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lunedì 10 febbraio 2014

Il giardino d'inverno

Posto dopo Il caffè avvelenato un seccondo brevissimo racconto dal Carnevale di una logoterapista, una serie di quaranta racconti metropolitani scritti a Londra nel 1994 quando ero ancora in fasce. Questo fu pubblicato in inglese su una rivista di Edimburgo.

 
Londra. Occhio di pavone a Isabella Plantation  - foto David Hawgood (Wikipedia)


 Un giorno qualsiasi della settimana, verso l'ora di pranzo, non meno di venti persone stavano per entrare nel

venerdì 24 maggio 2013

Land diving, Pentecost Island e lo zapping


                                      Gabbiano al Vittoriano - foto di Lance 94

Quando un inglese della classe media vuole farti capire che è al limite della sopportazione fa un gesto che per lui è normale: alza velocemente gli occhi al cielo e in un attimo te li ripunta addosso. È un semplice movimento leggermente in diagonale rispetto al normale asse visivo, in cui però la testa resta immobile, ma se non sei inglese è inutile che provi a imitarlo. Una cosa simile la fanno anche gli italiani, che però invece di riportare subito gli occhi a terra, di tuffarsi di nuovo negli occhi dell’interlocutore, continuano a fissare in alto.



Land diving (tuffarsi verso terra) è non a caso un'espressione inglese. Indica non tanto uno sport estremo quanto un rituale religioso, propiziatorio: lo stesso che poi ha dato nascita al moderno bunjee jumping. Nell’isola di Pentecoste, nello Repubblica di Vanuatu (gruppo di isole chiamate ancora Nuove Ebridi quando ebbi la fortuna di vederle da piccolo), a quasi duemila chilometri dalla costa australiana nell'Oceano Pacifico, gli uomini ancora oggi si abbandonano a questo affascinante rito, che in lingua locale si chiama mi pare nagol, o forse ngol: dopo avere assicurato le caviglie a una liana e sotto lo sguardo di centinaia di turisti si lanciano in un certo periodo dell’anno da un'alta torre fatta di rami tutti intrecciati, le punte acuminate: una cosa impressionante per come la rivedo – o forse era solo lo sguardo di un bambino. Veniva un tempo in questo modo eletto il capo tribù: colui che riusciva a saltare dal punto più alto - e le torri raggiungevano anche i trenta metri. Ovviamente rischiavi di crepare, di rimanere infilzato.



Oggi il bunjee jumping è uno sport relativamente sicuro. Lo fanno un po’ dappertutto e forse non c'è nessuno che non l'abbia ancora visto. Vedendo il bunjee jumping versione moderna per la prima volta a Londra, un pomeriggio che camminavo verso Chelsea Bridge Road in direzione del ponte e dell'imponente struttura costruita per questo genere di tuffi legati a un cavo, mi rivenne da pensare all’isola di Pentecoste, e alle cose che da piccolo cercarono di farmi intendere di quel rito propiziatorio. E facendo un confronto, guardando questi uomini e donne completamente imbracati, pieni di ganci, moschettoni, cinture di sicurezza e confortati da premurosi istruttori, è difficile non rendersi conto di come l'umanità abbia fatto notevoli passi avanti, sperimentato uno sviluppo veramente galattico sul piano sociale e psico-evolutivo se si considera che si è passati dallo scegliere un capo tribù utilizzando arcaici criteri religioso-agonistici all'individuazione della semplice bravura in uno qualsiasi di questi sport estremi in cui si è circondati da tutto un corteggio di paramedici e ambulanze. Inoltre, se il capo tribù si trovava allora in un certo senso soffocato e rintronato per giorni dall'ammirazione collettiva della sua gente, il nostro campione la sera tornato casa si trova in compagnia delle rassicuranti pareti domestiche, dei suoi mobili più o meno di fabbrica, del pc e della televisone, oltre che del necessario cellulare: e se si tratta di una donna è immeditamante presa da tante altre cure e responsabilità (normalmente in cucina a preparare la cena), se invece è un uomo, la prima cosa che fa è spogliarsi e buttarsi sul divano, allungare le gambe sul tavolino in modo da poter subito iniziare a muovere le dita dei piedi e a scaricare la tensione accumulata nella competizione. Poi, col telecomando in mano (questa sorta di scettro), comincia a fare zapping, a passare da un canale all’altro fino a ritrovarsi magicamente a quello di partenza. Insomma il campione, pur dando l’impressione, a differenza della campionessa, di volersi fermare, non smette mai in realtà neppure lui di tenere occupati la mente e il corpo.


Tutto ovviamente dipende dai punti di vista, e quelli di una donna non coincideranno mai alla fine con quelli di un uomo, checché ne dicano i nemici della generalizzazione. Così una mia amica - che pure è una buona velista - mi dice che ogni volta che il marito torna a casa stanco da una partita di calcetto e si sdraia sul divano davanti alla televisione, lei immancabilmente, da un po' di anni a questa parte, non fa che ripetergli la stessa cosa: "te lo dico una volta per tutte: mi so' stufata di trovarmi tutte le sere questa salma davanti!"

venerdì 3 maggio 2013

L'eta giusta per pubblicare e il ragioniere



                                     Seguier durante l'entrata di Luigi XIV a Parigi


Tentare di pubblicare per la prima volta sottintende - diciamolo subito - il desiderio di un riconoscimento: essere considerati dei pari: cercare in tutti i modi di inserirsi in un ambiente al quale ancora non si appartiene, nel quale ancora non si è stati ammessi. Ricordo anni fa un amico d'infanzia, col quale continuavamo a divertirci pure da adulti, mi disse: “adesso sono un personaggio pubblico!” Lo disse soddisfatto, senza nessuna ironia. Ebbi allora l’impressione, anche perché non era eccessivamente alto, di trovarmi finalmente di fronte all’incarnazione di ciò che fino ad allora conoscevo solo come termine di dizionario: un salapuzio. Smisi di cercarlo. In realtà il suo nome apparve per pochissimo tempo su certe locandine e per quel poco che ne so credo che anche in seguito non abbia ottenuto quella visibilità che forse inizialmente si aspettava. In più ha perso un amico. E me ne dispiaccio, perché insieme si giocava veramente bene, almeno nel modo in cui lo facevamo noi.

C’è inoltre in Italia - a parte un legttimo desiderio di "pubblicare" - una certa ossessione per l’età giusta, quella che bisogna necessariamente avere quando si pubblica per la prima volta, cioè attorno ai vent'anni. Il che mi sembra di buon auspicio se è vero quanto si dice da millenni: che chi muore a vent'anni è perché gli dei lo amano. Ma sia pure. Pubblichi a vent'anni. Sei forse Mozart, che a undici anni musicava l'Apollo e Giacinto? Cosa mi racconti poi nei tuoi romanzi scritti a vent'anni? il numero dei contatti che hai su FB? il numero delle cliccate ricevute o il fatto che “a quello l’ho proprio pisciato perché c’aveva solo 15 followers"? Può anche andarmi bene, e anzi mi piace, ma se me lo ripeti dalla prima all'ultima riga preferisco sentirlo dal vero.

Di Umberto Ecco si legge su un blog letterario la risposta che ha dato a un ragazzo che voleva inviargli un suo manoscritto. Quest'uomo ormai ai vertici della fama - il che significa anche fuori dell'Italia - con le mani in pasta dovunque (riviste, quotidiani, corsi universitari, saggi, romanzi eccetera), dice al povero e sconosciuto aspirante alla gloria che purtroppo non potrà leggerlo. La sua risposta è emblematica: è un paradigma di paradossale gesuitismo, dove cioè si ammette e non si ammette nessun relativismo. Avrebbe potuto tagliar corto e fare come Bacon, che al pittore che in un pub chiedeva se poteva mostrargli le sue opere dice continuando tranquillamente a bere: "non ne ho bisogno, vedo già dalla cravatta che porti che non hai nessun talento". Con piglio invece da contabile più che da professore erasmiano Eco squaderna la sua memorabile agenda e spiega quali sono i motivi del suo rifiuto. Praticamente la mancanza di tempo. La mia giornata è così regolata, dice Eco: 5 min. per questo, dieci per questo, 23 per questo, un’ora e venti per questo, 2 ore per questo. E suggerisce al futuro romanziere di inserirsi negli ambienti delle riviste e cominciare a poco a poco a fare gavetta.

Un mio collega all’università a Londra ma di un altro dipartimento, genio dell'informatica, una ventina d'anni più di me, un bel giorno che eravamo fuori per il lunch e parlavamo di Giappone e di architettura contemporanea mi dice all'improvviso: “ma sai, io fino a qualche anno fa non ero per niente conosciuto nel mio campo, mi ero sempre occupato di urbanistica, lavoravo in un semplice studio dietro King’s Road: poi a quarant’anni ho fatto un altro PhD e eccomi qua a cinquanta a insegnare quello che sai".

L’ossessione dell’età non è poi un fatto troppo curioso in Italia (che non è per niente il reame dei navigatori dei poeti e dei santi - e la Francia ha fondato da sola più ordini monastici lei che tutti gli altri messi insieme): una nazione, la nostra, interessata più alla “bella figura” che alla sostanza - altri segni evidenti di questa sibaritica confusione e incertezza mentale e intellettuale sono l’intricata burocrazia e il desiderio di leggere i propri fatti sui siti stranieri - cosa dicono ad esempio  il Guardian, Le Monde o il Frankfurter Algemeine o El Pais se l'ultimo dirigente di un partito se l'è fatta adddosso. C’è proprio da immaginarli i britannici mentre consultano i giornali stranieri per vedere se si parla di loro, nelle piccole come nelle grandi cose.  

Montaigne non pubblicò quasi niente, il suo diario di viaggio venne stammpato un paio di secoli dopo, e quando pubblicò la prima edizione dei Saggi aveva quarantasette anni. Stendhal, a parte alcune cosucce su Rossini e Cimarosa e altre amenità, diede alle stampe il suo capolavoro, Il rosso e il nero, a cinquant’anni, forse qualche annetto in meno, ma nel tempo perso si divertì alla grande e soffrendo anche per amore e ad ogni modo nella maniera che descrive magistralmente in una delle sue opere più belle, pubblicata postuma, Ricordi di egotismo

E per sfortuna di tanti autori che credono di aver toccato i primi gradini della fama, di avere svoltato, di essersi finalmente inseriti da qualche parte mentre tra qualche anno ne ritroveremo i tristi volumi accatastati nei remainders, oggi c’è internet, su cui pubblicano tutti, e tutti possono farlo. Se fossi stato quindi nei panni di Eco avrei detto a quel ragazzo: vediamoci da qualche parte e ci prendiamo un bel caffè e chiacchieriamo d'altro: per quale motivo prendersi tanto sul serio, cercare di entrare dentro un ambiente nel quale sai bene, a giudicare dalla lettera che mi hai scritto, che non ti accetterebbero, e all'interno del quale, ammesso che tu riesca a passare e fossi pure uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, saresti in compagnia di tantissima mediocrità ... Avrebbe usato anche meno parole, il ragionier Eco. Un gran risparmio sul suo prezioso tempo.
  

lunedì 29 aprile 2013

La medicina i germi e la letteratura. Un ricordo di Isaac Bashevis Singer




                            Brueghel il Vecchio - La parabola del cieco


Dice Neville, il personaggio del mio romanzo inglese citato nel post su Chatwin, che l’inglese parlato a Londra è una realtà polverosa (dusty) se lo si confronta con l’inglese di New York. Polveroso è un termine che non saprei come meglio definire; ed effettivamente in generale non saprei dare nessuna spiegazione delle cose che scrivo se non che il modo in cui le scrivo è il miglior modo in cui  potrei farlo.

Oggi credo che Neville, che parlava in epoca post-Thatcher, quando a governare la Gran Bretagna c’era l’anche più grigio Major, verrebbe a contatto, tornando a New York, con un inglese newyorkese meno magico, e forse più asettico: di sicuro non ritroverebbe più molti di quei piccoli caffè dove gli piaceva andare sulle orme di Isaac Bashevis Singer (che scriveva in yddish) alla ricerca di qualche volto che pensa di aver perduto per sempre - e di cui parla a Fanfan, il giovane narratore, che ormai teme di essere finito nelle mani di uno psicopatico:
 
   ‘… perhaps death is not the end, and people do miraculously live on, even if just in the memory of those who knew them.’
    
   “... forse la morte non è tutto, e le persone continuano a vivere, fosse anche nella memoria di chi le ha conosciute. Ma sono veramente morte?”

Ma proprio grazie a Singer, cioè grazie alla letteratura, Neville ritrova ugualmente la sua New York: il luogo di ogni possibile incontro, anche con chi crede che sia già morto. E quando scrivevo questo romanzo mi sembrava di capire che Neville fosse andato a New York proprio per cercare di ritrovare nelle sue strade, in uno dei tanti volti di quella città, sua nonna Zita, che in punto di morte gli impedirono di vedere, rinchiusa in una stanza asettica. La rivide soltanto nella forma impalpabile di una colonna di fumo che saliva dalla ciminiera del crematorio. Il suo pensiero, allora, era stato abbastanza frivolo, forse perché sognava o immaginava che l’avrebbe comunque nuovamente incontrata. Dice tranquillo, a un Fanfan circospetto, che di quella cremazione l’aveva incuriosito soltanto un particolare tecnico:
  
   “Nel momento in cui Zita veniva cremata, qualcuno – credo fosse l'impiegato delle pompe funebri – mi disse che le differenti parti del corpo bruciano separatamente. Una cosa che già sapevo, ovviamente: il teschio resta intatto fino alla fine. E poi esplode” (‘the skull is left to the last. It explodes’).
  
Non si riesce a capire se Fanfan, che sta diventando cieco, creda veramente all’inquietante Neville quando Neville gli dice a un certo punto di essere un medico. Non sembra nemmeno voler capire se ci sia ironia quando dopo vergli detto che l’ultimo libro di Singer è una fogna di noia (totally dreary), Neville aggiunge, su quei suoi possibili incontri con gente scomparsa:
  
“I haven’t ever really recognized anybody, though I haven’t given up looking …”
  
“Non ho mai riconosciuto nessuno, anche se ovviamente non ho mai smesso di guardare …”