Il san Girolamo degli ultimi anni è un notevole esempio di invecchiamento contro natura, se si deve prendere per buona la sarcastica interpretazione che della vecchiaia dà Erasmo nell'Elogio della follia. Invecchia, nonostante quanto dice di sé, nel pieno possesso delle sue facoltà e senza riacquistare niente (grazie a un salutare rim-bambimento) dell'allegra follia del ragazzino. Sempre che nel caso di san Girolamo non si debba ammettere un disguido di natura, che sia nato già vecchio e bilioso. E quella stessa bile la si trova all'inizio come alla fine della sua carriera. Le sue ultime epistole rigurgitano del fiele dell'odio ideologico - ma è sempre la stessa pappa nei Padri: un linguaggio militante mutuato dalla Sacre Scritture. Appare intrappolato a cementizzare (peraltro senza mostrare eccessiva fiducia) il traballante edificio della Chiesa in epoca di devastazioni eretiche, con qualche sospiro di sollievo nel caso in cui una contestata elezione al soglio vada a buon fine, cioè secondo i suoi piani, quando riesce a portare a casa l'elezione di un vecchio amico (Bonifacio). Ma è negli attacchi alle varie sette (ofiti, pelagiani ecc.) che offre il meglio ("hereticorum pectora non posse purgari ego testis sum", "vere dicam quod sentio: in his hereticis illud exercendum est Daviticum: in matutinis interficiebam omnes peccatores terrae", "delendi sunt, spiritualiter occidendi", non possunt per emplastra et blandas curationes recipere sanitatem", "nec eorum scriptis, quae ignoro, moveor, cum sciam voluntatem quidem blasphemiae pessimam", "tamen si scripserint et in meas aliqui pervenerit manus, ut non superbe loquar sed sim par insaniae eorum").
Insomma, se c'è follia non è giocosa, non è di tipo infantile, e soprattutto è follia consapevole (ut ...sim par insaniae eorum), ciò che ne sminuisce l'attrattiva, mostra l'uomo frustrato, il quale sente che dopotutto potrebbe aver fallito. Non sa mettere da parte il miles Christi, nemmeno quando dovrebbe congratularsi (essere felice) per il buon esito dell'ordinazione dell'amico al soglio, non riesce a non aggiungere alla fine un postscriptum in forma di spada: "sentiant heretici inimicum te esse etc".
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venerdì 16 settembre 2016
lunedì 6 giugno 2016
Lo sguardo di chi passa alla storia
Se nella guerra contro Artaserse Ciro avesse prevalso, Senofonte avrebbe scritto un buon numero di altre opere, e siccome era destino che si conservasse tutto di questo scrittore, avremmo letto di Ciro negli anni della maturità e forse nella vecchiaia. Senofonte l'avrebbe seguito a Babilonia o a Susa, sarebbe rimasto a corte e avrebbe forse dimenticato generosità, nobiltà, coraggio, lealtà: tutto ciò che vedeva e apprezzava in lui, e avrebbe finito per scrivere papponi indigeribili. Che sia quindi morto giovane e in battaglia è ammirevole. Restò il desiderio di scriverne. Di sicuro ebbe il tempo di farsi di nuovo osservare qualche istante prima della battaglia finale da un altrettanto giovane Senofonte, che giustamente, nella narrazione, dispone il punto di vista in terza persona, le poche righe nel primo dell'Anabasi, lo sguardo di due giganti a cavallo:
ἰδὼν δὲ αὐτὸν ἀπὸ τοῦ Ἑλληνικοῦ Ξενοφῶν Ἀθηναῖος, πελάσας ὡς συναντῆσαι ἤρετο εἴ τι παραγγέλλοι: ὁ δ᾽ ἐπιστήσας εἶπε καὶ λέγειν ἐκέλευε πᾶσιν ὅτι καὶ τὰ ἱερὰ καλὰ καὶ τὰ σφάγια καλά (I, viii, 15)
e vedendolo dalle schiere dei greci Senofonte l'ateniese essendosi avvicinato in modo da trovarselo davanti gli domandò se avesse ordini. Ciro fermandosi disse e ordinò di riferire a tutti che (ai sacerdoti) le vittime erano apparse propizie e le viscere lo erano state ugualmente
- due giganti votati a passare alla Storia per motivi complementari: sia perché in un caso era stata una risalita (anabasis) e nell'altro sarebbe stata una discesa (katabasis), alla guida ideale della prima Ciro, della seconda Senofonte, sia perché l'uno senza l'altro sarebbe rimasto una figura sbiadita e viceversa. E resta incertezza sulla lingua usata, se ci fosse un interprete o se Ciro parlasse con Senofonte direttamente in greco.Vedi anche, sul sentimento di reciproca ammirazione - dell'uomo d'azione e dello storico - quanto scrive Plutarco nel De gloria Atheniensium, dedicato alla questione della preminenza, se sia cioè più importante chi fa la Storia o chi la scrive - Plutarco essendo semplicemnte biografo e geniale compilatore accetta la supremazia dell'uomo d'azione. E in effetti senza l'azione chi scrive di storia non avrebbe niente da dire ma è pur vero che tanti uomini d'azione ricevettero impulso dalla lettura. Che poi agli inizi, alle origini, ci sia prima di tutto l'azione diventa irrilevante.
ἰδὼν δὲ αὐτὸν ἀπὸ τοῦ Ἑλληνικοῦ Ξενοφῶν Ἀθηναῖος, πελάσας ὡς συναντῆσαι ἤρετο εἴ τι παραγγέλλοι: ὁ δ᾽ ἐπιστήσας εἶπε καὶ λέγειν ἐκέλευε πᾶσιν ὅτι καὶ τὰ ἱερὰ καλὰ καὶ τὰ σφάγια καλά (I, viii, 15)
e vedendolo dalle schiere dei greci Senofonte l'ateniese essendosi avvicinato in modo da trovarselo davanti gli domandò se avesse ordini. Ciro fermandosi disse e ordinò di riferire a tutti che (ai sacerdoti) le vittime erano apparse propizie e le viscere lo erano state ugualmente
- due giganti votati a passare alla Storia per motivi complementari: sia perché in un caso era stata una risalita (anabasis) e nell'altro sarebbe stata una discesa (katabasis), alla guida ideale della prima Ciro, della seconda Senofonte, sia perché l'uno senza l'altro sarebbe rimasto una figura sbiadita e viceversa. E resta incertezza sulla lingua usata, se ci fosse un interprete o se Ciro parlasse con Senofonte direttamente in greco.Vedi anche, sul sentimento di reciproca ammirazione - dell'uomo d'azione e dello storico - quanto scrive Plutarco nel De gloria Atheniensium, dedicato alla questione della preminenza, se sia cioè più importante chi fa la Storia o chi la scrive - Plutarco essendo semplicemnte biografo e geniale compilatore accetta la supremazia dell'uomo d'azione. E in effetti senza l'azione chi scrive di storia non avrebbe niente da dire ma è pur vero che tanti uomini d'azione ricevettero impulso dalla lettura. Che poi agli inizi, alle origini, ci sia prima di tutto l'azione diventa irrilevante.
mercoledì 29 maggio 2013
L'ossimoro
Dice Plutarco, descrivendo l'aspetto di Alessandro il Grande, che le statue
di Lisippo lo ritraevano con quelle stesse caratteristiche che a detta di chi l'aveva conosciuto saltavano immediatamente agli occhi: “la
testa (il collo, dice Plutarco) leggermente inclinata a sinistra e poi la
dolcezza degli occhi” (tin t‘anàtasin tu
afchénos is evònimon isichì kekliménu kè tin higròtita ton ommàton – trascrivo il greco di Plutarco seguendo pronuncia del greco moderno, considerando
priva di ogni fondamento epigrafico e filologico la pronuncia
erasmiana, quella insegnata ancora oggi nelle scuole). Alessandro si presenterebbe quindi, ai noi lettori della Vite, come un ossimoro: una
contraddizione in termini, un sorta clash delle
sue parti costituenti: l’aspetto fisico e quello quello morale: dolcezza e abbandono da un lato, valentia militare dall'altro.
Non saprei dire se avevo in mente proprio Plutarco quando a un giudice della Procura di Venezia facevo descrivere per la prima volta Marco Noto,
il poliziotto a capo della mobile di quella città nel mio Un valzer per Alfredo. In effetti, anche Marco Noto è personaggio eroico, e
quando cammina piega leggermente la testa di lato, un po' come sua madre. Gli manca soltanto l'amabilità degli occhi, anche se un lettore ha definito l'insensibilità di questo personaggio soltanto apparente e sarebbe al contrario presente in un certo sguardo che porta sulle cose, sulle persone. Inoltre è strabico: uno strabismo divergente, cosa che tiene il posto di una non voluta ambiguità, e forse dolcezza. Per non parlare dei capelli, che a trentacinque anni ha bianchi e neri, sale e pepe. Ma basterebbero
solo questi occhi che divergono a introdurre anche qui il concetto di ossimoro.
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