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venerdì 19 dicembre 2014

Quando Leopardi toppava. fisica statistica e coscienza collettiva

La psicologia e la psicanalisi non sono altro che una collezione di strumenti grossolani e manipolatori sprovvisti di qualsiasi base strutturale, non in grado quindi, con tali presupposti, di rendere l'effettiva realtà dei movimenti interiori generati a livello molecolare e atomico. Alcuni scrittori riescono a descrivere in maniera incredibilmente sottile gli "stati d'animo", i passaggi continui tra uno "stato d'animo" e l'altro. Ma "stato d'animo" (o anche psicologia di un personaggio) resta una nozione dozzinale (la critica letteraria attinge a piene mani a questo tipo di "strumenti" critici): rivela nella sua infeconda genericità tutti i suoi limiti, dovuti essenzialmente alla mancanza di verificate corripondenze.

L'ugualmente generico concetto di forze d'attrito, ancora piuttosto in voga anche nei testi di fisica teorica, quanto meno quando si tenta di spiegare il senso di alcuni formalismi e astrazioni, si presterebbe molto meglio a definire i rapporti interpersonali: a determinare il visibile e il non visibile, se non altro per le sue più interne implicazioni fisiche. Una qualsiasi interazione tra due persone, nel momento in cui intervengono il corpo o la parola, comporta un tale sconvolgimeno "interno" (basterebbe misurare con un termometro ciò che avviene al corpo sotto la "spinta" della cosiddetta "invidia"), che il fatto può approssimarsi a ciò che succede a livello microscopico quando due superfici vengono a contatto generando calore, il quale non è altro poi che il risultato di una determinata media di tutte le interazioni elementari tra questi due corpi, quando il movimento viene passato ai cosiddetti gradi di libertà delle molecole e degli atomi - in più, la teoria degli errori, come si studia e si studiava quando studiavo fisica io e preparavo in laboratorio l'esame di fisichetta (esperimentazioni di fisica) starebbe lì in qualche modo a ricordarti che omnia munda mundis, che insomma la tua malafede è meno facilmente mascherabile con dei numeri. Una visione meccanicistica quanto si vuole ma ineludibile sul piano della concretezza sperimentale (chi ha detto che Dio è contro il meccanicismo visto che ci ritroviamo a fare i conti con l'immensa macchina dell'universo?)

La "scienza" psicologica, quindi, avrebbe tutto da guadagnare da un costruttivo mea culpa, se cioè iniziasse a considerare quello che effettivamente è stata finora: una grossolana descrizione di fenomeni macroscopici che non sa tener conto dei fenomeni microscopici, il cui unico strumento interpretativo non può che essere che la fisica statistica, quella che opera sulla nozione di media. In questo senso i moderni sondaggi - per quanto resi inutili dall'inguaribile guittismo dell'individuo, dalla sua insanabile tendenza alla menzogna, dalla sua insopprimibile paura - hanno posto le basi per una corretta impostazione del problema, modificando il generico concetto di "stato d'amimo" in quello di "coscienza collettiva". Naturalmente i risultati restano imprecisi: i fenomeni sono abbordabili ancora soltanto a livello macroscopico, come nel caso delle misurazioni elaborate da quei computer e programmi che misurano le reazioni di massa a eventi "epocali"; oppure c'è discrepanza tra risultati ed effettivo sentire, come nel caso della maggior parte dei sondaggi per la ragione accennata - problema che si era posto già san Benedetto nella sua Regola quando nella preghiera comune, nella salmodia, suggeriva che la mente (lo spirito) dovesse accordarsi con la voce (ut mens nostra concordet voci nostrae).

Ma intanto, in attesa di un perfezionamento di tali strumenti, l'uomo e la donna contemporanei continueranno a illudersi di possedere le chiavi della "conoscenza" dei propri movimenti interni, che ci siano "arrivati" da soli o con la guida di uno psicologo o di uno psicanalista. In questo Leopardi toppava completamente: l'uomo moderno viveva e vive tuttora come l'uomo antico, di magia e illusioni - tra le quali rientrano anche le poche "conoscenze" che gli vengono dalla volgarizzazione della scienza. L'unico modo in cui riesce a convincersi che l'ossessivo e arbitrario concetto hegeliano di progresso storico abbia un senso.

lunedì 20 ottobre 2014

L'inganno dell'ascesi

νιπτόποδες, χαμαιεναι

che non si lavano i piedi, dormono per terra

Così Achille (Il., 16,35) parlando dei Selli, sacerdoti di Dodona, considerati i più antichi in Grecia. E vedi anche il frammento del'Eretteo di Euripide, conosciuto grazie unicamente a Clemente Alesandrino che lo cita nei suoi Stromata e che considera i versi un'imitazione di Omero:

... ἐν στρώτ πέδ
εδουσι, πηγας δ' οχ γραίνουσιν πόδας. (Er., fr. 367 Nauck)

... sulla terra nuda
dormono e non si bagnano i piedi alle fonti.

È sicuramente un dato di fatto che l'ascesi - nel senso di un lungo percorso costellato di ostacoli (di esercizi) che parte dall'umano e arriva fino al divino - non sia invenzione né del Giudaismo né del Cristianesimo e che nessuna religione in particolare possa dire di averla scoperta; ma è vero che è nelle religioni della colpa che esiste una stessa idea di un Dio che non può essere degnamente servito se non sperimentando una condizione di privazione e di estremo affaticamento di tutto il corpo: con l'esperienza fisica della durezza (e dovrei forse ricordare qui i foglianti del cardinal Bona, di cui a suo tempo traducevo il trattatello sulla Messa, l'uso della pietra cone cuscino). Tuttavia, anche questo concetto di privazione, di affaticamento, difficilmente potrebbe fondarsi su un'originaria idea di possesso: sarebbe vero l'opposto: è il possesso che va sempre definito a partire da un'idea di non accumulo (la questione non è se essere poveri sia un male, come da sempre cercano di dimostrare tutte le storiografie al servizio del capitale, dal quale dipendono: i termini povertà, indigenza, necessità sono ammantati di ideologia ancor prima di divenire operanti: non sono nemmeno una sorta di grado zero. Il grado originario è quello dell'uomo che nasce nudo (e non sa di esserlo) e sul quale in seguito si accumulano o stratificano tutte le possibili definizioni a venire.

Ogni forma di ascesi non può essere quindi un esercizio (è il senso d'altronde del greco askesis) di ritorno alle origini, quelle stratificazioni glielo impediscono; si tratta invece di un'elevazione proposta sulla base e come rifiuto di ciò che si possiede, che non può essere abolito e che non e assolutamente un dato originario: è in più un movimento verso l'alto invece che verso il basso - è conosciuta delle sacerdotesse di Dodona (non solo il più antico ma, almeno secondo Erodoto, in origine anche l'unico oracolo della Grecia) un'invocazione ricordata da Pausania:

Γ καρπος νίει, δι κλζετε Ματέρα γααν. (Paus., X, 12, 10)

La terra produce frutti, invocate perciò la Madre Terra.

Inoltre, qualsiasi ascesi che si ponga come scopo la conquista del cielo attraverso un ritorno a uno stato precedente di vita sulla terra non potrebbe darsi che come una certa maniera di oblio del presente e nello stesso tempo una reminiscenza del passato: è di conseguenza un'esperienza paradossale, una sorta di ossimoro, una contraddizione in termini: non si può, cioè, senza dimenticare completamente il presente riattualizzare nessun passato, il quale, a sua volta, se anche diventasse il nuovo presente, resterebbe per definizione all'origine di ciò di cui già era stato all'origine - è tra l'altro  la ragione del fallimento di tutte le riforme dei vari ordini religiosi avviate dall'interno della Chiesa (nonostante la sopravvivenza delle singole riforme (cistercensi dai benedettini, foglianti e trappisti dai cistercensi, stretta osservanza e cappuccini dai francescani predicatori eccetera). Il chiodo più vecchio  è sostituito da un chiodo apparentemente nuovo, ma che è invece più arrugginito del vecchio: è alla base di ciò che si credeva così superato.

Perciò, l'idea di un ritorno a uno stato precedente da cui ripartire è sempre funzione di una convinzione, di un'ideologia: è la presunzione di credere non solo che il presente si possa abolire, si possa cancellare, ma anche che il presente da abolire non sopravviva nel passato che si tenta di riattualizzare (che si tratti come nel Cristianesimo di un ritorno alla semplicità della propaganda evangelica o di un ritorno alla natura in religioni naturistiche). L'originaria Ragione non è assolutamente riattuabile se non attraverso un inganno ideologico. Di qui anche il fallimento di Hegel e di ogni hegelismo










sabato 16 agosto 2014

scontro tra generazioni e mistificazione della dialettica

Ci sarebbe da chiedersi a che punto si sia nella cosiddetta dialettica generazionale, comunemente intesa come scontro tra generazioni. E anche dialettica è termine che pure nel linguaggio comune è più o meno correttamente inteso, anche se usato a sproposito - la dialettica, nelle filosofie idealiste, presuppone sempre una avvenuta scissione di cui l'intelletto è causa e che anzi l'intelletto non fa che moltiplicare, stabilire all'infinito attraverso le opposizioni, in un suo tentativo, anzi in uno sforzo sovrumano di comprendere il reale - così certamente in Hegel; opposizioni che all'intelletto si presentano apparentemente come caratteristica più propria delle cose (a partire dall'opposizione del giorno e dalla notte: luce assenza di luce - con la forzatura che hanno sempre operato tutte quelle religioni che vedono invece la luce nascere dal buio, essere successiva al buio; e così anche il caldo e il freddo, il dolore e il piacere, la fame e la sazietà, la sete e la mancanza di sete).

Ma ovviamente la scissione è presente anche già in Platone: la descrizione dell'anima nel Fedro, l'immagine dei due cavalli, il cavallo nero e quello bianco, le sue due nature, quella che fa gravare verso terra e l'altra che spinge verso il cielo, verso l'iperuranio. In fondo non si tratta che di riconquistare, in questa visione delle cose, una supposta armonia preesistente che sembra offuscarsi per colpa del processo conoscitivo, il quale opera per opposizioni: una ricomposizione che secondo l'assolutismo di Hegel sarebbe possibile soltanto per mezzo della Ragione, non certo con l'intelletto, che continua a scindere il reale all'infinito. E tutto questo ovviamente attraverso un necessario processo storico (ci sarebbe da chiedersi anche come sia potuto avvenire che Nietzsche - nelle cui pagine non si trova mai un singolo punto di esaltazione del concetto di assolutismo, semmai il contrario - come sia stato possibile associare (anche ammettendo le colpe della sua odiata sorella, l'antisemita e nazista Elisabeth  Förster, la manipolazione dei suoi scritti) come sia stato possibile anche lontanamente associarlo al Nazismo, dal momento che la sua opera non è altro che una condanna senza eccezioni di ogni futuro nazismo, e non si sia invece associato al Nasizmo proprio Hegel, la cui idea di Storia quale tribunale del mondo (vedi il la sua filosofia del diritto) non può che portare, nelle sue conseguenze politiche, alla giustificazione di tutti i genocidi di questo mondo, a far riconoscere come necessità tutti gli assolutismi: non può che portare, l'idealismo di Hegel, alla giustificazione di tutte le Hiroshima e Nagasaki, a rendere giustificabile e incontrovertibile l'idea che nel mondo ci saranno sempre desaparecidos  - e in effetti quale sentenza di condanna avrebbe emesso questo fantomatico tribunale della Storia nel caso di Hiroshima e Nagasaki?). D'altra parte, la stessa Fenomenologia dello Spirito di Hegel è un delirio di onnipotenza del pensiero: è un perfetto delirio intellettualistico nel quale lo stesso fascinoso movimento della sua scrittura non fa che imitare un immaginato movimento dialettico che la coscienza naturale metterebbe in scena per arrivare a fare piena esperienza di sé come coscienza vera - e il punto dolente della dialettica di Hegel non è altro che questa concezione di una coscienza unica.

Ma anche ipotizzando la verità di un movimento dialettico della Storia, l'applicazione del termine dialettica allo scontro tra generazioni non sarebbe che un errore metodologico, di chi non comprende come funziona l'oggetto che a messo a punto, o di chi se ne serve senza sapere quando utilizzarlo. E' l'equivalente di un abuso ideologico. Questo scontro tra generazioni non si origina mai da un'armonia iniziale ( lo scontro tra generazioni si è tra l'altro oggi più che mai appiattito: il figlio non contesta più nemmeno il padre, che avrebbe capito come tenersi buono il figlio servendosi dei buoni auspici di uno sviluppo tecnologico sempre più accelerato: basta, a comprarsi il figlio, comprargli l'ultimo cellulare presente sul mercato, che non a caso avrà un tasso di obsolescenza elevatissimo). Permanendo tuttavia l'errore di considerare storicamente lo scontro tra generazioni come una dialettica, postulando il recupero di una supposta e inesistente armonia iniziale (non a caso la natura - a parte le eccezioni che confermano la regola - ha posto la femmina a protezione della prole: a proteggerla da un padre fagocitante) non si riuscirà a esplicare la sostanza di questo conflitto nella forma più giusta, cioè di una equazione: di un'identità (non armonia). Passati gli anni della contestazione, il figlio si fa sempre più simile al padre anche fenomenicamente (tale padre tale figlio): ne eredita gli strumenti di coercizione e dominio. In altri termini, questo supposto scontro generazionale, lungi dall'avere come scopo un recupero armonico attraverso il superamento nella storia di una posizione preesistente, è la riproposizione della stessa identità iniziale: la distruzione del padre per prenderne il posto non è altro che la conferma di un'assenza totale di movimento, di progresso (progredior - vado avanti). Tanto che per provare nella storia l'inesistenza di un qualsiasi movimento dialettico, di sviluppo, di superamento di una vecchia posizione assimilandola, basterebbe chiedere, a un qualsiasi ragazzo che vent'anni fa contestava il padre: voglio vedere da che parte stai oggi: se non stai esattamente dalla parte dalla quale non ti sei mai mosso (non solo non si è realizzata nessuna armonia ma permane lo stesso rapporto, la stessa identità di intenti di sempre, tra te che sei a tua volta diventato padre e vuoi mangiarti tuo figlio e tuo figlio che attende il momento più opportuno per ingoiare te - tutto questo ancora al di qua di una coincidenza degli opposti, visto che Cusano intende questa espressione teologicamente al di là del principio di identità).

Lo stesso d'altronde si potrebbe dire della opposizione che per esempio Cacciari vedrebbe alle origini della civiltà Europea: quella coscienza geografica di sé che si originerebbe nel sesto secolo dell'era pagana: lo scontro con l'Asia (la nascita della coscienza, anche geografica, in realtà non può essere così tarda: la coscienza si realizza nel momento in cui l'individuo inizia a percepire un qualsiasi confine: la separazione dall'altro o dalle cose). Anche qui non c'è nessuna scissione né armonia iniziale: c'è immediata comunanza di intenti espressa da posizioni apparentemente contrapposte, come in uno specchio: e c'è la spinta all'accumulo: il concetto di accumulo mediato dalla violenza della natura, quello che io chiamo il capitale in un'accezione allargata rispetto alla visione marxiana: sia che si guardi questo concetto di accumulo dal punto di vista degli europei sia che lo si guardi da quello degli asiatici. Vedi anche quanto ho scritto nel post intitolato Storia del mondo in mezza pagina.

sabato 31 agosto 2013

Causa e tempo nella storia. Narrazione e investigazione

 L’uso del principio di causa nella narrazione storica (e del concetto di pretesto) sarebbe (se la storia in senso hegeliano esistesse) antistorico: lo faceva costantemente osservare Croce (era un po’ la sua bestia nera): è comunque un semplice scimmiottamento della metodologia delle scienze sperimentali. Varrebbe la pena ripetere quanto Croce stesso affermava per esempio nei marginalia alla Teoria e storia della storiografia: che cioè l’introduzione di questo principio di causa interromperebbe qualsiasi movimento (storico), "la storia si fermerebbe a un tratto". A Croce interessava ridurre tutto all’idea di storia contemporanea quale attività dello spirito che riflette nel presente anche su eventi cosiddetti storici, cosa che però non cambierebbe lo stato della questione; in effetti, un qualsivoglia evento non è altro che il risultato di un infinito numero di cause, che è come dire che è il risultato di nessuna causa in particolare. Introdurre di punto in bianco una causa particolare da cui si origini un determinato evento equivale a bloccare tutto il processo, tutta la processione, troncare in due con una zappa il corpo di un serpente. Lo stesso dicasi dell’uso del concetto di tempo. Tutto ciò che si riesce a ottenere - pure in una narrazione non annalistica della "storia", una narrazione cioè che non enumeri i fatti uno dietro l’altro in ordine cronologico, è una temporalizzazione parallela, il che equivale a contraddire tutta l'impostazione, a sottrarre ogni forma non relativistica del tempo. E lo stesso vale per le enumerazioni annalistiche, sicché ci saranno gli annali di un popolo e gli annali di un altro, ma non saranno altro che descrizioni cronologiche parallele, e che bisognerà in qualche modo collegare orizzontalmente; si avranno quindi tanti tempi paralleli, e il tempo, storicamente parlando, non potrà mai essere uno, non potrà essere una infinita linea all’interno della quale mettere tutto in ordine; in altri termini ciò equivale ad affermare l’impossibilità – concetto ripetuto d’altronde anche da Croce - di una storia che sia universale (mito mai veramente superato).

Il falso metodo deduttivo, usato nelle narrazioni dei romanzi gialli tradizionali, è un'idealizzazione della metodologia dell’investigazione, la quale, se pure opera con parziali deduzioni, è nel suo insieme un risalire all’indietro, alla fonte, a un individuo che con le sue leggi logiche riesca a spiegare dei fatti di cui faccio esperienza, e che è tipico del metodo induttivo: conserva del vero metodo deduttivo (quello che definisce da subito la fonte originaria) solo l'apparenza dell'andare dal generale al particolare (dalla scena del crimine all'omicida); in realtà la sorgente non ce l'ha, deve trovarla. Ma la sorgente nella natura non ha causa in sé, e non ci sarebbe sorgente se non ci fossero piogge eccetera. L’individuazione del colpevole, quando lo si individua, è comunque sempre un brutale e non realistico tentativo di interrompere il processo della vita all’interno del quale l’assassino si muove. Questa impossibilità di fissare un punto preciso originario, una fonte primaria come causa ultima dell'omicidio, una causa nec plus ultra, le colonne d'Ercole al di là delle quale niente è più conoscibile, può essere osservato nelle faide, dove un omicidio dipende sempre da un altro omicidio. Ed è talmente ovvio che una nozione di causa imbarazza da sempre gli investigatori e la macchina della giustizia, che si è stati costretti a introdurre fin dall'antichità il sinonimo di movente, che è quanto di più aleatorio, non deterministico, possa darsi, e attorno al quale i castelli delle varie scuole psicologiche oggi più che mai si perdono e che lascia sempre dubbi su dubbi anche nei profani, che continueranno a dividersi tra innocentisti e colpevolisti. Diversamente dal concetto di causa per come è definito nelle scienze sperimentali.