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mercoledì 18 gennaio 2017

La fine dell'incanto




Ai tempi in cui studiavo l'arabo, il cosiddetto arabo standard, quello dei giornali , della tv, dei film egiziani, l'arabo del Corano e dell'immensa letteratura non dialettale, un arabo che nessuno parla come prima lingua mentre esistono invece un numero infinito di dialetti vivi, mi capitò una frase che mi convinse che in qualche modo quello era nonostante tutto, nonostante certa artificiosità di questa lingua colta, il mio mondo. Era una frase che sarebbe possibile ancora oggi cogliere tranquillamente in una conversazione mettiamo tra un arabo levantino e uno del Maghreb (letteralmente luogo del tramonto), che se vogliono capirsi userebbero questa lingua normalizzata:

أركب آقطار، لأنّه سوف يدهب بعد ساعة

che suona pressappoco:

àrkabul chitàr liànnahu saufa iàdhabu bàada sàa

salgo sul treno perché parte tra un'ora.

L'idea cioè di un tempo paradossalmente dilatato - se un'ora equivale a cinque o dieci minuti allora ho bisogno dell'eternità per portare a termine un qualsiasi compito. Il che si sposava con la mia risaputa indolenza, la quale tra l'altro non mi ha impedito di fare più cose nella vita di chi non si è mai fermato un secondo (è il vero segreto dell'oriente).

Ma c'era altro all'origine che mi affascinava, mi incantava dell'arabo: la scrittura: una sorta di bosco incantato più allettante di quelli dell'Orlando Furioso (che pure tratta di Mori), una selva al di qua della quale mi ostinavo a trattenermi per il semplice gusto di non volerla capire: il desiderio di penetrarla e nello stesso tempo di ritardarne l'apprendimento - il pericolo che molto del fascino che la scrittura esercitava sarebbe svanito con la sua comprensione, con la comprensione dell'arabo, era costante. Cosa regolarmente verificatasi. Così come è successo col sanscrito, che ho iniziato a studiare a sedici anni quando ero ancora sui banchi del liceo e avrei dovuto pensare alla letteratura italiana piuttosto che alla rigogliosa fioritura dei caratteri devanagari, simili a giungle ugualmente impenetrabili. Fascino, incantamento cessato anche qui con la comprensione dei testi, per quanto a causa delle centinaia di legature possibili questa scrittura può sempre apparire un rompicapo pure al più navigato degli indologi.

(L'attrattiva della scrittura è stata in qualche modo minore col greco (familiarità di cultura), col cirillico e con l'ebraico, che al di là delle somiglianze con l'arabo (popoli di dura cervice li chiama la Bibbia) mi ha appassionato sempre poco - senz'altro a causa dell'orrenda complicatezza del sistema accentuativo e vocalico masoretico, l'incontrollata proliferazione di segni per le vocali lunghe, medie, brevi e brevissime, e altri simboli per la lettura e recitazione dei testi sacri, i primi che si iniziano a leggere, e che gli danno l'aspetto di una pelle disgustosamente infetta e purulenta; in più il sapere che si trattava di una tradizione letteraria fondata quasi esclusivamente su testi e commenti religiosi, fatto ancora oggi evidente nell'ebraico "resuscitato" e parlato in Israele, esperimento anacronistico e poliziesco, antistorico, come dimostra la chiusura al mondo di quel paese, l'impianto di una lingua morta, la lingua biblica (per quanto ricca la sua storia), su un territorio da sempre cosmopolita ma considerato dal XIX secolo di proprietà esclusiva di un gruppo ristretto di attivisti in cerca di "pace" e dei loro fanatici epigoni - che lo si voglia o meno, gli israeliani , anche i meravigliosi non credenti, parlano ancora un linguaggio biblico: le parole, la struttura, la sintassi sono le stesse, e anche nei neologismi la  אקדמיה ללשון העברית, l' akademya lalashon haivrit, l'Accademia della lingua ebraica, non fa che ricorrere - adattandole a nuovi significati - a termini dell'Antico Testamento, così come prima di lei aveva fatto il Comitato della lingua ebraica di Eliezer Ben Yehuda).

martedì 21 giugno 2016

Quando Krishna aiuta la filologia. Due versi del Baghavadgita

La banalizzazione di una delle strofe più cariche di tensione del Baghavadgita - la decima del primo canto - è un tipico esempio degli errori che si producono in filologia quando una non necessariamente modesta capacità linguistica non è sorretta da sufficiente "acume" critico, quando cioè il desiderio di brillare sempre e comunque, di porsi a tutti i costi in mostra, fa scendere nel campo azzeccapastrobubbolesco della filologia un qualsiasi ultimo editore che voglia confrontarsi col già detto - e detto e ripetuto erroneamente.

Così non c'è nessuna ragione di ritenere corrotto il testo tradito di questo passo del Gita, o del suo parallelo nella tradizione separata del sesto parvan del Mahabharata (6.10.1-2):

अपर्याप्तं तद् अस्माकं बलं भीष्माभिरक्षितम् /
पर्याप्तं त्विदम् एतेषां बलं भीमाभिरक्षितम् //

Sono state proposte le più disparate interpretazioni, forzato il "genio" del sanscrito ("quello" tradotto con "questo" e viceversa), dato un significato artificioso a pariapta (limitato invece che sufficiente, all'altezza, uguale a), elaborate interpretazioni così fantasiose, così poco concrete che a volerle ammettere sarebbe permesso, in filologia, qualsiasi intervento, far dire tutto e il contrario a un autore. E basterebbe, a titolo di esempio, riportare l'incomprensibile traduzone di Winthrop Sargeant, che per il resto è sempre o quasi sempre puntuale:

sufficient is that force of ours guarded by Bhīma;
insufficient though is the force guarded by Bhima.


I primi mal di pancia iniziarono in realtà quando più di un antico commentatore indiano si accorse che le forze militari di Duryodhana (il personaggio che in questi due śloka parla) erano di gran lunga superiori a quelle degli avversari, dei figli di Pāṇḍu. Impossibile, quindi, secondo i più, che Duryodhana voglia intendere che le sue forze siano "non sufficienti", non all'altezza degli avversari; o che nel farlo non si accorga di compromettere il morale degli uomini. Il quale Duryodhana, per essere precisi, sta parlando non all'intera armata ma al loro maestro d'armi, al valoroso Drona, lo stesso che ha addestrato i guerrieri schierati sotto i loro occhi (ma se pure parlasse all'intero esercito non farebbe nessuna differenza).

Il passo, di una cristallinità disarmante, continuò a suscitare interesse nella critica moderna. Perfino uno studioso del calibro di van Buitenen cadde in questa ridicola trappola, in un vecchio articolo del Journal of American Oriental Society. Basandosi su un commento di Vedāntādeśika a Ramanuja e citando un manoscritto saradico e un commento di Bhaskara il Vedantino, arrivò a vedere nella tradizione di questo passo un'inversione dei nomi che compaiono nei due versi: in altri termini, al posto di Bhīma si dovrebbe leggere Bhīma e al posto di Bhīma Bhīma. Che non è altro, in sostanza, che il capovolgimento del criterio pirincipe della critica testuale, il criterio dell'autorevolezza della lectio difficilior (rendere al contrario tutto più semplice e accontentare una logica dei presupposti). C'è da dire che van Buitenen dedica solo le prime pagine alla questione, ammette che il passo è apparentemente adamantino, "seemingly transparent", e propone la sua versione, che in qualche modo, e indirettamente, riesce a far quadrare, si avvicina al senso più ovvio:

that army guarded by Bhima is not equal to us;
on the other hand, this army, guarded by Bhīma is equal to them;

per il resto si dedica a problemi più interessanti: ai rapporti codicologici tra le due differenti tradizioni - il testo separato del Baghavadgita, e lo stesso testo contenuto nel Mahabharata.  Perfino la critica contemporanea continua a battere sul seminato, sull'erba cattiva (tra gli antichi soltanto giustamente Sankara, il filosofo, non s'è sognato di commentare la giustezza di questi versi, ma forse, anzi sicuramente, in lui giocavano altre ragioni, il fatto che questa prima sezione del Gita non presenta interessi dottrinali).

Le confusioni e gli errori in filologia nascono sempre da un'interpretazione del testo avviata non sulla base di una nozione di uso, e di possibili usi linguistici che sfuggono alla norma, o non immediatamente "propri" di un  particolare autore, o sulla base di considerazioni di natura estetica, ma seguendo una logica normativa, di attese non pienamente soddisfatte - e non soddisfatte il più delle volte perché l'autore a tutto pensava meno che a soddisfare l'idiozia di un critico. Dove sarebbe d'altronde l'onnipresente ironia del Gita (vedi ad esempio la strofa 41 del primo canto, le donne corrotte, che coi loro figli illegittimi creano disordine nelle caste, un timore inevitabilemente ironico di Arjuna, dal momento che né lui né i suoi fratelli sono esattamente figli di Pāṇḍu; e ancora nelle strofe 20-23, l'immobilismo di Arjuna, che se da un lato chiede a  Krishna, il suo auriga, di piazzargli il carro in mezzo alle due armate, è poi incapace di agire e scegliere tra due forze opposte ecc.), dove finisce il capovolgimento artistico? e per quale motivoDuryodhana, che è senza dubbio un valente militare, e dispone di un numero superiore di soldati, avrebbe dovuto riaffermarlo, e vantarsene addirittura col suo maestro: dichiarare una simile banalità se non per attirarsi addosso un'accusa di superbia e vanagloria? E dove sarebbe l'attesa non del critico ma del lettore o dell'ascoltatore, se crede che i giochi siano già fatti visto che Duryodhana è superiore all'avversario? E in effetti lo dice: afferma che le sue forze sono superiori ma per capovolgerne immediatamente l'assunto: che non si sente cioè affatto superiore. In cosa dovrebbe consisterebbe l'eroismo se si combattesse contro un avversario ritenuto inesistente?

Sarebbe bastata questa semplice considerazione di natura estetica (pur lasciando fuori ogni considerazione sintattica) a tagliare la testa al toro. Una confusione che nasce da una visione banalizzante delle cose. E la questione era semmai come rendere il termine chiave पर्याप्त्म् (paryāptam), e la sua negazione, आपर्याप्त्म् (aparyāptam), posta in opposizione all'inizio del verso precedente. E inoltre, in che funzione intendere बलम् balam (forza - all'accusativo, non al nominativo, come si è sempre erroneamente inteso), il quale (cosa a cui nessuno ha mai pensato) è un semplice accusativo di relazione - o dipendente da un participio sottinteso (di noi che abbiamo una forza sorretta da Bhishma) - vedi su questi usi dell'accusativo ad esempio il secondo canto, anche qui un accusativo neutro, all'interno, tra l'altro, di un tipico composto bahuvrīhi:

अश्रुपूर्णाकुलेक्षणम् - laśrupūrṇākulekṣaṇam (2,1)

l'occhio abbattuto e pieno di lacrime

o nel terzo libro, le parole di Krishna a Arjuna, quando lo invita a sottostare all'inevitabilità dell'azione:

नियतं कुरु कर्म त्वम् - nyata kuru karma tvam (3,8)

sottomesso, agisci!

dove sottomesso (नियतम्) è ovviamente, anche questo, un accusativo.


Lo stesso vale - riandando al primo canto - per il secondo verso della strofa (di loro che hanno una forza sorretta da Bhima).  E così  तद् (tad - quella), e  इदम् (idam - questa) staranno bene al loro posto e continueranno a significare quello che hanno sempre significato e non l'opposto.

Insomma i due śloka vanno intesi:

Non è uguale, quella, a noi: una forza (la nostra) guidata da Bhishma
eppure è uguale, questa, alla loro: una forza (la loro) sorretta da Bhima

E il senso è che Bhima non solo non è inferiore a Bhishma (come afferma Edgerton - "unskilled") ma anzi, per il fatto che sia lui a guidare le forze dei figli di Pāṇḍu, pone questi, seppure in numero inferiore, all'altezza degli avversari.

martedì 27 gennaio 2015

dove la luna è maschile: un attributo di Śiva e le lingue germaniche




 सिद्धिः साध्ये सताम् अस्तु प्रसादात् तस्य धूर्जटेः /
जाह्नवीफेनलेखेव यन्मूर्ध्नि शशिनः कला //

Che la riuscita, nel perfezionamento dei buoni, sia un segno del favore di quel Dhurjati (Siva)
sulla cui testa è - simile a uno schiumoso spicchio del Gange - la sedicesima parte della luna

Passo iniziale dell'Hitopadesa comunemente frainteso. Il locativo साध्ये - sādhye (nel perfezionamento, per il perfezionamento) - non può che riferirsi al termine che segue, ai buoni: non avrebbe nessun senso intenderlo

martedì 23 dicembre 2014

la resa dei conti: quella parola che non conosco.

L'altra sera tornando a casa mi è successo un fatto strano. Sulla porta a vetri della guardiola del portiere c'era affisso un foglio - che non hanno ancora tolto. "In qualità", si dice su questo foglio, " di proprietario dell'appartamento interno eccetera piano eccetera, comunico che inzieranno i lavori eccetera". Sono stato davanti a quel foglio a bocca aperta almeno un minuto, a cercare di capire una certa parola, una parola mai sentita. Proprietario. Mi sono detto, che vorrà dire 'sta parola? l'italiano un po' lo conosco e non mi dice niente. E' presa da un'altra lingua? Eppure ho bazzicato si può dire quasi tutte le lingue del mondo e del passato, magari alcune approfondite, altre meno, dal persiano, al cinese, al sanscrito, all'arabo, all'ebraico, allo swaili, per non parlare dell'insieme del ceppo indoeuropeo e del blocco ugrofinnico, con qualche nozione di varie lingue del Burkina Faso: dalla lingua more (che andrebbe pronunciato mòoré - un po' come dire amore a Roma - alla lingua dioula, parlata a Bobo-Dioulasso. la linga bobo, samo, peul, bambara: insieme, ovviamente, alla matematica, le lingue sono state, si può dire, la mia unica vera grande passione, fin da piccolo, sia perché pensavo che potessero mettermi in contatto col passato (latino, greco, accadico assiro, ebraico, sanscrito ecc.) sia che mi mettessero in contatto col futuro (matematica). Possibile che proprietario appartenga a una di quelle lingue che ho studiato meno, il cinese, per esempio, o il giapponese, e che questa parola la conosca proprio uno che abita dove abito io, dove non ci sono né cinesi né giapponesi? possibile che ancora ignori una nozione magari meravigliosa?

Sono risalito a casa e non ci ho dormito tutta la notte. La mattina mi sono svegliato e niente:  la parola proprietario non la conosco. Non mi dice niente. Sono stato tentato di scendere, strappare quel foglio (se non fosse che il nostro portiere è sempre così attento, preciso). Strappare il mezzo che contiene un'offesa palese alla mia esperienza. Alla fine mi sono detto, che per quanti sforzi, per quanti studi uno faccia, quante persone, quanti paesi veda, resta sempre fuori qualcosa. Non c'è niente da fare. Morale della favola, continuo a ignorare il senso di proprietario. Con un po' di giochi associativi riesco al massimo a pensare che da proprietario possa coniarsi un'espressione come proprietà privata. Ma verrebbe rigettata sicuramente dalla comunità dei parlanti. E il senso evidentemente, anche qui, mi resterebbe totalmente oscuro.