sabato 10 gennaio 2015

il plurale del plurale. gli arabi e la matematica



La ragione per cui (e lo spiego a me stesso, trattandosi dopotutto sempre un diario personale che rendo pubblico, e dove mi può capitare di inserire di tanto in tanto qualche cosetta di carattere più filogico) la ragione per cui ho abbordato nella mia vita così tante lingue - credo di averle passate al setaccio quasi tutte (da un capo all'altro del globo e da un punto all'altro della storia), alcune più studiate e approfondite di altre (ebraico, arabo, sanscrito - le lingue sacre) altre studiate fino a un certo punto (russo, danese, polacco, svedese, olandese, giapponese, ungherese, finlandese, cinese, tibetano eccetera) altre ancora comunemente usate quando leggo o chiacchiero con qualcuno (francese, tedesco, spagnolo, greco moderno), altre studiate per interessi di linguistica (accadico assiro eccetera, le lingue irochesi del Nord America, parlate un tempo dal Popolo della Grande Palude, i Guyohkohnyo, e dal Popolo delle Colline, gli Onondagega, e dagli Oneida eccetera), la ragione principale credo fosse il bisogno,  la necessità (o desiderio) di uscire dal lager della mia lingua madre, e quindi il desiderio di mettermi direttamente, senza nessuna mediazione, in contatto con altri modi di osservare le cose, mettermi
all'interno di altri sistemi di riferimento (l'altra mia grande passione la matematica, anche questa una lingua) e non solo nel presente ma anche nel passato (greco, latino, sanscrito, ebraico, dialetti connesssi). Ma la ragione più vera per cui credo di aver preferito alcune lingue ad altre sono gli alfabeti: il greco mi appassionava e ero bravissimo perché oltre che apparirmi come un infinito mare lessigrafico e lessicale era scritto pure in quel modo "strambo", e così per l'ebraico e il sanscrito: stesse ragioni di sempre, la scrittura. E poi la lingua che amo più di tutte: l'arabo. Credo che se l'arabo non fosse scritto nel modo in cui è scritto probabilmente non mi sarei mai sentito tanto attratto, e avrei perso perciò il piacere di immergermi nella infinita ricchezza delle sue acque (e forse alla base c'erano anche i racconti delle Mille e una notte che da piccolo mi leggeva mia madre). Lo studio scientifico o comparativo, nonostante apprezzassi già prima dell'università Saussure, e in seguito Hjelmslev, Bloomfield, Richards, Hodgen, Benveniste, Sapir (per lo studio delle lingue Maya e degli indiani Hopi) e soprattutto Jakobson, o le riflessioni filosofiche di Derrida sulle tracce grafiche della scrittura - tutto questo mi è sempre interessato meno del viaggio fenomenologico e filologico con e attraverso la lingua (quindi essenzialmente, nei limiti del possibile, cercando di stabilire la consistenza della tradizione manoscritta o epigrafica nel caso di testi antichi ,o mediante scambi e conversazioni in una particolare lingua parlaata oggi). Mentre passare mesi e mesi a studiare o immaginare gli esiti di un termine supposto del persiano antico, riempire le pagine di un articolo di asterischi, fare le pulci a Benveniste perché toppa in qualche punto della sua immensa opera (errori che chi vuole e deve capire corregge comunque automaticamente), starmi a chiedere, in mancanza di elementi filologici certi, se la forma "originaria" di "tesoro" (*gazna o *ganza) è attestata nei dialetti iranici orientali e non in quelli occidentali,  come fa Henning andando ad attaccare un articolo di Benveniste sul nome della città di Ghazna, e "dimostrando" un bel niente (la forma originaria è semplicemente supposta quindi che ti "dimostri"? attraverso indizi? materiale la cui tradizione manoscritta e epigrafica è così rada che la sua coerenza grafica lascia sempre il tempo che trova?) andare di nuovo a fare le pulci a un gigante come Benveniste perché in un articolo sui Parti e Sogdiani (in un contesto fonologico incerto) sostiene che la forma γzn è comune al partico e al sogdiano, e che userebbe un'espressione infelice perché soltanto il sogdiano ha una fricativa velare sonora, vuol dire che stai semplicemente riempiendo pagine in vista di concorsi interni, pagine tra l'altro piene di  contraddizioni e condizionali, e di scopiazzature pure sbagliate, come è tipico della produzione pseudoscientifica umanistica, e che dimostrano al massimo incertezza totale su tutti i fronti.

C'è un detto in arabo:

العربية بحر

al a'rabiyya bahr

la lingua araba è un mare, un oceano.

È esattamente questo vasto oceano, che si estende lungo secoli e secoli, all'interno del quale sanno appena nuotare i "conoscitori e i glottologi", che i tanti Geremia pubblici (giornalisti e commentatori politici) credono di sapere "interpretare": si convincono di sapersi districare in un mondo di cui non sanno assolutamente niente. Credono che sapere "interpretare" significhi identificare tutto il mondo arabo (passato e presente) con l'Islam, o addirittura col terrorismo sedicente islamico, che invece è uno dei frutti più velenosi e evidenti del terrorismo dell'economia liberale, con la quale, nonostante i deliranti proclami scanditi in nome di Dio, fa gustamente pappa e ciccia (usa le stesse armi, si serve di addestratori occidentali, viene favorito dai servizi di intelligence di tutto il mondo perché tutto torna utile): credono, questi tristi Geremia pubblici, che sapere "interpretare" significhi chiacchierare ingenuamente, pubblicamente su tutto e niente per conto del gruppo o del padrone che li foraggia, e non piuttosto mettersi sempre in una posizione di ascolto, come fanno i grandi radiotelescopi, fosse anche soltanto per ascolatre e intendere un po' la lingua, che hai la fortuna, a differenza dei poveri comparatisti per le lingue ormai andate, di ascoltare): credono di saper interpretare sulla base esattamente del nulla la ricchezza di culture e usanze e ideologie di quei popoli che chiamano se stessi "arabi" ma che poi si differenziano e parlano ancora (da Oriente a Occidente, dall'Oman risalendo su verso l'Iraq e tagliando un intero continente fino al Marocco) infinite parlate locali, infiniti dialetti (e il miracolo è che se poi non conosci per esempio i dialetti di Tunisi o di Amman o di qualsiasi altro posto - e non stiamo parlando della geograficamente piccola Italia - puoi sempre usare l'arabo standard, quello letterario, se vogliamo, oppure il dialetto del Cairo, quello più usato nella maggioranza dei film, che tutti vedono e tutti comprendono e più o meno parlano).

E' un mondo d'altra parte di plurali. Che non ha mai avuto bisogno di Derrida o del decostruttivismo, della critica all'idea di una struttura che abbia un centro causale, perché la limgua araba è sempre stata decostruttivista (possiede perfino la categoria dei plurali rotti, nei quali si assiste a un vero e proprio scardinamento del singolare, una fuga dal centro). E il fatto che si tratti di un mondo di plurali può essere esemplificato proprio sui due modi differenti in cui oggi in arabo si può dire "i paesi arabi":

 البلاد العربية ('al bilaadu l'arabiyya)

oppure:

البلدان العربيه ('al buldaanu l'arabiyya).

Era un esempio che leggevo quando studiavo l'arabo (anche se una lingua non si finisce mai di impararla, nemmeno la tua lingua madre). La differenza tra l'una e l'altra espressione è nell'uso della parola paese: (bilaad). Nel primo esempio, la traduzione letterale è "paese arabo" "nazione araba", per indicare però non un singolo paese, ma la totalità dei paesi arabi; nel secondo caso, buldaan è semplicemente il plarale di bilaad: i paesi arabi, le nazioni arabe. Il problema è che bilaad della prima frase - che significa paese, nazione  - non è un singolare: è già un plurale: è il plurale di balad, che significa città. Quindi, a rigore, la prima espressione significherebbe non la nazione araba ma le città arabe: dire "le citta arabe" equivale a dire "il paese, la nazione araba", non c'è nessuna differenza. E perché allora usare il plurale di città per dire paese? per una questione sociale: perché l'arabo vede in un paese, in una nazione, un fatto esssenzialmente urbano, una collezione di città. La stessa idea della polis greca, salvo che se anche le poleis greche del V secolo avevano una consapevolezza di un'appartenenza a una stessa grande nazione non formularono il concetto linguisticamente, non dicevano poleis ma Hellàs.

Tutto apparentemente molto banale, ma per quale motivo allora in arabo usare anche l'altra espressione, la seconda espressione, che è più recente? sotto la spinta dell'analogismo, il bisogno di avere un plurale vero? In senso inverso, la mente araba ama eludere: sottrarsi a una struttura centralizzata, a un baricentro, ama perdersi: ama aprire (un po' come Proust nella sua Recherche, nella sua infinita sintassi) innumerevoli parentesi: ama navigare (col rischio consapevole di non ritrovarsi) nel vasto oceano delle possibilità della sua lingua.

In effetti buldaan, nella seconda espressione, essendo plurale di bilaad, che è già un plurale, è di conseguenza un plurale di plurale, una ripetizione di uno spostamento: un plurale alla seconda, e rispetto a balad (città), è quindi un plurale di plurale di plurale: un plurale alla terza. Non è una novità che i greci andassero a scuola di matematica nei paesi di ceppo semitico, soprattutto in Egitto, in tempi in cui se ancora non si parlava propriamente l'arabo, ma altre parlate berbere, lo spirito del luoghi era già all'opera..









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