venerdì 3 maggio 2013

L'eta giusta per pubblicare e il ragioniere



                                     Seguier durante l'entrata di Luigi XIV a Parigi


Tentare di pubblicare per la prima volta sottintende - diciamolo subito - il desiderio di un riconoscimento: essere considerati dei pari: cercare in tutti i modi di inserirsi in un ambiente al quale ancora non si appartiene, nel quale ancora non si è stati ammessi. Ricordo anni fa un amico d'infanzia, col quale continuavamo a divertirci pure da adulti, mi disse: “adesso sono un personaggio pubblico!” Lo disse soddisfatto, senza nessuna ironia. Ebbi allora l’impressione, anche perché non era eccessivamente alto, di trovarmi finalmente di fronte all’incarnazione di ciò che fino ad allora conoscevo solo come termine di dizionario: un salapuzio. Smisi di cercarlo. In realtà il suo nome apparve per pochissimo tempo su certe locandine e per quel poco che ne so credo che anche in seguito non abbia ottenuto quella visibilità che forse inizialmente si aspettava. In più ha perso un amico. E me ne dispiaccio, perché insieme si giocava veramente bene, almeno nel modo in cui lo facevamo noi.

C’è inoltre in Italia - a parte un legttimo desiderio di "pubblicare" - una certa ossessione per l’età giusta, quella che bisogna necessariamente avere quando si pubblica per la prima volta, cioè attorno ai vent'anni. Il che mi sembra di buon auspicio se è vero quanto si dice da millenni: che chi muore a vent'anni è perché gli dei lo amano. Ma sia pure. Pubblichi a vent'anni. Sei forse Mozart, che a undici anni musicava l'Apollo e Giacinto? Cosa mi racconti poi nei tuoi romanzi scritti a vent'anni? il numero dei contatti che hai su FB? il numero delle cliccate ricevute o il fatto che “a quello l’ho proprio pisciato perché c’aveva solo 15 followers"? Può anche andarmi bene, e anzi mi piace, ma se me lo ripeti dalla prima all'ultima riga preferisco sentirlo dal vero.

Di Umberto Ecco si legge su un blog letterario la risposta che ha dato a un ragazzo che voleva inviargli un suo manoscritto. Quest'uomo ormai ai vertici della fama - il che significa anche fuori dell'Italia - con le mani in pasta dovunque (riviste, quotidiani, corsi universitari, saggi, romanzi eccetera), dice al povero e sconosciuto aspirante alla gloria che purtroppo non potrà leggerlo. La sua risposta è emblematica: è un paradigma di paradossale gesuitismo, dove cioè si ammette e non si ammette nessun relativismo. Avrebbe potuto tagliar corto e fare come Bacon, che al pittore che in un pub chiedeva se poteva mostrargli le sue opere dice continuando tranquillamente a bere: "non ne ho bisogno, vedo già dalla cravatta che porti che non hai nessun talento". Con piglio invece da contabile più che da professore erasmiano Eco squaderna la sua memorabile agenda e spiega quali sono i motivi del suo rifiuto. Praticamente la mancanza di tempo. La mia giornata è così regolata, dice Eco: 5 min. per questo, dieci per questo, 23 per questo, un’ora e venti per questo, 2 ore per questo. E suggerisce al futuro romanziere di inserirsi negli ambienti delle riviste e cominciare a poco a poco a fare gavetta.

Un mio collega all’università a Londra ma di un altro dipartimento, genio dell'informatica, una ventina d'anni più di me, un bel giorno che eravamo fuori per il lunch e parlavamo di Giappone e di architettura contemporanea mi dice all'improvviso: “ma sai, io fino a qualche anno fa non ero per niente conosciuto nel mio campo, mi ero sempre occupato di urbanistica, lavoravo in un semplice studio dietro King’s Road: poi a quarant’anni ho fatto un altro PhD e eccomi qua a cinquanta a insegnare quello che sai".

L’ossessione dell’età non è poi un fatto troppo curioso in Italia (che non è per niente il reame dei navigatori dei poeti e dei santi - e la Francia ha fondato da sola più ordini monastici lei che tutti gli altri messi insieme): una nazione, la nostra, interessata più alla “bella figura” che alla sostanza - altri segni evidenti di questa sibaritica confusione e incertezza mentale e intellettuale sono l’intricata burocrazia e il desiderio di leggere i propri fatti sui siti stranieri - cosa dicono ad esempio  il Guardian, Le Monde o il Frankfurter Algemeine o El Pais se l'ultimo dirigente di un partito se l'è fatta adddosso. C’è proprio da immaginarli i britannici mentre consultano i giornali stranieri per vedere se si parla di loro, nelle piccole come nelle grandi cose.  

Montaigne non pubblicò quasi niente, il suo diario di viaggio venne stammpato un paio di secoli dopo, e quando pubblicò la prima edizione dei Saggi aveva quarantasette anni. Stendhal, a parte alcune cosucce su Rossini e Cimarosa e altre amenità, diede alle stampe il suo capolavoro, Il rosso e il nero, a cinquant’anni, forse qualche annetto in meno, ma nel tempo perso si divertì alla grande e soffrendo anche per amore e ad ogni modo nella maniera che descrive magistralmente in una delle sue opere più belle, pubblicata postuma, Ricordi di egotismo

E per sfortuna di tanti autori che credono di aver toccato i primi gradini della fama, di avere svoltato, di essersi finalmente inseriti da qualche parte mentre tra qualche anno ne ritroveremo i tristi volumi accatastati nei remainders, oggi c’è internet, su cui pubblicano tutti, e tutti possono farlo. Se fossi stato quindi nei panni di Eco avrei detto a quel ragazzo: vediamoci da qualche parte e ci prendiamo un bel caffè e chiacchieriamo d'altro: per quale motivo prendersi tanto sul serio, cercare di entrare dentro un ambiente nel quale sai bene, a giudicare dalla lettera che mi hai scritto, che non ti accetterebbero, e all'interno del quale, ammesso che tu riesca a passare e fossi pure uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, saresti in compagnia di tantissima mediocrità ... Avrebbe usato anche meno parole, il ragionier Eco. Un gran risparmio sul suo prezioso tempo.
  

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