraltro senza mostrare eccessiva fiducia) il traballante edificio della Chiesa in epoca di devastazioni eretiche, con qualche sospiro di sollievo nel caso in cui una contestata elezione al soglio vada a buon fine, cioè secondo i suoi piani, quando riesce a portare a casa l'elezione di un vecchio amico (Bonifacio). Ma è negli attacchi alle varie sette (ofiti, pelagiani ecc.) che offre il meglio ("hereticorum pectora non posse purgari ego testis sum", "vere dicam quod sentio: in his hereticis illud exercendum est Daviticum: in matutinis interficiebam omnes peccatores terrae", "delendi sunt, spiritualiter occidendi", non possunt per emplastra et blandas curationes recipere sanitatem", "nec eorum scriptis, quae ignoro, moveor, cum sciam voluntatem quidem blasphemiae pessimam", "tamen si scripserint et in meas aliqui pervenerit manus, ut non superbe loquar sed sim par insaniae eorum").

Insomma, se c'è follia non è giocosa, non è di tipo infantile, e soprattutto è follia consapevole (ut ...sim par insaniae eorum), ciò che ne sminuisce l'attrattiva, mostra l'uomo frustrato, il quale sente che dopotutto potrebbe aver fallito. Non sa mettere da parte il miles Christi, nemmeno quando dovrebbe congratularsi (essere felice) per il buon esito dell'ordinazione dell'amico al soglio, non riesce a non aggiungere alla fine un postscriptum in forma di spada: "sentiant heretici inimicum te esse etc".

Ilio felice

la condizione infantile è forse l'unica capace di deviare gli attacchi del linguaggio, e quindi di qualsiasi ideologia. A un in-fante, a un senza-parola, il mondo appare necessariamente irrisolto: a ogni nuovo evento si potrebbe dire per lui: inventa est res quam nulla eloquentia explicare queat. Il vero eroe allora sarebbe colui capace di non apprendere mai nessuna lingua. Sarebbe un lunghissimo assedio, nessun esercito acheo potrebbe mai espugnare Troia: Agamennone, Menelao, Aiace, Ulisse, Achille, Licomede, Medonte, Patroclo, Palamede ecc.: nessun piccolo eroe acheo riuscirebbe a portare a termine il suo compito, e morirebbe di vecchiaia sul campo. La maggior parte delle opere che li vede protagonisti sarebbe inesistente, non ci sarebbe Odissea. Ma per chi è dentro le mura sarebbe non Babele felice ma Ilio felice.

giovedì 15 settembre 2016

Leggi "simpatiche"

La legge di Osthoff è una di quelle leggi "simpatiche", poco complicate, lo studente di greco avrebbe buon gioco. Peccato che come tutte le leggi e i tentativi di normalizzare i fatti di lingua, contiene eccezioni, e basta un'eccezione per invalidare una legge (l'omerico νῆυσι resta per esempio felicemente fuori, e il tentativo di spiegarlo da un originario *néh2u-, rimane una congettura.

Lo stesso può dirsi della legge di Wheeler, ugualmente "simpatica", amichevole, una vera chicca fonologica dal soprannome sfizioso: la legge del dattilo finale. Ha quantomeno il merito di "illuminare" la questione dell'accento nel participio perfetto medio-passivo (perché diavolo a differenza degli altri participi che gli somigliano avrebbe quello strano accento sulla penultima). Ma anche qui le eccezioni non mancano: μυελός, ὀμφαλός,ὀρφανός, e restano fuori ( a differenza del latino e dell'italiano) gli aggettivi del tipo -ικος (μαθηματικός, ἀστικός ecc.) - aggettivi però di "classe", colti, intelellettualizzanti (Aristofane li mette in bocca ai "bei parlatori"),  e si prestano a essere accentuati in un certo modo, un segno di distinzione, così come in italiano si tende a accentuare in modo errato, ritraendo l'accento sulla terzultima, alcuni nomi poco nell'uso e creduti colti (pùdico, tàfano), e in effetti anche nel latino e poi nelle lingue europee questo suffisso finisce per denotare l'appartenenza a un gruppo, ha una funzione classificatoria, categorizzante (vedi su questo l'insuperato e insuperabile studio di Chantraine). In questo senso, e solo in questo senso, farebbe pensare al -ka dell'indoeuropeo, che è la marca del genitivo dei pronomi personali, una marca di appartenenza.

L'intellettuale e il paradosso del mentitore

Gli intellettuali (le "scienze" umane) hanno tuttosommato poco a che fare col progresso umano, se si escludono quei grandi nomi (compreso Sofocle, che intuiva la questione) a giusto titolo entrati a far parte del novero dei classici - totalmente assenti oggi non perché non sia passato un numero sufficiente di anni per poterli considerare tali (Ars poetica) ma perché per i nomi di oggi, a quello che almeno si vede, non ci sarà nessuna speranza di memoria, se non per qualche futuro database. E si leggono, i classici, non per quello che dicono (si possono contare, anche qui, sulla punta delle dita coloro che hanno detto qualcosa che ha determinato un cambiamento nei modi di vedere di un'epoca) ma per come lo dicono. Inoltre gli intellettuali oggi rientrano quasi tutti nella schiera dei professori universitari. E le idee dei professori universitari non sono mai state di nessuna utilità, come lo è invece il lavoro di un muratore o di un operaio dentro una fabbrica. Non sono utili nemmeno ai loro studenti, che potrebbero trovare meno compromettente tentare di afffinare da subito il senso critico e fare una cernita degli errori contenuti nei libri da portare agli esami. Non è molto interessante sentire un intellettuale in televisione, o leggerne un libro, e non solo perché lo scopo è quello di copiarsi e scopiazzarsi a vicenda senza neanche accorgersi degli errori di coloro che citano. L'importante è che il discorso abbia una coerenza, in nome di quale logica è tuttavia da vedere, dal momento che per esempio una logica fuzzy, una logica polivalente, di origine booleana, sfuggirebbe completamente a questa posizione arcaica (tuttora della televisione, del web) del professore che parla di un certo argomento con cognizione di causa. Il paradosso del mentitore non potrebbero spiegarlo, resta per loro un paradosso, non avrebbe semplicemente, come in una logica fuzzy, un valore medio tra 0 e 1.

venerdì 19 agosto 2016

Il burkini del voyeur

Ipocriti gli occidentali (Angela Merkel & C), che parlano di ostacolo all'integrazione ... "Integrazione al mercato", andrebbe detto. Ma ipocrite anche le musulmane in burkini sulle spiagge piene di maschioni col pisellone che preme sotto il costume. Si dirà: da qualche parte devono pure andare a farsi il bagno visto che le spiagge sono dovunque e comunque affollate. Ma appunto, nella vita bisogna saper rinunciare, a volte ...

martedì 21 giugno 2016

Quando Krishna aiuta la filologia. Due versi del Baghavadgita

La banalizzazione di una delle strofe più cariche di tensione del Baghavadgita - la decima del primo canto - è un tipico esempio degli errori che si producono in filologia quando una non necessariamente modesta capacità linguistica non è sorretta da sufficiente "acume" critico, quando cioè il desiderio di brillare sempre e comunque, di porsi a tutti i costi in mostra, fa scendere nel campo azzeccapastrobubbolesco della filologia un qualsiasi ultimo editore che voglia confrontarsi col già detto - e detto e ripetuto erroneamente.

Così non c'è nessuna ragione di ritenere corrotto il testo tradito di questo passo del Gita, o del suo parallelo nella tradizione separata del sesto parvan del Mahabharata (6.10.1-2):

अपर्याप्तं तद् अस्माकं बलं भीष्माभिरक्षितम् /
पर्याप्तं त्विदम् एतेषां बलं भीमाभिरक्षितम् //

Sono state proposte le più disparate interpretazioni, forzato il "genio" del sanscrito ("quello" tradotto con "questo" e viceversa), dato un significato artificioso a pariapta (limitato invece che sufficiente, all'altezza, uguale a), elaborate interpretazioni così fantasiose, così poco concrete che a volerle ammettere sarebbe permesso, in filologia, qualsiasi intervento, far dire tutto e il contrario a un autore. E basterebbe, a titolo di esempio, riportare l'incomprensibile traduzone di Winthrop Sargeant, che per il resto è sempre o quasi sempre puntuale:

sufficient is that force of ours guarded by Bhīma;
insufficient though is the force guarded by Bhima.


I primi mal di pancia iniziarono in realtà quando più di un antico commentatore indiano si accorse che le forze militari di Duryodhana (il personaggio che in questi due śloka parla) erano di gran lunga superiori a quelle degli avversari, dei figli di Pāṇḍu. Impossibile, quindi, secondo i più, che Duryodhana voglia intendere che le sue forze siano "non sufficienti", non all'altezza degli avversari; o che nel farlo non si accorga di compromettere il morale degli uomini. Il quale Duryodhana, per essere precisi, sta parlando non all'intera armata ma al loro maestro d'armi, al valoroso Drona, lo stesso che ha addestrato i guerrieri schierati sotto i loro occhi (ma se pure parlasse all'intero esercito non farebbe nessuna differenza).

Il passo, di una cristallinità disarmante, continuò a suscitare interesse nella critica moderna. Perfino uno studioso del calibro di van Buitenen cadde in questa ridicola trappola, in un vecchio articolo del Journal of American Oriental Society. Basandosi su un commento di Vedāntādeśika a Ramanuja e citando un manoscritto saradico e un commento di Bhaskara il Vedantino, arrivò a vedere nella tradizione di questo passo un'inversione dei nomi che compaiono nei due versi: in altri termini, al posto di Bhīma si dovrebbe leggere Bhīma e al posto di Bhīma Bhīma. Che non è altro, in sostanza, che il capovolgimento del criterio pirincipe della critica testuale, il criterio dell'autorevolezza della lectio difficilior (rendere al contrario tutto più semplice e accontentare una logica dei presupposti). C'è da dire che van Buitenen dedica solo le prime pagine alla questione, ammette che il passo è apparentemente adamantino, "seemingly transparent", e propone la sua versione, che in qualche modo, e indirettamente, riesce a far quadrare, si avvicina al senso più ovvio:

that army guarded by Bhima is not equal to us;
on the other hand, this army, guarded by Bhīma is equal to them;

per il resto si dedica a problemi più interessanti: ai rapporti codicologici tra le due differenti tradizioni - il testo separato del Baghavadgita, e lo stesso testo contenuto nel Mahabharata.  Perfino la critica contemporanea continua a battere sul seminato, sull'erba cattiva (tra gli antichi soltanto giustamente Sankara, il filosofo, non s'è sognato di commentare la giustezza di questi versi, ma forse, anzi sicuramente, in lui giocavano altre ragioni, il fatto che questa prima sezione del Gita non presenta interessi dottrinali).

Le confusioni e gli errori in filologia nascono sempre da un'interpretazione del testo avviata non sulla base di una nozione di uso, e di possibili usi linguistici che sfuggono alla norma, o non immediatamente "propri" di un  particolare autore, o sulla base di considerazioni di natura estetica, ma seguendo una logica normativa, di attese non pienamente soddisfatte - e non soddisfatte il più delle volte perché l'autore a tutto pensava meno che a soddisfare l'idiozia di un critico. Dove sarebbe d'altronde l'onnipresente ironia del Gita (vedi ad esempio la strofa 41 del primo canto, le donne corrotte, che coi loro figli illegittimi creano disordine nelle caste, un timore inevitabilemente ironico di Arjuna, dal momento che né lui né i suoi fratelli sono esattamente figli di Pāṇḍu; e ancora nelle strofe 20-23, l'immobilismo di Arjuna, che se da un lato chiede a  Krishna, il suo auriga, di piazzargli il carro in mezzo alle due armate, è poi incapace di agire e scegliere tra due forze opposte ecc.), dove finisce il capovolgimento artistico? e per quale motivoDuryodhana, che è senza dubbio un valente militare, e dispone di un numero superiore di soldati, avrebbe dovuto riaffermarlo, e vantarsene addirittura col suo maestro: dichiarare una simile banalità se non per attirarsi addosso un'accusa di superbia e vanagloria? E dove sarebbe l'attesa non del critico ma del lettore o dell'ascoltatore, se crede che i giochi siano già fatti visto che Duryodhana è superiore all'avversario? E in effetti lo dice: afferma che le sue forze sono superiori ma per capovolgerne immediatamente l'assunto: che non si sente cioè affatto superiore. In cosa dovrebbe consisterebbe l'eroismo se si combattesse contro un avversario ritenuto inesistente?

Sarebbe bastata questa semplice considerazione di natura estetica (pur lasciando fuori ogni considerazione sintattica) a tagliare la testa al toro. Una confusione che nasce da una visione banalizzante delle cose. E la questione era semmai come rendere il termine chiave पर्याप्त्म् (paryāptam), e la sua negazione, आपर्याप्त्म् (aparyāptam), posta in opposizione all'inizio del verso precedente. E inoltre, in che funzione intendere बलम् balam (forza - all'accusativo, non al nominativo, come si è sempre erroneamente inteso), il quale (cosa a cui nessuno ha mai pensato) è un semplice accusativo di relazione - o dipendente da un participio sottinteso (di noi che abbiamo una forza sorretta da Bhishma) - vedi su questi usi dell'accusativo ad esempio il secondo canto, anche qui un accusativo neutro, all'interno, tra l'altro, di un tipico composto bahuvrīhi:

अश्रुपूर्णाकुलेक्षणम् - laśrupūrṇākulekṣaṇam (2,1)

l'occhio abbattuto e pieno di lacrime

o nel terzo libro, le parole di Krishna a Arjuna, quando lo invita a sottostare all'inevitabilità dell'azione:

नियतं कुरु कर्म त्वम् - nyata kuru karma tvam (3,8)

sottomesso, agisci!

dove sottomesso (नियतम्) è ovviamente, anche questo, un accusativo.


Lo stesso vale - riandando al primo canto - per il secondo verso della strofa (di loro che hanno una forza sorretta da Bhima).  E così  तद् (tad - quella), e  इदम् (idam - questa) staranno bene al loro posto e continueranno a significare quello che hanno sempre significato e non l'opposto.

Insomma i due śloka vanno intesi:

Non è uguale, quella, a noi: una forza (la nostra) guidata da Bhishma
eppure è uguale, questa, alla loro: una forza (la loro) sorretta da Bhima

E il senso è che Bhima non solo non è inferiore a Bhishma (come afferma Edgerton - "unskilled") ma anzi, per il fatto che sia lui a guidare le forze dei figli di Pāṇḍu, pone questi, seppure in numero inferiore, all'altezza degli avversari.

lunedì 6 giugno 2016

Lo sguardo di chi passa alla storia

Se nella guerra contro Artaserse Ciro avesse prevalso, Senofonte avrebbe scritto un buon numero di altre opere, e siccome era destino che si conservasse tutto di questo scrittore, avremmo letto di Ciro negli anni della maturità e forse nella vecchiaia. Senofonte l'avrebbe seguito a Babilonia o a Susa, sarebbe rimasto a corte e avrebbe forse dimenticato generosità, nobiltà, coraggio, lealtà: tutto ciò che vedeva e apprezzava in lui, e avrebbe finito per scrivere papponi indigeribili.  Che sia quindi morto giovane e in battaglia è ammirevole. Restò il desiderio di scriverne. Di sicuro ebbe il tempo di farsi di nuovo osservare qualche istante prima della battaglia finale da un altrettanto giovane Senofonte, che giustamente, nella narrazione, dispone il punto di vista in terza persona, le poche righe nel primo dell'Anabasi, lo sguardo di due giganti a cavallo:

ἰδὼν δὲ αὐτὸν ἀπὸ τοῦ Ἑλληνικοῦ Ξενοφῶν Ἀθηναῖος, πελάσας ὡς συναντῆσαι ἤρετο εἴ τι παραγγέλλοι: ὁ δ᾽ ἐπιστήσας εἶπε καὶ λέγειν ἐκέλευε πᾶσιν ὅτι καὶ τὰ ἱερὰ καλὰ καὶ τὰ σφάγια καλά (I, viii, 15)

e vedendolo dalle schiere dei greci Senofonte l'ateniese essendosi avvicinato in modo da trovarselo davanti gli domandò se avesse ordini. Ciro fermandosi disse e ordinò di riferire a tutti che (ai sacerdoti)  le vittime erano apparse propizie e le viscere lo erano state ugualmente

- due giganti votati a passare alla Storia per motivi complementari: sia perché in un caso era stata una risalita (anabasis) e nell'altro sarebbe stata una discesa (katabasis), alla guida ideale della prima Ciro, della seconda Senofonte, sia perché l'uno senza l'altro sarebbe rimasto una figura sbiadita e viceversa. E resta incertezza sulla lingua usata, se ci fosse un interprete o se Ciro parlasse con Senofonte direttamente in greco.Vedi anche, sul sentimento di reciproca ammirazione - dell'uomo d'azione e dello storico - quanto scrive Plutarco nel De gloria Atheniensium, dedicato alla questione della preminenza, se sia cioè più importante chi fa la Storia o chi la scrive - Plutarco essendo semplicemnte biografo e geniale compilatore accetta la supremazia dell'uomo d'azione. E in effetti senza l'azione chi scrive di storia non avrebbe niente da dire ma è pur vero che tanti uomini d'azione ricevettero impulso dalla lettura. Che poi agli inizi, alle origini, ci sia prima di tutto l'azione diventa irrilevante.