sabato 31 gennaio 2015

quot linguae tot universa. Ambiguità e metafora

Sentito al ristorante cinese un israeliano che parlava in ebraico. Ha usato a un certo punto la parola tachanà. Il contesto mi ha fatto intendere che voleva dire fermata. Ma avrei potuto anche vederci, se avessi conosciuto un po' meno l'ebraico o se la parola fosse stata usata in un altro contesto, avrei potuto intendere anche mulino. Niente di più differente di un mulino da una fermata, nessuno immagina mai un mulino fermo, se non
trovandosi davanti un mulino non più in funzione. Ma non è la stessa cosa dell'italiano riso (riso al vapore o riso senza ragione?). Nell'uno e nell'altro caso in italiano uso una stessa grafia, per l'ebraico tachanà, invece, a seconda che voglia dire mulino o fermata uso grafie differenti תחנה (fermata) e טחנה (mulino). Il problema è nella "t" dell'ebraico odierno, rappresentata da due lettere che in ebraico biblico si pronunciavano differentemente (ma tuttora esistono per l'ebraico biblico divergenze di pronuncia in Israele tra la maggioranza aschenazita e le minoranze seferdite e yemenite).

Se immaginassimo (per assurdo) una lingua nella sua condizione originaria, sprovvista ancora di scrittura, non è detto che io debba per forza distinguere due suoni apparentati: il contesto mi aiuterebbe a capire. Il discorso di una stessa parola (uno stesso suono) usata per due concetti apparentemente differenti è tuttavia legato alla formazione della metafora. Io posso benissimo chiamare riso il riso che mangio perché i grani di riso mi ricordano le convulsioni del riso (non il continuo ma il discreto, il separato). La stessa cosa se mulino, in italiano, venisse a significare anche fermata: guardando per giorni e giorni lo stesso mulino non più in funzione potrei indicarme l'immobilità, una situazione statica, potrei usare la parola fermata. Lo stesso per il contrario, se fermata significasse anche mulino.

Così tutto questo - il fatto che la lingua sia da sempre comunque un fatto quanto meno ambiguo (non solo due ma anche tre quattro eccetera possibilità), sia diacronicamente che sincronicamente eccetera, e che all'interno dello steso sistema si prevedano innumerevoli raddoppi e scissioni e convergenze eccetera - porta discredito al nominalsimo: al presupporre l'esistenza di universali. In effetti un universale, trattandosi di un nome, o trovandosi riflesso in un nome, potrebbe facilmente clonarsi: sia graficamente che foneticamente (metaforicamente o per infiniti meccanismi linguistici). Il nominalismo quindi contrasta con la stessa definizione di lingua, di una struttura cioè incerta e paradossalmente non definibile - che si tratti di nominalismo alla Roscellino o alla Ockam. Tuttavia la posizione di Ockam (Entia non multiplicanda sunt praeter necessitatem), se l'avesse sviluppata, sarebbe la più interessante: quella che gli avrebbe permesso di cogliere le infinite possibilità morfologiche della lingua e l'avrebbe avvicinato alle ultime teorie cosmologiche, quelle che prevedano, secondo la teoria delle stringhe, l'esistenza di universi paralleli, e nell'ordine di 10500 .

Se poi si volessero considerare le varie operazioni fieristiche dell'oggi (sia nel senso di fiera - o fiere - delle vanità, sia nel senso di fierezza) allora si potrebbe dire che se Umberto Eco non avesse riposto così tanta fiducia nel valore della sua intelligenza, avrebbe potuto concludere quella sua macchian per fare soldi, Il nome della rosa (pur continuando a scimmiottare Bernardo di Cluny), avrebbe potuto colcluderla in bellezza, introdurre come ultima frase una variazione (della frase di Bernardo) più sensata: non "stat rosa pristina nomine" ma "stant rosae pristinae nominibus".


Nessun commento:

Posta un commento