giovedì 27 giugno 2013

l'amor proprio, il povero Émile e Justine


il fiducioso Émile


Nel suo Émile ou de l’education Jean Jacques Rousseau dà una definizione dell’amor proprio che è passata alla storia nonostante contenga un errore argomentativo talmente manifesto che non sfuggirebbe neppure a un bambino; di sicuro non sfuggirebbe a quello stesso Émile che questo trattatello pedagogico vorrebbe educare. Dice infatti Rousseau: “Poniamo come massima incontestabile” (la traduzione dal francese è mia) “che i primi movimenti della natura si svolgano in senso retto. Non vi è perversione originale nel cuore umano: non si riuscirà a trovare un solo vizio di cui non si possa dire come vi sia entrato. La sola passione naturale dell’essere umano è l’amore di sé o amor proprio, preso in senso lato. Questo amor proprio considerato in sé o relativamente a noi è buono e utile; e poiché non ha rapporto necessario con l’altro, è in questo senso naturalmente indifferente”.

Se Rousseau si fosse davvero trovato in presenza del suo adorato Émile, che nel quarto libro di questa operetta avendo ormai superato l'infanzia sembra avviarsi a una più che splendida adolescenza - o anche dell'Emilietta di cui si parla nel quinto libro, anzi di Sophie, la vera controparte femminile di Émile - si sarebbe come minimo trovato in imbarazzo (segno che i suoi insegnamenti filosofici sarebbero quantomeno serviti a qualcosa), si sarebbe senz'altro sentito dire, anzi domandare dal suo sempre più metodologicamente dubitante Émile: maestro amato, come potrebbe l’amor proprio, anche a considerarlo in sé, non avere né possedere nessun rapporto necessario con l’altro? come potrebbe questo tuo amor proprio non fare un tutt’uno con il concetto di altro se gli uomini e le donne nascono comunque all’interno di una precisa comunità, indipendentemente dalla sua estensione, e se questo immediato e continuo bisogno di difendere se stessi (su cui tu fondi il tuo concetto di amor proprio) ha senso solo se ammetti che ci si debba difendere sempre e comunque da qualcosa – non solo da quella natura che tu consideri tanto “buona” ma anche dall’altro da me? E inoltre, maestro, se la natura è così generosa come tu credi e sostieni, che bisogno avevi di occuparti di me? Per quale motivo non mi hai lasciato libero e felice come un alberello abbandonato a se stesso?

Insomma, se Émile avesse letto quel volumetto ideato e scritto appositamente per farne un uomo sarebbe diventato un fautore dello scetticismo metodologico, un fanatico di Cartesio, il peggio del peggio, mentre c'era invece da augurarsi un Émile sempre più recalcitrante e sempre più convinto, un Émile che alla fine della lettura invece di perdersi in un mare di dubbi avesse detto semplicemente: mi lasceresti maestro leggere per una buona volta qualcosina del marchese de Sade, che adesso ha solo vent’anni e fa correre la cavallina, o le giumente, ma che non ho dubbi tra qualche anno, quando lo rinchiuderanno nella Bastiglia, scriverà sulla natura in maniera un po’ meno ipocrita di quanto non continui a fare tu da quando sono nato? 



lunedì 24 giugno 2013

il successo e la mediocrità




"La conseguenza è un ingrediente. Una volta si credeva che il successo di una determinata azione non fosse la conseguenza di questa azione ma un semplice ingrediente arbitrario, cioè messo da Dio. Si può concepire una confusione più grande di questa? Allora ci si doveva dar da fare su due strade diverse: per l'azione e poi per ottenere il successo, utilizzando i mezzi più disparati."

Questo (la traduzione dal tedesco è mia) lo scriveva Nietzsche in quel gran libro di frammenti sulla morale che è Aurora. Insomma, come dire che ai suoi tempi si era reintrodotto il concetto del valore di qualcosa, e che una qualsiasi azione o produzione meritoria avrebbe avuto successo indipendentemente da tutto il resto. Oggi Nietzsche sorriderebbe nel vedere come il successo di tanta odierna insulsaggine sia di nuovo l'altra faccia di un'entità schizofrenica: da una parte ci si dà da fare per produrre questa mediocrità senza pensare ancora al futuro; poi una volta ottenuta questa mediocrità si comincia a pensare a come far arrivare quel successo che si è consapevoli non verrebbe mai senza sgomitare o mettere in atto tutta una serie di pratiche che offuschino il nulla che si è prodotto.    

giovedì 20 giugno 2013

Fiction, Africa, guerriglia, medici nazisti e emissari neri della mafia

                                                   Cascate Vittoria e ponte sullo Zambesi  



Ripubblico qui in italiano un mio pezzo inglese uscito a Londra alla fine del 2001 e ormai introvabile in originale. L'ho semplicemente ripreso e tradotto.





                                                                                      alla memoria di Miriam Basner


C’è un capitolo della storia dei movimenti anticolonialisti africani che a un certo punto, per quanto mi riguarda, si intreccia con un capitolo della topografia londinese: precisamente col Cinema Rio di Dalston, zona a nord est di Londra,

mercoledì 19 giugno 2013

I soldi dei contribuenti e l'anacoluto



“Mi sono spesso domandato, anzi meravigliato di un fatto …” Inizia così uno dei pochi frammenti rimasti di un'orazione che gli antichi attribuivano a Alcidamante, un retore ateniese il cui stile Aristotele, suo contemporaneo, considerava troppo carico e pieno di immagini non realistiche (ma ogni cosa andrà letta sempre cum grano salis se quandoque bonus dormitat Homerus, se anche Omero ogni tanto sonnecchia). Alcidamante, sconosciuto alla massa dei mediocri che determinano le estetiche del presente – estetica nel senso di ciò che si finisce per sentire come "giusto", il che avviene quando un particolare ma potente gruppo radicato nel sociale riesce a imporre la propria mediocre visione delle cose (grossi giornali e televisioni) e questa diventa, come in ogni lager che si rispetti, il giusto metro. Cosa diceva questo Alcidamante, che pur appartenendo al partito ultra conservatore fu uno degli iniziatori di una certa seria riflessione sul concetto di schiavitù (se cioè la distinzione tra schiavi e liberi avesse un senso considerata una comune base di partenza, un venire al mondo tutti alla stessa maniera) di cosa si meravigliava nell'orazione di cui ho citato l'inizio? Si stupiva del fatto che molti dei politici che ai suoi giorni salivano in tribuna a dare consigli agli Ateniesi dimostravano coi loro discorsi di essere assolutamente inutili alla causa comune, nessun senso dei reali bisogni della comunità (ἀφ' ὧν ὠφέλεια μὲν οὐδεμία ἐστὶ τῷ κοινῷ, una frase che se pronunciata nel modo in cui la pronunciavano allora, cioè come i greci di oggi, suona di una semplicità disarmante: af on ofèlia men udemìa estì to kinò); e aggiunge Alcidamante: tutto ciò che invece ci è dato ascoltare ogni giorno è un'infinità di insulti reciproci (lidorìe de pliste ghìgnonte en allìlis). Voila! tutto qui. Peccato che sia difficile trovare Alcidamante in traduzione, anche se in giro qualcosa dovrebbe esserci, e pure in italiano (non mi ricordo se sia incluso nella bella edizione dei sofisti curata da Untersteiner in un'epoca in cui non c'eravamo ancora, e che non ho voglia adesso di cercare nella mia biblioteca), ma nel caso in cui si riesca a trovare qualcosa, non potrà non giovare e tornare utile soprattutto a chi nel mondo delle idee, anche spicciole e da carta stampata e non stampata, crede ancora di essere un pensatore originale; potrà anzi trarne insegnamenti inattesi considerando che in fondo si ha a che fare soltanto con un "retore minore", anche se ovviamente dormirà sonni un po' meno tranquilli. Ma tutto questo per dire come venivano allora e come vengono spesi oggi i soldi del comtribuente. Nessuna pubblica utilità whatsoever

martedì 11 giugno 2013

invidia

Più che nei versi 109-111 del primo canto dell’Inferno (o più che altrove in questa stessa cantica), una più realistica descrizione delle alterazioni psico-fisiche che l’invidia produce in un qualsiasi invidioso Dante l'ha data nel Purgatorio, e in particolare in quel passo in cui Guido del Duca con estrema precisione gli descrive ciò che ha potuto di questa affezione osservare in se stesso. È in effetti non facile dover ammettere che all'invidia sia stata riservata - è il senso di questo percorso che Dante le fa fare dall'Inferno al Purgatorio - una specifica forma di espiazione. Non sembrerebbe esistere, infatti, pena sufficientemente grande per chi si abbandona a questa bestia spirituale che modifica l’aspetto esteriore di un uomo o di una donna nel modo che tutti sappiamo:

Fu il sangue mio d'invidia sì riarso
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m'avresti di livore sparso

Non vi è individuo che fin dalla più tenera età non ne faccia esperienza, se sant'Agostino nelle Confessioni dice di aver visto un bambino guardare con penoso livore un altro bambino, suo fratello; e alberga, questa invidia, più nel mondo intellettuale e degli scrittori e degli artisti che in quello dell’uomo qualunque: le università ne sono pregne e anzi proprio chi nel mondo accademico, a giudicare dalle capacità e dalla non comune qualità del suo lavoro, dovrebbe esserne immune, appare roso dall’invidia fin nel midollo, ne è plasmato nella fisionomia, modificato nel colore, come nei versi di Dante. Lo stesso dicasi di tutti quegli ambienti dove strumento professionale è la parola: giornali e televisioni prima di tutto, ma anche di quei luoghi dove la parola dovrebbe essere preghiera: comunità monastiche, diocesane ecc.

Che l'invidia sia trattata in Dante così contraddittoriamente (una volta le fa infestare l’Inferno un’altra il Purgatorio) non viene in realtà mai preso in considerazione nei tanti commenti inutili che i ragazzi nelle scuole sono costretti a leggere. Eppure questa sorta di duplice localizzazione dell'invidia era forse l'unico artificio a cui il buon Dante - che dell'invidia fu vittima - avrebbe potuto ricorrere se voleva che l'intero impianto della Divina Commedia non gli crollasse addosso: perché se l’invidia l'avesse messa soltanto nell’Inferno, non ci sarebbero stati né Purgatorio né Paradiso: avrebbe dovuto fare un unico calderone di anime in pena.   

giovedì 6 giugno 2013

Don Abbondio e i gay



Per quale motivo l’Italia sulla questione dei diritti gay è rimasta l’ultima ruota del carro, il fanalino di coda? Per due ragioni, in realtà. La prima è che i politici tartufi non hanno mai capito niente di ciò che gli italiani nel profondo sentono, di come funzionano: sono distanti galatticamente dal comune sentire - e paradossalmente lo sono più i politici di sinistra che di destra. La seconda ragione è che questi stessi politici prosperano sul clima da stadio che loro stessi fomentano, di feroce contrapposizione ideologica anche nelle questioni che rivestono un ovvio interesse collettivo. Tutto qui. La Chiesa fa il suo mestiere, non c’entra niente con la bancarotta fraudolenta della politica italiana.



Ci sarebbe una terza ragione, che però a mio avviso allo stato attuale gioca più a favore che contro. L’Italiano nasce conformista: ossessionato dall'idea della bella e brutta figura. È un popolo che vive di cliché più di ogni altro: all'italiano hanno fatto credere di essere l'erede di una nazione di santi e navigatori e che un nome nella storia lo si conquisti con la furbizia non con l'intelligenza; di conseguenza la prende male se un altro paese gli rifà il verso, se lo sfotte chiamandolo spaghetti e mandolino. 



Perché dico che questo conformismo favorirà una legge sui matrimoni gay? Perché guardandosi gli italiani attorno e vedendo che in tutti gli altri paesi i matrimoni gay sono ormai la norma, sentiranno di poterlo fare anche loro senza nessun rischio, al riparo da una realistica discussione sull'effettiva virilità del maschio italiano o - dal punto di vista delle donne e delle madri - di quella dei mariti, fidanzati, figli eccetera. Gli italiani questo lo hanno capito: tardi ma l'hanno capito. Hanno capito di essere rimasti gli ultimi. I politici però ancora non l’hanno capito: non è bastato nemmeno che un anno fa Rai 1 sdoganasse in prima serata il primo bacio cosiddetto gay della sua storia, non si accorsero, accecati dalla stupidità, che ben sette milioni di persone restarono incollate alla televisione e continuarono a guardare il film e che non ci fu nessuna reazione isterica.

                                                              Michelangelo censurato


Che cosa aspettano perciò i politici italiani? Probabilmente aspettano che anche la Gran Bretagna – paese omofobo più di quanto non si pensi – approvi dopo i registri civili del 2004 anche una legge sui matrimoni veri e propri, cosa che sta avvenendo in questi giorni. A quel punto il povero italiano, trattato continuamente a pesci in faccia dai suoi politici peracottari, chiedendosi se non si stia per fare l’ennesima brutta figura, si sentirà dire dai suoi tartufi scansafatiche: facciamo una legge anche noi, perché adesso proprio non possiamo evitarla, rischiamo una sonora pernacchia globale. E a fare pernacchie l’italiano non è secondo a nessuno ma se gliene fai una fatta per bene lo distruggi. Ecco come avverrà che una legge sulle coppie di fatto, in mancanza di meglio, sarà approvata anche in Italia. Non perché stia veramente a cuore la questione dei diritti civili ma per evitare la classica figura di m. 

                                      Cold Star by Kai Stänicke

martedì 4 giugno 2013

L'uovo e la gallina

                                      Wilamowitz e Sauppe

Voglio accennare a uno dei più gravi problemi che angustiano la vita di chi studia Plutarco. Sono stati  versati su riviste specialistiche fiumi di parole. La sostanza della questione è la seguente: quale delle due biografie Plutarco scrisse per prima, quella di Cesare o quella di Bruto?