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venerdì 6 maggio 2016

Vocali al servizio della religione

Un greco dei tempi di Erodoto o un latino dei tempi di Varrone, i quali pur non sprivvisti di vocali disponevano di un gran numero di parole terminanti in consonante, se ascoltassero parlare gli italiani non sentirebbero che un continuo a-o-a-i-e-o-u-a-e-i-o-a-i-o-u-i-e-a ... Gli italiani, senza vocali, sarebbero persi, non saprebbero a che santo votarsi se è vero che riempiendosi la bocca di a-e-i-o-u continuano semplicemente un percorso di lamenti: un'attitudine in certo senso religiosa - cattolica, la nostra - nemica di tutto ciò che è civico, se per civico si intende il contrario di tutto ciò che è istituzionalmente religioso e violentemente intollerante. E continuano, gli italiani e i cattolici, una tradizione anche più antica della loro, e sicuramente meno feroce. E' con le vocali, in fondo, che i sacerdoti egiziani celebravano gli dei. Vedi quanto dice Demetrio Falereo nel De elocutione

 Ἐν Αἰγύπτῳ δὲ καὶ τοὺς θεοὺς ὑμνοῦσι διὰ τῶν ἑπτὰ φωνηέντων οἱ ἱερεῖς, ἐφεξῆς ἠχοῦντες αὐτά, καὶ ἀντὶ αὐλοῦ καὶ ἀντὶ κιθάρας τῶν γραμμάτων τούτων ὁ ἦχος ἀκούεταιì. (71, 1-5)

In Egitto i sacerdeti inneggiano agli dei per mezzo delle sette vocali, emettendole di seguito, così che invece del flauto e della cetra si sente il suono di queste lettere.

Ma le testimonianze sono innumerevoli, anche se stranamente si accumulano in maniera ossessiva proprio nei primi secoli dell'era cristiana, quando il cattolicesimo si avviava a diventare religione omicida (i settemila non catolici massacrati a Tessalonica da Teodosio, le distruzioni dei templi di Efeso e di Marnas, i massacri del vescovo Teofilo a Alessandria eccetera). Si potrebbero citare, "a cavaliere" o "a fante" di una tradizione ancora pagano-cattolica, Servio, Porfirio, Eusebio, Giamblico. Per esempio negli scoli vaticani dei commenti alla Techne grammatike di Dionisio Trace si trova la seguente chicca (si tratta sicuramente di materiale di Porfirio):

Ταῦτα γὰρ τὰ φωνήεντα τοῖς πλάνησιν ἀνάκεινται· καὶ τὸ μὲν <α> φασὶ τῇ Σελήνῃ ἀνακεῖσθαι, τὸ δὲ <ε> τῷ Ἑρμῇ, τὸ δὲ <η> τῇ Ἀφροδίτῃ, τὸ δὲ <ι> τῷ Ἡλίῳ, τὸ δὲ <ο> τῷ Ἄρει, τὸ δὲ <υ> τῷ Διί, τὸ δὲ <ω> τῷ Κρόνῳ. (p.198, 4 ed. Hilgard)

Queste vocali sono dedicate ai pianeti [divinità]: la A alla Luna, la E a Mercurio, la ETA a Venere, la I al Sole, la O a Marte, la Y a Giove, OMEGA a Saturno.

E in Apuleio, nell'undicesimo delle Metamorfosi, Lucio, che non ha ancora ripreso le sembianze umane, in forma quindi di asino, dopo essersi svegliato da un incubo si lava immergendo la testa (e la criniera) ben sette volte nel mare:

numerum praecipue religioni aptissimum divinus ille Pythagoras prodidit

un numero tramandato dal divino Pitagora come adattissimo alla religione,

non solo in accordo col numero delle vocali dei latini e dei greci, appartenendo il testo ancora a un robusto paganesimo, ma aprendo la strada anche al futuro sette cattolico romano (sette come le peccata), e al Settebello (gioco di carte e treno) e al Tresette - come dimenticare che l'asino d'oro di Apuleio, che pur emettendo vocali raglia, è debitore, nel titolo, alla Citta di Dio di sant'Agostino, il quale ci avrà sicuramente visto una storia di conversione?

Ma per tornare all'Italiano, alla lingua, e alle sue radici nella religiosità antica, il fatto che sia il paradiso delle vocali non significa che altre nazioni meno provviste non si siano date ugualmente da fare, dal momento che, a sentire sempre alcuni autori antichi, la divinità non la si venera unicamente con le vocali ma anche attraverso schiocchi, fischi, sibili e altri suoni inarticolati di ogni genere - si sa per esempio che nelle parlate zulu predominano i click, i battiti di lingua, il tedesco soffia e sibila e abbaia, gli inglesi hanno ugualmente un gran numero di aspirate, gli spagnoli seguono i latini (non tutto è vocale) e c'è molto di gutturale o semitico, i francesi tendono a smorzare le vocali in semivocali, l'arabo e l'ebraico raschiano come e più degli spagnoli - giapponese e cinese, in quanto a vocali finali si sposano con l'italiano ecc... E si potrebbe, in questo gran calderone dei suoni al servizio della religione di ognuno, citare Nicomaco di Gerasa, il matematico, :

διὸ δὴ ὅταν μάλιστα οἱ θεουργοὶ τὸ τοιοῦτον σεβάζωνται, σιγμοῖς τε καὶ ποππυσμοῖς καὶ ἀνάρθροις καὶ ἀσυμφώνοις ἤχοις συμβολικῶς ἐπικαλοῦνται. (Excerpta, 6, 12-15).

perciò i teurgi ogni volta che veneravano, invocavano simbolicamente per mezzo di sibili e schiocchi e suoni inarticolati e discordanti.

Ma per lo stesso discorso varrebbe ugualmente bene un testo magico conservato in un papiro del terzo secolo dell'era cristiana, il papiro W di Leida, che contiene estratti dai libri apocrifi di Mosè. Si parla di procedure e figure da utilizzare durante alcuni riti

αὐτὸς γὰρ ὁ ἱερακοπρόσωπος κορκόδειλος εἰς τὰς δʹ τροπὰς τὸν θεὸν ἀσπάζεται τῷ ποππυσμῷ. (p. W, p. 2, 40-41 - p. 85, v. 2, ed. Leemans).

Lo stesso coccodrillo col volto di falco, [rivolto] secondo le quattro conversioni, saluta il dio [sole] con uno schiocco.

Ecc. ecc.




domenica 18 gennaio 2015

la matematica e il perdersi e il non ritrovarsi

... nella matematica preferisco perdermi, come in qualsiasi altra lingua - a che scopo ritrovarsi? ("non è tanto il perdersi", dice il principe di Foix nella Recherche a un presuntuoso avvocato ebreo (aveva fatto una stupida battuta dopo aver sentito dire che la sua carrozza s'era persa tre volte quella sera), "quanto il fatto che alla fine non ci si ritrova" - "qu'on ne se retrouve pas"). A che scopo perdersi se solo per ritrovarsi nell'illusione di aver conosciuto se stessi?... Preferisco il continuo movimento, una barca a vela quando c'è vento: l'immagine dell'Ulisse dantesco che coi suoi compagni si perde definitivamente oltre le colonne di Ercole. Una "canoscenza" non più del sé ma di ciò che va oltre il sé ...

il bene e il male della lingua. nota su Sa'di

Shiraz - Mausoleo di Saadi - foto Omid Hatami



ايب بر هم٬ از زبان گوسفند غذائ درست کرد و نزد امير اورد
 
questa volta di nuovo preparò un pasto a base di lingua di montone e lo portò al principe

(Sa'di, in un raccontino didascalico ricopiato in un quaderno ai tempi in cui studiavo il persiano, non so se preso dal Gulistan).

Il principe è un principe qualsiasi: (amiri) e chi cucina è ovviamente il cuoco (ashpaz - آشپز ). L'emiro, qualche giorno prima, gli aveva chiesto di cucinargli il miglior pasto che si potesse cucinare e il cuoco gli aveva portato qualcosa a base di lingua di montone. E così fa adesso, dopo che il principe gli chiede di portargli il pasto peggiore. L'opera di Sa'di o Saadi, è piena di queste meraviglie.

L'opposizione bontà/nocività della lingua, della parola (sud o zyan, con la congiunzione "o", che equivale, come anche "va", all'italiano "e", ma che a differenza di "va" unisce sempre due o più termni (non sempre semanticamente opposti) indissolubilmente legati in un'entità unica, due facce di una stessa medaglia: non sono elementi visti come separati, come nel caso di lingua e parola (sokhan va zaban). La lingua può esistere senza la parola e viceversa ma la lingua non può esistere senza il bene e il male nellos tesso tempo.

Così in una frase del tipo: il delinquente della finanziaria ha parlato col padre e la madre e il fratello, il persiano userebbe "o" ( و ) invece di "va" (scritto ugualmente و ). L'unità indissolubile è la famiglia (o almeno nelle intenzioni e nelle illusioni della religione, del legislatore eccetera eccetera).

mercoledì 14 gennaio 2015

Francia adorata e senza errori

Voltaire anziano

 Difficile pensare a un mondo senza la Francia: sarebbe un mondo meno questo, meno quello, meno tutto: sarebbe orfano dell'esprit, dell'intelligenza, della matematica, della geometria della lingua, delle singole frasi. Insomma la France è sempre la Fraaance! detto senza ironia, perché avrei letto in fondo più in francese che in italiano o in inglese.

I francesi (un po' come succede tra i cugini arabi e israeliani) vengono capiti poco in Italia. Un mediocre giornalista italiano, che non si sa come

sabato 10 gennaio 2015

il plurale del plurale. gli arabi e la matematica



La ragione per cui (e lo spiego a me stesso, trattandosi dopotutto sempre un diario personale che rendo pubblico, e dove mi può capitare di inserire di tanto in tanto qualche cosetta di carattere più filogico) la ragione per cui ho abbordato nella mia vita così tante lingue - credo di averle passate al setaccio quasi tutte (da un capo all'altro del globo e da un punto all'altro della storia), alcune più studiate e approfondite di altre (ebraico, arabo, sanscrito - le lingue sacre) altre studiate fino a un certo punto (russo, danese, polacco, svedese, olandese, giapponese, ungherese, finlandese, cinese, tibetano eccetera) altre ancora comunemente usate quando leggo o chiacchiero con qualcuno (francese, tedesco, spagnolo, greco moderno), altre studiate per interessi di linguistica (accadico assiro eccetera, le lingue irochesi del Nord America, parlate un tempo dal Popolo della Grande Palude, i Guyohkohnyo, e dal Popolo delle Colline, gli Onondagega, e dagli Oneida eccetera), la ragione principale credo fosse il bisogno,  la necessità (o desiderio) di uscire dal lager della mia lingua madre, e quindi il desiderio di mettermi direttamente, senza nessuna mediazione, in contatto con altri modi di osservare le cose, mettermi

mercoledì 24 dicembre 2014

la prigione della lingua e il grado quarto della libertà. senso proprio e senso figurato

Ci sarebbe da chiedersi se il passaggio dal senso proprio al senso figurato di una parola non sia un semplice espediente dell'uomo: l'umanità che attraverso la poesia tenta di liberarsi dai vincoli del "fascismo" della lingua, secondo la definizione data da Roland Barthes al Collège de France: la lingua che ti obbliga a dire. In effetti sono numerosi gli esempi nelle lingue semitiche e indoeuropee in cui a un senso proprio segue un senso figurato che è in un certo senso  il capovolgimento del primo:

יַבָּשָׁה (yabbasha) che in ebraico vale terra asciutta ha sempre connotazioni positive nell'Antico Testamento: è la terra asciutta di Esodo 14,16, che Mosè dovrà aprire agli israeliti nella rocambolesca fuga attraverso il Mar Rosso: בַּיַּבָּשָֽׁה (bayabbasha - su terra asciutta), e lo stesso si deve pensare di Genesi, la terra che viene originariamente separata dalle acque, e il senso anche qui è "buono": su terra asciutta vivranno tranquillamente gli uomini e le donne. E lo stesso vale per il letto del Giordano in Giosuè 4,22, le cui acque, come per il Mar Rosso, si separano per lasciar passare senza pericolo gli israeliti, e a volte yabbasha significa anche spiaggia: comunque luogo sicuro.

In senso figurato invece terra asciutta non può che avere una connotazione negativa: secca, arida, riferita allla condizione dell' uomo assetato spiritualmente - vedi Isaia 44, 3-4:

כִּ֤י אֶצָּק־מַ֙יִם֙ עַל־צָמֵ֔א וְנֹזְלִ֖ים עַל־יַבָּשָׁ֑ה אֶצֹּ֤ק רוּחִי֙ עַל־זַרְעֶ֔ךָ וּבִרְכָתִ֖י עַל־צֶאֱצָאֶֽיךָ׃ וְצָמְח֖וּ בְּבֵ֣ין חָצִ֑יר כַּעֲרָבִ֖ים עַל־יִבְלֵי־מָֽיִם

perché io verserò acqua sull'assetato, torrenti sulla terra arida, verserò il mio spirito sui tuoi germogli e la mia benedizione sulla tua discendenzae crescerà tra l'erba come salici lungo corsi d'acqua.

Considerazioni simili, e per lo stesso termine, si possono fare per l'arabo, il greco, il latino ma anche per le nostre lingue moderne: un significato proprio che ammette un senso figurato può in alcuni casi contraddirlo: pascolo (non è certo il civilizzato pasto ma cristianamente diventa luogo di nutrimento divino), armadio (perde la sua utilità se riferito alla taglia di una persona), strada, via (è "buona" perché unisce due punti ma deve lottare con uno dei due sensi figurati: ci sono due vie, per il bene e per il male), piatto (dove si mangia ma anche stile, paesaggio piatto), mattone (riferito a libro), sola a Roma (nel senso di suola ma anche fregatura) d'altronde, come dice il prverbio: non fu mai bella scarpa che non diventi ciabatta. E si potrebbero fare tantissimi esempi in qualsiasi lingua. E anche in tantissimi casi in cui il senso proprio non può negativizzarsi allora corre in aiuto  l'ironia.

Il problema è che una fuga dalla costrizione, dalle catene della lingua, è sempre una fuga di breve durata, di corto respiro, una vittoria di Pirro: una volta che ci si insedia nel nuovo senso, quando si pensava di essere gia  liberi, ci si accorge che si è incatenati né più né meno che come prima. E nelle lingue occidentali, al di fuori dei famosi quattro sensi dell'esegesi cristiana, non riesco a pensarne altri. Bisognerà fermarsi per forza al grado quarto. Rinunciare a qualsiasi volontà di andare oltre, un po' come nei versi dell'andaluso Machado:

Mi voluntad se ha muerto una noche de luna
en que era tan hermoso no pensar ni querer


martedì 23 dicembre 2014

la resa dei conti: quella parola che non conosco.

L'altra sera tornando a casa mi è successo un fatto strano. Sulla porta a vetri della guardiola del portiere c'era affisso un foglio - che non hanno ancora tolto. "In qualità", si dice su questo foglio, " di proprietario dell'appartamento interno eccetera piano eccetera, comunico che inzieranno i lavori eccetera". Sono stato davanti a quel foglio a bocca aperta almeno un minuto, a cercare di capire una certa parola, una parola mai sentita. Proprietario. Mi sono detto, che vorrà dire 'sta parola? l'italiano un po' lo conosco e non mi dice niente. E' presa da un'altra lingua? Eppure ho bazzicato si può dire quasi tutte le lingue del mondo e del passato, magari alcune approfondite, altre meno, dal persiano, al cinese, al sanscrito, all'arabo, all'ebraico, allo swaili, per non parlare dell'insieme del ceppo indoeuropeo e del blocco ugrofinnico, con qualche nozione di varie lingue del Burkina Faso: dalla lingua more (che andrebbe pronunciato mòoré - un po' come dire amore a Roma - alla lingua dioula, parlata a Bobo-Dioulasso. la linga bobo, samo, peul, bambara: insieme, ovviamente, alla matematica, le lingue sono state, si può dire, la mia unica vera grande passione, fin da piccolo, sia perché pensavo che potessero mettermi in contatto col passato (latino, greco, accadico assiro, ebraico, sanscrito ecc.) sia che mi mettessero in contatto col futuro (matematica). Possibile che proprietario appartenga a una di quelle lingue che ho studiato meno, il cinese, per esempio, o il giapponese, e che questa parola la conosca proprio uno che abita dove abito io, dove non ci sono né cinesi né giapponesi? possibile che ancora ignori una nozione magari meravigliosa?

Sono risalito a casa e non ci ho dormito tutta la notte. La mattina mi sono svegliato e niente:  la parola proprietario non la conosco. Non mi dice niente. Sono stato tentato di scendere, strappare quel foglio (se non fosse che il nostro portiere è sempre così attento, preciso). Strappare il mezzo che contiene un'offesa palese alla mia esperienza. Alla fine mi sono detto, che per quanti sforzi, per quanti studi uno faccia, quante persone, quanti paesi veda, resta sempre fuori qualcosa. Non c'è niente da fare. Morale della favola, continuo a ignorare il senso di proprietario. Con un po' di giochi associativi riesco al massimo a pensare che da proprietario possa coniarsi un'espressione come proprietà privata. Ma verrebbe rigettata sicuramente dalla comunità dei parlanti. E il senso evidentemente, anche qui, mi resterebbe totalmente oscuro.

domenica 14 dicembre 2014

l'ironia e la mafia di Roma. Potentati economici a teatro

Non si riesce a capire in cosa consista l'ironia di un comico che prendendo spunto dagli scandali della "mafia romana" modifica una vecchia canzone - la società dei magnaccioni - e fa impazzire la rete. Ma i siti dei giornali titolano ancora e nuovamente: "si scatena l'ironia del web".

Credo di averlo già scritto: una società (lettori e produttori di babettii) che vuole fare della parola il centro della sua professione  o dei suoi interessi e non conosce il senso più elementare dei termini di cui si serve è una società che dovrebbe quanto meno andare a ripulirsi. Qui oltretutto non è nemmeno beffa, perché i mafiosi se ne fregano della tua chitarra di libero cantore: qui è soltanto il tuo meschino amor proprio che non sa tenersi distante, non sa prendere le distanze (questa sarebbe ironia) da una situazione piuttosto squallida e penosa per alcuni (i contribuenti). Quello che conta è che i giornali facciano il tuo nome, proiettino la tua bella trovata: te ne frega assai che questi papponi abbiano pappato.

Così, quello che diceva Pasolini un po' prima di morire (contenuto in un messaggio postumo, purtroppo ai radicali): "siate sempre irriconoscibili" (il senso era che il potere contro il quale lotti, scrivi, canti si approria di te e del tuo impegno) è esattamente quello che non interessa a questo Dado, a questo ultimo comico "impegnato": il cui lavoro viene megafonizzato proprio dai quei grossi siti (Messaggero, Repubblica, Corriere) che con tali trovate riescono a pompare l'utenza e a portare ancora più acqua al serbatoio degli introiti  (il Messaggero appartiene ai potenti Caltagirone, i noti ex palazzinari romani e oggi tra gli uomini più ricchi del pianeta) . Ecco la vera ironia sarebbe questa: che non solo non fai nessuna ironia, ma finsici per fare il gioco della parte che ha molti più soldi e interessi e ramificazioni economiche di coloro che attacchi. E sulla quale l'ironia  del web difficilmente si scatena, perché è proprio questa parte a determinare ciò che è ironico e ciò che non lo è. E che comunque - a giudicare dall'ignoranza crassa della lingua - non lo sarebbe in nessun caso.

sabato 26 luglio 2014

La macchina dello Stato e i benemeriti artisti. Nota su Nietzsche



 La tragedia antica come educatrice del popolo poteva formarsi solo al servizio dello Stato.

(Die antike Tragödie als Volkslehrerin konnte nur im Dienste des Staates zu Stande kommen. Nachgelassene Fragmente Ende 1870 — April 1871, 7 [23])

Questa affermazione di Nietzsche, contenuta in uno dei frammenti cosiddetti postumi, potrebbe apparire, come ogni giudizio umano non ancora analizzato con gli strumenti della logica informale, apodittica, di principio, creatura di un possibile ideologismo. Ma è il giudizio di una voce particolarmente autorevole, difficilmente quindi ribaltabile. Intanto ci si dovrebbe piuttosto domandare per quale ragione la tragedia antica, nella sua funzione educativa, non debba o non possa invece formarsi al di fuori dello Stato; oppure, che equivale allo stesso, per quale ragione lo Stato debba profondere così tanti mezzi quanti sono quelli necessari all’allestimento di così tante tragedie in concorso ogni anno nei vari festival (ogni autore ne presentava tre più un dramma satiresco, la cosiddetta tetralogia). Oppure ci si può chiedere per quale ragione la stessa cosa, la profusione di così tanti mezzi, non possa immaginarsi come fatta da una singola famiglia che voglia celebrare se stessa, la propria schiatta. Oppure: a cosa porterebbe immaginare una singola famiglia o anche più di una – il che rientrerebbe comunque in una concezione di Stato - che si faccia promotrice del “bene” estetico pubblico?

Porterebbe, è ovvio, in primo luogo, al concetto di noia e quindi, dato un certo esiguo numero di anni, all’abbattimento del sistema del singolo. Dice Nietzsche nello stesso frammento:

Con il suo elevatissimo egoismo il singolo essere non arriverebbe mai a promuovere la civiltà. Per questo si dà l’impulso politico, nel quale in un primo momento l’egoismo se ne sta tranquillo.

(Das einzelne höchst selbstsüchtige Wesen würde nie dazu kommen, die Kultur zu fördern. Darum giebt es den politischen Trieb, bei dem zunächst der Egoismus beruhigt ist.)

E ancora prima:

Per questa ragione [la tragedia antica come educatrice all’interno dello Stato] il livello della vita politica e la dedizione allo Stato si era così accresciuto che anche gli artisti pensavano soprattutto allo Stato. Lo Stato era” strumento della realtà artistica”. Per questo la più alta aspirazione allo Stato doveva trovarsi proprio in quelle cerchie che avevano bisogno dell’arte. Tutto ciò era possibile solo se lo Stato si reggeva da sé, cosa che è pensabile solo se un esiguo numero di cittadini accede al potere.

(Darum war das politische Leben und die Ergebenheit für den Staat so gesteigert, daß auch die Künstler an ihn vor allem dachten. Der Staat war ein “Mittel der Kunstwirklichkeit”: deshalb mußte die Gier zum Staate in den kunstbedürftigen Kreisen die allerhöchste sein. Dies war nur möglich durch Selbstregierung, diese aber ist nur denkbar bei geringer Zahl von regierungsbefähigten Bürgern.)

In realtà non sarebbe difficile assegnare il "valore di verità del vero" a questa funzione ideologico-educativa del prodotto estetico pure nel caso dell’uomo e della donna di oggi: della televisione, del cinema, delle università, dei giornali finanziati dallo Stato. L’artista, l’intellettuale, che si pone anche in una netta posizione di critica sociale o del potere [vedi La grande bellezza, che raggiunge addirittura gli Oscar] è a tutti gli effetti lui l’inconsapevole reggitore interno, il reggitore dello Stato: di questa spaventosa macchina senza altro nocchiero se non la “potente” propaganda delle immagini e delle parole. Il capitale, la finanza hanno ben poco da preoccuparsi, così come una mamma non si preoccupa affatto di lasciare i pargoli nelle mani di una fidata babysitter. Il lavoro che dovrebbero fare loro, il capitale e la finanza, viene tranquillamente delegato a questo esercito (pur sempre sparuto) di immaginifici e parolai. È interesse, cioè, dei singoli pifferai non tirare la corda oltre un certo limite, pena – oltre la rottura della corda – l’annullamento di sé.

Dice Nietzsche:

L’immane spiegamento di istituzioni politiche e sociali veniva in fin dei conti effettuato a vantaggio di pochi: cioè dei grandi artisti e filosofi – che però non debbono avere la pretesa di entrare nella vita politica, come richiede invece lo Stato platonico. Per loro la natura impiega le altissime e illusorie immagini, mentre per la massa bastano gli scarti del genio.

(Der ungeheure Aufwand des Staats- und Gesellschaftswesens wird schließlich doch nur für einige Wenige aufgeführt: dies sind die großen Künstler und Philosophen — die nur nicht beanspruchen sollen, mit hinein zu treten in das politische Wesen, wie es Plato’s Staat fordert. Für sie braucht die Natur die höchsten Wahngebilde, während für die Masse nur die Abfälle des Genius ausreichen.)

Il paradosso, molla fascinosa e fondamentale di un potere che è dovunque e in nessun luogo, è d’altronde sempre ben oliata e funzionante:

Lo Stato sorge in modo crudelissimo dalla sottomissione, dalla generazione [aggiungerei continua] di una schiatta di fuchi. La sua superiore vocazione consiste nel far crescere [aggiungerei: e far preservare] da questi fuchi una civiltà. L’impulso politico tende alla conservazione della civiltà, così che non si debba ricominciare in continuazione daccapo.

(Der Staat entsteht auf die grausamste Weise durch Unterwerfung, durch die Erzeugung eines Drohnengeschlechts. Seine höhere Bestimmung nun ist, aus diesen Drohnen eine Kultur erwachsen zu lassen. Der politische Trieb geht auf Erhaltung der Kultur, damit nicht fortwährend von vorn angefangen werden muß.)
                                      
È uno Stato illusorio ma in fin dei conti benemerito, che ha pensato anche a uno smaltimento indolore di ciò che non è, via via, necessario:

Vale lo stesso, dice infatti Nietzsche, per il linguaggio: è il parto degli esseri più geniali, mentre il popolo ne utilizza solo la minima parte, e in certo qual modo soltanto i rifiuti.

(Es verhält sich mit der Sprache ähnlich: sie ist die Geburt der genialsten Wesen, zum Gebrauch für die genialsten Wesen, während das Volk sie zum geringsten Theile braucht und gleichsam nur die Abfälle benutzt.)

venerdì 18 luglio 2014

Calunnia e diffamazione. Nota su Kafka e Busi querelato

Sarebbe strano scegliere di tradurre con “diffamazione” piuttosto che con “calunnia” l’inizio comicissimo del Processo di Kafka, quando Joseph si è appena svegliato e prende atto di una nuova situazione:

Jemand mußte Josef K.  v e r l e u m d e t  haben, denn ohne daß er etwas Böses getan hätte, wurde er eines Morgens verhaftet.

Qualcuno doveva aver “diffamato” Joseph K., poiché senza che avesse fatto niente di male venne una mattina arrestato.

Verleumden, cioè diffamare, di cui Diffamierung, da un punto di vista giuridico, è un semplice sinonimo, è un reato ancora oggi previsto dal codice penale tedesco (articolo 187)   – Kafka, che era laureato in Legge e era di Praga (e  morì a Vienna), visse in effetti per qualche tempo, saltuariamente, pure a Berlino, con la sua Felice, e proprio negli anni in cui scrive il Processo. Ma a Kafka, almeno per la precisione terminologica, il diritto austro-ungarico o tedesco in questo passo interessava paradossalmente poco.

E’ indubbiamente, scegliere di tradurre l'inizio del Processo con “calunniato” invece che con "diffamato", una questione di registro (oltre che di causa e effetto - non ci sarebbe a rigore diffamazione senza che qualcuno ti calunni): diffamare (articolo 595 del codice penale) suona immediatamente tecnico, calunniare, che pure è tecnico (articolo 368) è nello stesso tempo più “terra terra” (e lasciamo perdere che nessuno sa cosa significhi giuridicamente, e che lo si usi come sinonimo di diffamazione): ha, nella mente dell'uomo e della donna della strada (o del cellulare) un qualcosa di generico, più facile da usare. Di più adatto insomma a un risveglio, come nel romanzo di Kafka, a un parlare a se stessi, quando non si pensa ancora all'ampia diffusione che avrà la "calunnia" (la calunnia è inizialmente un venticello): al più si penserà a una voce giunta all'autorità (la diffamazione, in termini giuridici e quindi sociali, verrà per forza in seguito). Epppure nessuno oggi per la strada, neanche a volersi riferire alle varie fasi di un'azione penale, direbbe l'ha calunniato (art, 368), nessuno si esprime così, se non nei vecchi romanzi, e non direbbe nemmeno l’ha diffamato (art. 595): in effetti si tende a usare il sostantivo, il più delle volte senza specificare (si sa già di cosa si parla): s'è beccato una querela, una denuncia per diffamazione (il termine “denuncia” è appunto usato costantemente a cazzo di cane, e la denuncia, a differenza della querela, non contiene nessuna manifestazione di volontà a voler perseguire il colpevole: è un lavarsene le mani, può presentarla, la denuncia "chiunque", senza che poi compaia il suo nome. E' un po’ come dire: io ve l’ho detto a voi poliziotti e carabinieri, poi fate "vobis"). E' un fare la spia, insomma.

Per poter querelare qualcuno per diffamazione (a parte quei pochi casi che raggiungono le aule di tribunale, e in genere per una parolaccia che un inquilino ha lanciato a un altro) bisogna comunque essere famosi: cioè girare per la strada o entrare nei club più conosciuti con l'idea di essere un personaggio pubblico, con le piume cioè che ti escono dal sedere: bisogna che in qualche modo si pensi che chi ha offeso la tua onorabilità ti abbia con ciò trasformato da persona famosa in diffamosa. E sarà forse per questo (perché vedo costantemente queste piume che escono dal sedere) che ogni volta che sento dire che qualcuno ha querelato per una sciocchezza un altro per diffamazione, faccio tra me e me una pernacchia - tolti quindi i casi veramente più importanti e temibili, quando si è ingiustamente accusati di un reato - mi esce immancabilmente qualche volgarità. Il massimo è quando si sente dire, improvvisamente, in televisione: “lei è querelato!”, come ha fatto con Aldo Busi un ex ministro, mi pare, o deputata al (figuriamoci l'importanza) Parlamento italiano, deputata quindi dal popolo tutto a rappresentarla, il quale deve essersi sentito anche lui diffamato insieme a questa sua eletta, che però non si era scelta affatto, visto che gli elettori non potevano, in quella tornata eletterale, come nell'ultima, scegliere i loro candidati. E ha detto, questa ministra o deputata a Busi, scappando via dallo studio, forse per la vergogna (parlavano di mutandine): "lei è querelato!". Quasi a dire "sei querelato già prima che io presenti la querela, sei nella condizione di querelato".

Ma in realtà, quest'ultimo esempio, non è incoerenza, mancanza di chiarezza o illogicità: è un ellissi vertiginosa, che rivela semplicemente una grande cultura letteraria, linguistica: sarebbe come dire: sappia, lei Busi, che domani a quest’ora, quando il mio avvocato presenterà querela, le è già querelato percché lo è da questo momento.

sabato 12 luglio 2014

L'invidia e la stupidità. Il politicamente idiota

L'invidia è quella del pene, dell'organo genitale maschile, di cui sono invidiose le donne. Ma non tutte, che sarebbe un dramma. A molte, alla maggioranza delle donne, il pene sta bene dove sta e se ne delizia. Le invidiose sono invece, è un fatto conosciuto, le femministe, che non hanno mai saputo né voluto ammettere la bancarotta delle ideologie su cui

venerdì 4 luglio 2014

Il rosso e il blu. Lingua e galera





Burning Blue, titolo di un recente film americano: la storia d’amore tra due piloti dell'aviazione navale negli anni precedenti il periodo clintoniano, l’amministrazione Clinton, che cercò di cancellare le norme antiomosessuali in vigore in ambiente militare e si finì invece per adottare la politica dello struzzo: don’t ask don’t tell ( se sei omosessuale, uomo o donna, tientelo per te e noi, vertici militari, non ti rompiamo i c. – "promessa", tra l'altro, da marinaio).

Sempre sull'espressione burning blue.  E' un tipico ossimoro, nel caso del titolo del film perfino inevitabile dati i legami altamente esplosivi di cui il film racconta (Les liaisons dangereuses è giustamente uno dei libri più disseminati di ossimori, compreso il titolo). Un ossimoro per chi ce lo sa vedere, per chi ha visto o immagina una storia d’amore tra due uomini, due ragazzoni sposati, freddi, algidi (o che dovrebbero esserlo), e che dovrebbero solcare i cieli a velocità supersoniche e far bruciare il freddo blu dei cieli con la loro passione.

Ancora su burning blue. D'altra parte il cielo è sempre più blu e freddo. Nessuno riuscirebbe

l'abbraccio e la paura



L’abbraccio tra due delinquenti, due spietati killer, due pericolosi malavitanti non è il segno di un residuo granello di umanità: semmai, caratteristica più propria all’umanità è l'essere feroce, spietata. L’abbraccio, i baci, le manifestazioni di affetto tra due criminali non sono altro che il segno di una paura che cova, il pegno di un legame di protezione. In altri termini è pura retorica. Opera continua di persuasione.

Lo stesso può dirsi dell’abbraccio in generale, dei baci, delle manifestazioni di affetto tra parenti, amici. Sono semplicemente un simbolo. La sostituzione di un linguaggio, quello delle emozioni, con un altro, quello gestuale rappresentativo di queste emozioni. Il simbolo della strutturale debolezza biologica dell’individuo, e della sua conseguente fragilità emotiva. Quindi la manifestazione sociale della sua piena solitudine. Paradossalmente è meno solo chi è solo (ma con se stesso) che chi partecipa di un legame affettivo: costui non è né solo né "non solo". Se così non fosse, l’individuo non avrebbe bisogno di sentirsi rassicurato e di rassicurare. L’abbraccio, i baci, sono la manifestazione di un’isteria. Dell’essere pietrificati di fronte all’incertezza. Sono il segno del limbo perpetuo nel quale si muove l’individuo: non si è né all’inferno né in paradiso.

L’amicizia è un rito apotropaico, il cui scopo sarebbe lo stesso del corno portafortuna che usano i napoletani.

I popoli caratterialmente più marziali sono quelli che si sottraggono, fin che possono, alle manifestazioni di affetto – vedi ancora oggi gli inglesi. O vedi un atteggiamento tipico delle loro classi dirigenti, dell'establishment: "sono stato educato così,  a nascondere i miei sentimenti". E questo, a sua volta, è pura tattica.