lunedì 27 ottobre 2014

L'uomo perfetto e l'obsolescenza di Dio.

L'uomo perfetto, secondo Aristotele, non esiste. E non so nemmeno a chi interesserebbe quest'uomo perfetto se anche esistesse. Vedi pure la nozione di onestà e il dramma di Pirandello, che sposta il discorso al campo dell'etica. Esistono oggetti in ogni tempo considerati perfetti, che dovrebbero essere un riflesso della tendenza dell'uomo a interagire all'interno di un processo limitatizzante, per senso di compiutezza (perficio), o, che è lo stesso, della sua impossibilità a interagire all'esterno di tale processo. D'altro canto la perfezione di un oggetto, a cui la tecnica in ogni tempo mira, è in contraddizione con l'esistenza stessa della tecnica. Oggi un oggetto è considerato perfetto e nello stesso tempo deve avere un grado di obsolescenza elevatissimo, pena la morte della tecnologia, la chiusura delle fabbriche eccetera. La perfezione è quindi tanto più un mito, un inganno ideologico, quanto più si cerca di spacciarla per possibile, anzi realizzata. Questo ragionamento può applicarsi a qualsiasi settore dell'azione umana, e non soltanto all'azione ma anche alla contemplazione, dove la durata della visione di Dio si riduce a un tempo non infinitesimo ma minimo se il concetto di visione e quindi di narrazione (o auto-narrazione) indica durata. Il che toglie ogni valore che non sia propagandistico all'esperienza mistica, a meno che non la si voglia chiamare esperienza della massima obsolescenza di Dio. Vedi anche quanto detto nell'Inganno dell'ascesi e in Tempo divino e tempo umano.

domenica 26 ottobre 2014

la masturbazione femminile e l'imprendibile



Per quanto ne posso sapere della masturbazione femminile, da quel poco che posso aver capito da approfondimenti diretti o indiretti, l'unica cosa che mi viene in mente quando ci penso è che per la donna - almeno nelle modalità esteriori - non dovrebbe essere un'esperienza molto differente da quella di un uomo che ce l'abbia così piccolo che gli è assolutamente impossibile usare tutta la mano, e deve limitarsi a usare un paio di dita. Ma di quest'ultimo caso non ho praticamente esperienza e posso soltanto immaginare. Così come, a differenza della masturbazione maschile (per cui vedi quanto ho scritto in proposito) e nonostante tutti i discorsi "scientifici" sull'intersessualità, posso anche qui solo immaginare che cosa alla donna frulli in quel momento per la testa, quali immagini degne di un Arcimboldo riesca a mettere insieme per ottenere il quadro liberatorio dell'orgasmo. Insomma per un uomo la masturbazione femminile, checché ne dicano i soliti saccenti, credo si approssimi al concetto di imprendibile.

Portare acqua al mulino nero e al mulino arcobaleno

È difficile trovare un prete cattolico o luterano o anabattista o anglicano che non porti sempre e comunque acqua al mulino della rispettiva curia (ma è il loro mestiere), che non faccia giustamente politica pure durante un evento festoso, durante la celebrazione di un matrimonio, quando tutti non aspettano che la fine del comizio per correre al ristorante a ingozzarsi come oche pronte per il foie gras (“siete qui a celebrare il matrimonio che è tra maschio e femmina”, “Dio ha creato il maschio e la femmina” eccetera, non semplicemente tra uomo e donna, come in tempi più recenti con buona pace per tutti ci si era ormai abituati, ma come si diceva una volta, tra maschio e femmina, con la maggiore concretezza della Genesi: a far intendere anche ai sordi - o allo sposo nel caso covasse male intenzioni, e gli venisse in mente, ancor prima di essere sposato, di far indossare alla moglie un pene artificiale, uno strap-on - che l'incontro, in questo senso, deve essere non tra la carota e il bastone ma tra la carota e la cesta); e fa giustamente politica, il prete, perché i vangeli (ma stranamente in quello più teologico di Giovanni la cosa non compare) lo invitano da sempre a restituire a Cesare quel che è di Cesare. Facciamo un ultimo tentativo, via!, sembra dire il prete, poi restituisco a Cesare quel che è di Cesare.

In realtà, modificare anche di poco il linguaggio, cosa sempre auspicabile quando cambia il modo di sentire del mondo, quando cambia l'estetica, non farebbe torto a nessuno: né alla religione (che ha sempre e solo mirato a fare proseliti), né all'industria erotica (che ha interesse a favorire perversioni), e neppure al combattivo, agguerrito mulino gay (che vuole le sue parità): ma anche qui, adeguarsi ai nuovi tempi tornando a quei tempi in cui il linguaggio era più che oggi vicino al vero (non è questa l'epoca della  verità, della scienza?): Cesare – ormai dovrebbe essere noto – s’infilava da ragazzo nel letto del re Nicomede, e nel ruolo di femmina, tanto da meritarsi l’appellativo (che lo divertiva un mondo anche quando era imperator maximus) di regina di Bitina. Dunque perché chi scrisse i vangeli decise effettivamente di non proclamarlo? non rese immediatamente giustizia, non ordinò di restituire a Cesare oltre a tutto anche tutto il resto, tutto il maltolto e anche quindi la famosa cesta di cui andava fiero? perché nessuno ha mai predicato in tutta onestà e verità: restituite a Cesare quel che è di Cesarina?

Per dirla dunque alla greca, nel linguaggio dei vangeli, non

πόδοτε ον τ Καίσαρος Καίσαρι κα τ το Θεο τ Θε

ma

πόδοτε ον τ Καίσαρος Καισαρίνᾳ eccetera.

venerdì 24 ottobre 2014

Leopardi senza Leopardi e la bravura di Martone

È assolutamente patetico (nel senso di commovente) vedere un attore che prima interpreta una figura, un "personaggio" storico e poi va in televisione a dire che almeno quella è la "sua" interpretazione. C’è una tale pochezza di obbiettivi e una tale incapacità di autoanalisi nella odierna globalizzata società multitutto, e la televisione e il cinema hanno fatto un tale calderone e una tale accozzaglia di ogni cosa tra passato presente e futuro, che l’attore arriva a sentirsi nient’altro che onnipotente ("questa almeno è la mia interpretazione!", è il massimo che riescono a dire quando si rendono conto che qualcosa non quadra). Ci si provi a immaginare la propria vita, insignificante quanto possa apparire, e si provi poi a pensare che tra cento anni qualcuno la porterà sulla scena sulla base di qualche nostra lettera o email o di qualche nostro pensierino sulla vita e si misurerà tutta la differenza che ci può essere tra Leopardi e l'interpretazione di Elio Germano, che crede di poterlo finalmente rappresentare a partire dai suoi (di Germano) gesti sempre uguali, che lo fanno riconoscere subito per quello che è, per Elio Germano: la sua mimica facciale, i suoi occhi spaesati e non certo cilestri eccetera, e che si ritrovano in tutti i film nei quali ha “lavorato”. Come se il Leopardi poetico e filosofico, anche a non considerare il colore degli occhi, avesse il volto di Elio Germano.

Ci sarebbe forse voluto Alec Guinness, l’uomo dai mille volti, sempre irriconoscibile: “il più bravo, il più grande”, come scrisse di lui Arbasino alla sua morte. Anzi forse Leopardi avrebbe potuto somigliare per certi versi proprio al professor Marcus/Guinness di Ladykillers: gli ingredienti c’erano tutti: la vecchia signora (Louisa Wilberforce) che andava ammazzata era il padre di Leopardi (Monaldo), il pappagallo era la madre (Adelaide Antici), i componenti del gruppo cameristico, cioè i falsi suonatori, erano i vari mediocri (tra cui il Tommaseo) che l’hanno ostacolato in vita. Inoltre Danny Green, nella parte del tonto al seguito, avrebbe potuto essere l'amico Ranieri, gay velato ante litteram, altro che donnaiolo secondo il film di Martone. E il colpo al furgone portavalori era il tentativo dei suonatori di passare alla storia, serviti poi dal patatrac finale: non a caso il professor Marcus è l’ultimo a morire.  E in alcune scene Marcus appare pure piuttosto seedy, squallido (vedi la scena della cucina, quando cerca di convincere la vecchia a non denunciarli): un pastrano pieno di cimici che lo fa apparire un grandioso down and out.

E così era Leopardi, che amava pochissimo l’acqua, tanto che lo zio fu costretto a essere un tantino brusco in una lettera, invitarlo a lavarsi un po’, a usare ogni tanto il sapone: sporcizia che doveva formare un meraviglioso ossimoro con la bellezza dei suoi occhi, che mostravano nello stesso tempo due precise qualità, non certo lo spaesamentto di Germano: estrema bontà d’animo (gli sporadici attacchi d'irascibilità ne sono un ingrediente) e l'intelligenza divina (così almeno non può non vederlo chiunque abbia avuto la fortuna di leggersi anche poche pagine dello Zibaldone). Non bastano due urli o due incazzature o una scoliosi posticcia per fare Giacomo Leopardi: certe espedienti servono solo, in maniera surrettizia, a farti grande con ciò che non ti appartiene.

l'abbassarsi cristiano e il restare in piedi pagano

La differenza tra i modi della libera religiosità pagana e quelli del più vincolante mondo cristiano potrebbe essere avvertita nel semplice accostamento di due testi lontanissimi nel tempo (ma si potrebbe prendere anche un testo cristiano dell'antichità, una lettera di san Paolo), uno francese e l’altro latino, in entrambi i casi viene usato uno stesso verbo (abiiciere/abjecter):

Or en Jesus nul au vray ne se fie,
sinon celui qui sous son bras puissant
en tous endroits s’abjecte et humilie (Clément Marot, Opusc., I)

Adesso nessuno ha fede in Gesù
se non colui che sotto il suo braccio potente
in ogni luogo si abbassa e umilia

e

Sic te ipse abiicies atque prosternes ut nihil inter te atque quadrupedem aliquem putes interesse? (Cic., Paradoxa stoicorum, 14)

E ti abbasserai e prosternerai a tal punto da mostrare che tra te un quadrupede non vi è nessuna differenza?

Entrambi gli esempi riportati nell’Archeologie française del Pougens, un testo tra l’altro ampiamente rastrellato da Leopardi, che lo cita spesso nello Ziba.

I versi da vaudeville del buon Marot, del libertino Marot, soltanto apparentemente inconcludenti e tautologici, indicano in effetti (è un po' il senso del loro sottilissimo e quasi invisibile sarcasmo - non aveva altri strumenti per non finire come De Sade sempre e nuovamente in galera), che il gesto religioso deve avere per alcuni lo stesso valore dell’abito religioso: un valore di continua testimonianza: un gesto di apparente umiltà, di vicinanza alla terra, quindi in effetti non per restarci (vedi quanto ho scritto nell'Inganno dell'ascesi e dell'invocazione delle sacerdotesse di Dodona). 

Così il martirio (testimonianza) non è altro, per la stessa ragione, che una somma isteria: la ripetizione dello stesso gesto fino alle estreme conseguenze, fino a sbatterci finalmente, come desiderato, il grugno. Lo stesso può dirsi in realtà della scrittura, di chi scrive (vedi Balzac che muore non per una peritonite che si complica in gangrena ma nella sua stessa opera, all’interno della quale si era già trasferito da tempo). Come tutte le forme di irrigidimento anche scrivere è un'isteria.

giovedì 23 ottobre 2014

mancata autopsia. Un motivo in Menandro

[       ]ιν λέγεις, Δε, το τ' μο τρόπου (Asp., 368)

Così Cherestrato, nello Scudo di Menandro; la lacuna del papiro da integrare anche a mio avviso molto semplicemente come altri hanno proposto:

<εὖ γ᾿ ἐστ>ν λέγεις, Δε, το τ' μο τρόπου:

 dici bene, o Davo, e mi va benissimo

Si tratta della messa in scena architettata dallo schiavo Davo della morte di Cherestrato, che potrà così farsi gioco dell’avido fratello Smicrine; un tema, quello della simulazione della propria morte, utilizzato per le stesse ragioni (avidità di un familiare o di un creditore) almeno fino ai tempi di Edoardo e Totò, sicuramente meno praticabile oggi (il morto è morto e basta!) a causa di una sovraesposizione del pubblico a una estetica della pseudoscienza dei laboratori della polizia scientifica, e dei medici legali – vedi per esempio tutto il problema di un’autopsia condotta superficialmente sul corpo dell’uomo ritrovato nella laguna veneziana nei primi capitoli del mio Un valzer per Alfredo.  

i giganteschi genitali di Urano

τος δ πατρ Τιτνας πίκλησιν καλέεσκε
παδας νεικείων μέγας Ορανός, ος τέκεν ατός·
φάσκε δ τιταίνοντας τασθαλί μέγα έξαι
ργον, τοο δ' πειτα τίσιν μετόπισθεν σεσθαι. (Hes., Th. 207-210)


Si tende a dare, in questo passo di Esiodo, a τιταίνοντας il senso di tendere le braccia (verso i genitali di Urano) e si dice che per questa ragione il padre avrebbe finito per chiamarli (i Titani) in questo modo. Il che presuppone che il gioco etimologico vada dal verbo al nome (poiché hanno fatto una certa azione sono stati chiamati così). Unica voce in disaccordo, e mi pare non senza ragione, è quella di Y. Duhoux, “Les caractères des Titans ...” (Recherches de Philologie et de Linguistique, I, (1967), pp. 35-46), che parlava con molta più ragionevolezza del percorso inverso: del procedimento dell’adnominatio, nel creare da un nome (nel definirlo) un verbo omofonico. In questo senso, Urano, dopo aver avuto i Titani da Gaia, avrebbe detto che si sarebbero meritati la pena eccetera a causa appunto del loro titaneggiare. Il che presuppone anche che l’ascoltatore di Esiodo fosse in grado di fare le dovute associazioni. D’altra parte i Titani dovevano essere visti per forza - dal momento che gigantesco era il padre (μέγας Ορανός) -  come essere giganteschi, e titaneggiare verrebbe a significare perciò ingigantirsi (anche moralmente), rendersi quindi colpevoli presuntuosamente e scioccamente (τασθαλί) di βρις, di violenza.

(Edimburgo, 2010)

vecchiaia potere e sesso in Plutarco

Antonio Bellucci, Rinaldo e Armida

Venendo nel corso della sua opera a considerare la questione se l’uomo politico debba a un certo punto, con l’età, sottrarsi all’attività pubblica, se cioè la vecchiaia possa considerarsi un impedimento di natura all’esercizio dell’azione politica - per il fatto che l'uomo si dedicherebbe con più gusto ad altri piaceri (in primo luogo eros) - Plutarco, che affronta il problema da vecchio, lo esclude. E non solo perché è la vecchiaia a essere semmai di ostacolo a determinati piaceri. La ragione più vera è che l’uomo politico non può mai credere di poter venir meno al suo dovere etico.

Nel suo An seni respublica gerenda sit (se il vecchio debba occuparsi attivamente di politica) si serve, a esemplificazione del suo assunto, di due metafore politiche sicuramente topiche, insistenti, nell’antichità: quella dei marinai e quella di Eracle alla reggia di Onfale. La prima delle due immagini viene normalmente fraintesa: anzi non c'è mi pare traduttore che l’abbia resa correttamente. Il vecchio politico che lascia la vita politica per darsi unicamente ai sensi viene paragonato, da questi traduttori, a quei marinai che lasciano la nave prima ancora di giungere in porto. Basterebbe in realtà il semplice buon senso e un pizzico di intelligenza a indicare qui la giusta strada. Come potrebbero dei marinai abbandonare la nave prima ancora che la nave sia arrivata in porto? con delle scialuppe sulle quali concedersi ai letali riti di Afrodite, con l’aiuto magari di questa o quest’altra sirena accondiscendente? (e le sirene di Ulisse dopotutto potrebbero essere a loro volta nient’altro che una metafora proprio di questo, del sesso nudo e crudo, se l'isola nella quale albergano presuppone comunque il miraggio di un qualche porto, soprattutto trovandosi nei pressi di Scilla e Cariddi).

Dice in realtà e molto semplicemente Plutarco:

οκ οδα ποτέρ δυεν εκόνων ασχρν πρέπειν δόξει μλλον βίος ατο· πότερον
φροδίσια ναύταις γουσι πάντα τν λοιπν δη χρόνον οκ ν λιμένι τν ναν χουσιν λλ' τι πλέουσαν πολείπουσιν (785e)

... non so quale di due vergognose immagini si addica di più alla vita di un uomo simile: se quella di quei marinai che ancora in navigazione trascurano la nave invece di portarla al sicuro in porto e si dedicano per tutto il tempo  agli amori  ...”    

Quindi trascurano (πολείπουσιν), non abbandonano la nave, come viene sempre tradotto – e semmai abbandonano la nave a sé.

Il testo di Plutarco lascia giustamente pochissimo spazio a un tipo di immaginazione onirica (alla base di tanti film horror e di tanta narrativa da quattro soldi) a cui è abituato il lettore e spettatore moderno. Non è possibile osservare una nave che naviga con tutti i suoi marinai a bordo e un attimo dopo trovarla vuota. Dove sarebbero andati a finire tutti quanti? E se pure Plutarco avesse avuto un qualche interesse a distinguere le specie di eros, non avrebbe potuto farlo (φροδίσια), e anche a voler sviluppare ulteriormente una metafora che giustamente è stata appena accennata (la fortunata metafora della nave senza nocchiere) quegli amori sensuali sarebbero al massimo quelli nei quali il marinaio indulge a bordo, senza lasciare la nave: e c’è da immaginarsi prima di tutto con chi e a spese di quale parte del corpo; a meno che non si vogliano ipotizzare sulle navi antiche, triremi o da carico, bordelli con tanto di anziana maitresse, e donne imbarcate al solo scopo di rifocillare la ciurma, così come si imbarcano i viveri e tutto il necessario per la sopravvivenza in mare. D’altronde, se anche qui non c’è in Plutarco evidente ossessione classificatoria – amore omosessuale o eterosessuale – difficilmente una simile metafora risulterebbe incisiva senza una “concreta” esperienza visivo-immaginativa del lettore, lo scrittore che gli fa immaginare la scena, i bagordi, le bevute e la nave abbandonata a se stessa. Che è poi espediente narrativo - l’omissione - tipico di tutti i grandi autori che hanno superato la prova del tempo.

Ciò che invece qui conta è il fatto che questa immagine dell’abbandono del dovere tocchi e sfidi il concetto stesso di virilità al di fuori di un qualsiasi riferimento alla natura dell’amore e in direzione unicamente di un indebolimento dell’animo umano, del carattere maschile (l’amore omosessuale, o meglio l’amore per i ragazzi, non a caso non si trova mai opposto in Plutarco, in nessuna delle sue opere, a quello eterosessuale ma soltanto all’amore coniugale, e quindi al dovere - vedi il De amore e quanto ho scritto su questo; l’abbandono del proprio dovere viene qui identificato semplicemente con ciò che è vergognoso - ἐσχρόν - e tale immagine risulta ulteriormente ampliata e definita dall’altra che segue immediatamente, quella di un Eracle effeminato alla corte di Onfale:

καθάπερ νιοι τν ρακλέα παίζοντες οκ ε γράφουσιν ν μφάλης κροκωτοφόρον νδιδόντα Λυδας θεραπαινίσι ιπίζειν κα παραπλέκειν αυτόν.

“... oppure come ironizzano alcuni con Eracle, quando lo raffigurano nelle loro pitture poco presentabile, impaludato in lussuose vesti gialle e dedito e sottomesso a delle schiave lidie mentre si fa sventagliare e acconciare i capelli” (poco presentabile: traduco così, come il contesto richiede, οκ ε, riferito ovviamente a Eracle, non ai pittori - nelle Vite, nel Parallelo tra Demetrio e Marco Antonio, così come nel Teseo, non c’è nessuna condanna di questi pittori, come vuol far credere per esempio M. Cuvigny nella sua edizione del An Seni).

mercoledì 22 ottobre 2014

autorevolezza contro comicità: premier e secunder e previsioni toppate

John Smith


L'autorevolezza (in ogni campo, dalla politica alla letteratura alla filologia) ce l'hai o non ce l'hai. Ce l'hai per nascita: il bambino autorevole lo sgami subito: ad esempio, un mio nipotino, ancora all'asilo, appare in un video mentre discute seriamente con un altro bambino, e tutti e due sembrano due veri ometti, tutti e due responsabili, in piedi uno di fronte all'altro e ognuno che ascolta a turno quello che dice l'altro. A un certo punto sbuca non si sa da dove tutta contenta una ragazzina, che vorrebbe mettere il naso, e questo mio nipotino, non aggressivamente ma deciso, senza neanche guardarla, la spinge via. Sono cose che riguardano noi maschi, pare dire, smamma!

L'autorevolezza è qualcosa di simile: nessun bisogno di aggressività o violenza, soltanto decisione e naturalezza dei gesti. La vera naturalezza lascia pochissimo spazio a una codificazione di tipo isterico.

Per la stessa ragione il comico di professione - poiché la comicità di professione è fondata sull'isteria, sulla ripetizione ossessiva, non naturale, degli stessi gesti - non gode di nessuna autorevolezza se non tra pari. La politica italiana è un fatto di comicità e non esistono quindi personaggi autorevoli in Italia. Esistono personaggi che credono di essere autorevoli perché non appena appaiono sulla scena, gli italiani se li tengono masochisticamente tra i piedi, per diverso tempo, il solito ventennio: il tempo insomma di ridere e farsi fare tranquillamente fessi: nessuno sentirà il bisogno di dire immediatamente ogni volta: smamma!

E ancora per la stessa ragione Renzi ha bisogno di essere continuamente incensato dalla stampa, di elemosinare il titolo di premier, perché in fatto di autorevolezza non è nemmeno secunder. Di lui si potrebbe dire, dalla sua recitazione, che la sua infanzia e poi adolescenza devono essere state una lunga battaglia alla conquista di un'autorevolezza che non avrebbe mai comunque acquistato perché la natura, in questo, non l'ha minimamente degnato. Tony Blair, per cambiare paese, non fu da meno: personaggi unicamente creati e sfornati dai media.

Al contrario, quando improvvisamente morì il britannico John Smith, leader del Partito Labourista e uomo di vera sostanza, che tutti i sondaggi davano ormai a Downing Street, la moglie del grigio ma ugualmente tosto John Major, allora premier e antagonista di Smithintervistata dalla BBC disse più o meno: mio marito mi disse qualche mese fa, guardando Smith in televisione: guarda come si muove, Norma, i suoi gesti: non c'è dubbio che vincerà lui le elezioni.

Ulisse contro Odisseo

Continuo a dire e scrivere Ulisse invece di Odisseo (come vorrebbe l'odierna vulgata dei ricercatori in attesa di passare almeno ad associati a novant'anni) per la semplice ragione che credo che i moderni istituti di filologia classica all'interno dei vari dipartimenti, con tutta la loro ridicola ossessione per la quantizzazione del lavoro intellettuale, abbiano in questo caso inventato l'acqua calda.

martedì 21 ottobre 2014

i notebook inesistenti di Plutarco e Montaigne

Plutarco è forse l’autore dell’antichità che più di altri ha conosciuto una durevole, invidiabile e per certi versi inattaccabile fortuna (il Plutarco morale più che quello delle Vite), e in misura così eccelsa che perfino gli dei avrebbero di che lamentarsi; delle circa 250 opere che gli si attribuiscono ne restano un terzo, un numero ugualmente enorme per un autore antico. Non desta quindi meraviglia il fatto che, soprattutto a partire da una critica per così dire più “positivista”, gli siano state lanciate contro accuse (che hanno e avrebbero avuto in realtà poco senso per l’estetica antica, a meno che non si fosse trattato di ulteriormente screditare scrittorucoli dell’ultima ora) di blando riciclaggio e riutilizzo di materiali non suoi – vedi la Quellenforschung all’inizio del Novecento, secondo la quale mancava a Plutarco capacità creativa nel trattamento delle fonti; o i tentativi di smontarne l’opera per mezzo di quello strumento critico detto dei clusters of parallel passages, elaborato dalla Scuola di Lovanio negli anni Novanta sempre del secolo scorso (soprattutto da Luc van der Stockt e van Meirvenne, ripreso ancora da Verdegem), in altri termini di moduli che si ripeterebbero da un’opera all’altra e risalenti a un ipotetico “notebook” nel quale confluiva materiale che sarebbe potuto risultare utile per le opere a venire – strumento critico d’altronde di gran successo se viene tuttora testato su questa o quest’altra opera anche al di fuori della Scuola di Lovanio – e vedi anche un più recente lavoro sulla tecnica compositiva di Plutarco – con varie forzature - di Sophia Xenophontos (American Journal of Pilology, 133, 1 2012, pp. 61-91). E tuttavia, pur prendendo atto di alcune bellezze del gioco, alla fine si resta sempre incerti di fronte a tante certezze fondate sul nulla e bisognerà forse allora chiedersi se al di là degli entusiasmi dei dipartimenti universitari per l’uno o l’altro strumento interpretativo non abbia senso indagare in primo luogo le ragioni "vere" della incontrastata quasi bi-millenaria fortuna di questo autore, che in fondo scrisse semplicemente di morale, ossia di costumi, in uno stile tra i più elaborati di quell'epoca. Che è lo stesso che faceva un autore che citava ampiamente Plutarco - Montaigne, ugualmente accusato di saccheggiare a destra e a sinistra. E si troverebbe che in realtà questi due autori lessero, raccolsero materiale, e soprattutto provarono piacere (che è sempre un fatto stilistico e potentemente personale e già meno oggettivo) nel comporre e a volte ricomporre (cioè mettere insieme quasi musivamente senza che questo debba comportare una blanda ricopiatura o plagio o mancata riflessione) le tante tessere etiche o morali strappate alle loro letture-ricerche e ai loro ricordi – i due condividono non a caso anche un gusto della descrizione di ineliminabili tensioni autobiografiche:

ἀνελεξάμην περὶ εὐθυμίας ἐκ τῶν ὑπομνημάτων ὧν ἐμαυθῷ πεποιημένος ἐτύγχανον (Plu., De tranquillitate animi, 464f)

Ho scelto sulla tranquillità dell’animo dai ricordi di ciò che facevo con me stesso

e così anche Montaigne, già nell'avvertenza al lettore, è alquanto esplicito: i suoi saggi non sono altro che uno strumento offerto alla comodità di parenti e amici, che vi ritroveranno un giorno alcuni aspetti dei suoi stati e umori:

... à ce que m'ayant perdu (ce qu'ils ont à faire bien tost) il y puissent retrouver aucun traits de mes conditions et humeurs ...

Ovviamente non c’è nulla nel famoso passo del De tranquillitate animi che dica che questi ὑπομνήματα fossero note scritte, che fosse esistito una sorta di diario o serie di appunti – anche se sicuramente sarà ipotizzabile in una qualche misura; ma non al punto da farne, senza prove, una presenza così ossessivamente vera nei dipartimenti universitari, un oggetto perduto per sempre e quasi di culto (“but unfortunately they are lost”, Xenophontos; la quale Xenophontos poi è la prima a riconoscere che forse, come ritiene di aver spiegato, non è tanto questione di un “notebook” inteso come contenitore di patchworks, di materiale grezzo o semplici collezioni di elementi, quanto piuttosto di un insieme di bozze comportanti già una sorta di composizione e rielaborazione di dati tratti dalle sue fonti). 

La vedova e il marito vivo. Un motivo in Lucano.

Alcuni semplici versi di Lucano hanno creato non pochi problemi in vecchi studiosi della sua opera e continuano a crearne in nuovi. Si tratta del passo in cui Pompeo rimprovera sua moglie Cornelia che piange sulla spiaggia di Lesbo dopo la disfatta di Farsalo:

... tu nulla tulisti
bello damna meo: vivit post proelia Magnus
sed fortuna perit: quod defles, illud amasti.

... tu non hai subito alcun
danno dalla mia guerra: dopo essersi battuto, questo “grande” continua a vivere
anche se la fortuna è morta: ciò che piangi è ciò che si è amato.

Vennero ritenuti questi versi “vergognosi” (abominable) da Haitland nella sua introduzione all’edizione di Haskin. In un suo articolo nel Classical Quarterly (On some Passages in Lucan VIII, I, 1907, p. 75) J.J. Postgate  ritiene la parole di Haitland eccessive anche se poi finisce per sposarne lui stesso la causa (“For the crude brutality of the statement  in the last four words there is however no excuse”). E suggerisce, per attenuare questa supposta "brutalità" di intervenire sulla punteggiatura e di inserire un punto interrogativo alla fine: quod defles illud amasti? e il senso, secondo Postgate, dovrebbe essere, mi pare:

forse non ci sono già più, che piangi? sono forse già morto?

 L’interpretazione del perfetto secondo l’uso tipico del sistema indoeuropeo (stato dedotto dall'azione), di azione cioè vista come conclusa nel passato ma con conseguenze nel presente, amasti per non ami più (vixerunt per sono morti in Cicerone) è accettabile, ciò che invece è superfluo è l’intervento sulla punteggiatura, non necessario. Ciò che piangi (ciò che si piange), dice semplicemente Pompeo, è ciò che hai amato (ciò che si è amato, e che quindi non c’è più). In altri termini: una moglie piange il marito quando è morto. I versi che immediatamente precedono indicano d'altronde che questa linea di interpretazione è quella giusta, lì dove Pompeo dice a sua moglie che piangere il proprio marito deve essere l’ultima cosa a cui affidarsi, l’ultimo credo:

... ultima debet

esse fides lugere virum ...

(Londra, 2001)

il gusto della corruzione

Sempre a proposito di Lucilio, quanto dice Housman: “There is no safety in sticking to manuscripts, for their corruption is greater than it seems”, potrebbe ugualmente bene applicarsi all’uomo in generale.

l'anima e i suoi figli

καλν δ' ομαι κα παδας γαθος τος πειτα
καταλείπειν. ο μέν γε παδες σωμάτων, ψυχς δ γγονοι ο λόγοι.
(Clemente Alessandrino, Stromata, 1,1)

i ragionamenti (le idee) discendenti dell’anima come i figli lo sono del corpo. Un topos già ai tempi di Platone, per cui vedi il Fedro 278a

Il bastone di Polifemo. Splendori e miserie della filologia





“An editor of Lucilius or Ennius or Nonius or the reliquiae scaenicae, unless is grieviously self-deluded, must know that the greater number of his corrections, and of his explanations also, are false” (A.E. Housman , The Classical Quarterly, 1, 1907, p. 53).

Lo stesso potrebbe dirsi di qualsiasi editore di testi antichi, non solo di Lucilio, Ennio o Nonio. Anzi a quanto scritto da Housman si potrebbe aggiungere che poiché gli apparati delle edizioni critiche sono pieni di congetture, se pure tra le tante congetture si sospetta che almeno una sia corretta non è detto invece che non siano tutte sbagliate.

Housman, in questo gustoso antico articolo dedicato (si potrebbe dire) agli splendori e alle miserie della filologia luciliana, proponeva un semplice test. Il grosso dei frammenti di Lucilio si conosce grazie a Nonio. Dice più o meno Housman: si prendano semplicemente le citazioni trovate in Nonio di un qualsiasi autore la cui opera è conservata e ben conosciuta altrimenti, si provi a spiegarle o emendarle, e si confrontino poi i risultati con il testo conosciuto. E proponeva lui stesso, su due piedi, un primo esempio, una citazione di Lucrezio.

Si tratta in realtà di un esperimento che se pure stuzzicasse oggi la fantasia di un qualsiasi editore critico dotato di un minimo di spirito ludico resta di non facile attuazione. In primo luogo se anche l’editore fosse interessato non tanto alla carriera universitaria, come è quasi sempre il caso, quanto a porsi onestamente alla prova, è possibile che dell'autore scelto per l'esperimento abbia delle reminiscenze tali da falsare in partenza ogni risultato; in secondo luogo il testo di confronto potrebbe a sua volta essere un guazzabuglio di ipotesi, essere il frutto di errati emendamenti (ogni nuova edizione non fa, il più delle volte, che poggiarsi su una precedente edizione della quale conserva e propaga gli errori): un testo ricostruito cioè o sulla base di una tradizione manoscritta già corrotta o comunque indiretta, o su innumerevoli quantità di trascrizioni sbagliate comunicate da altri studiosi, di interpretazioni fasulle, o sulla base di errori propriamente materiali (sviste eccetera) in fase di recensio e collatio, per non parlare infine di possibili falsi (H. D. Jocelyne arrivava a descrivere di un frammento attribuito a Lucilio il meccanismo di falsificazione - Riflessioni su due nuovi frammenti ecc., in Homo sapiens, homo humanus, II. Atti del XXIX  convegno internazionale del Centro di Studi Umanistici, 1987).

Rimane il fatto che l’assunto di Housman rappresenterebbe ancora oggi un buon punto di partenza. E la prova migliore – se pure non si voglia ricorrere al buon senso - dell'assoluta mancanza di concretezza di tante congetture che da sempre circolano in filologia è il fatto che uno stesso apparato critico continua a ridondare di ipotesi e varianti (e svarianti e svarioni) e suggerimenti. E siccome è difficile, come detto, che queste ipotesi o varianti siano tutte vere, se pure ce n’è una esatta le altre sono comunque sbagliate. E sono, appunto, nei singoli casi, una caterva.

Quanto detto non toglie che vi siano state nella storia della filologia intuizioni veramente gloriose, confermate in seguito da frustuli di papiro, epigrafi, e persino da mosaici di epoche di cui si può pensare che la tradizione sia più giustificabile di quanto non lo sarebbe stata quella posteriore.

Un interessante esempio di intuito e intelligenza, e forse anche di genio filologico, lo propone lo stesso Housman, in questo primo dei suoi Luciliana, dove di Lucilio cita, tolti da Nonio, i due versi sul bastone di Polifemo:

maius bacillum/ quam malus navis in corbita maximus ulla

un bastone più grande di un albero “di nave” maestro, in un qualsiasi mercantile

Il genitivo navis è nei manoscritti. Il dramma è che, metricamente, il genitivo qui crea un qualche problema, e per poter funzionare dovrebbe suonare monosillabico (esiste almeno un esempio in Plauto). Ma già Dousa (seguito poi da Lachmann e da Baehrens) suggeriva l’ablativo navi – e leggeva:

maius bacillum/ quam malus navi in corbita maximus ulla

un bastone più grande di un albero maestro in una qualsiasi nave mercantile

vedeva cioè in corbita un semplice aggettivo: una nave, in effetti, "corvata" (che un corvo di legno venisse posto in cima all’albero maestro sembrerebbe un fatto curioso se questo uccello risulterà sempre in qualche modo legato all’idea specifica del malaugurio, e se così era anche in origine, e nel mondo nautico, allora era la malasorte che si augurava alle imbarcazioni nemiche - e vedi anche l’italiano corvetta ai giorni nostri per nave da guerra la cui etimologia sembra incerta ma è possibile che attraverso vari passaggi, da una lingua all’altra, compreso l’olandese, si risalga proprio al latino corbita).

Müller, nella sua edizione del 1888, difese la vulgata; ma appena qualche anno dopo, la scoperta di un mosaico a Althiburos in Tunisia, in cui  è raffigurata una di queste corbite, parve dare ragione a Dousa e al suo ablativo: veniva citato nel mosaico il verso di Lucilio:

quam malus “navi” e corbita maximus ullast

dell’albero maestro proveniente da una qualsiasi nave mercantile

Chi commissionò il mosaico citava forse a memoria?  leggeva un testo che conteneva già l’intervento di un qualche copista, la correzione di un originario uso monosillabico di navis? cosa in realtà non proprio campata in aria se anche Plauto, contemporaneo di Lucilio, se ne serve. E tuttavia ci sarebbe qui da chiamare di nuovo in causa il criterio principe della critica testuale, della lectio difficilior, che non sarebbe mai fuori luogo ricordare sempre e continuamente a ogni studente di filologia alle prime armi: di due manoscritti che presentano una lezione differente, la parola meno banale o il giro di frase stilisticamente più complesso sono quelli giusti. Un criterio fondato in effetti sulla logica, difficilmente attaccabile anche nel nostro caso, a patto però che si dimostri che chi avesse eventualmente commesso l’errore di trasformare in navis un originario navi fosse un copista ignorante, oppure che il suo intervento fosse non un colpo di ignoranza ma di banalità.
(Londra, novembre 2001)

lunedì 20 ottobre 2014

L'inganno dell'ascesi

νιπτόποδες, χαμαιεναι

che non si lavano i piedi, dormono per terra

Così Achille (Il., 16,35) parlando dei Selli, sacerdoti di Dodona, considerati i più antichi in Grecia. E vedi anche il frammento del'Eretteo di Euripide, conosciuto grazie unicamente a Clemente Alesandrino che lo cita nei suoi Stromata e che considera i versi un'imitazione di Omero:

... ἐν στρώτ πέδ
εδουσι, πηγας δ' οχ γραίνουσιν πόδας. (Er., fr. 367 Nauck)

... sulla terra nuda
dormono e non si bagnano i piedi alle fonti.

È sicuramente un dato di fatto che l'ascesi - nel senso di un lungo percorso costellato di ostacoli (di esercizi) che parte dall'umano e arriva fino al divino - non sia invenzione né del Giudaismo né del Cristianesimo e che nessuna religione in particolare possa dire di averla scoperta; ma è vero che è nelle religioni della colpa che esiste una stessa idea di un Dio che non può essere degnamente servito se non sperimentando una condizione di privazione e di estremo affaticamento di tutto il corpo: con l'esperienza fisica della durezza (e dovrei forse ricordare qui i foglianti del cardinal Bona, di cui a suo tempo traducevo il trattatello sulla Messa, l'uso della pietra cone cuscino). Tuttavia, anche questo concetto di privazione, di affaticamento, difficilmente potrebbe fondarsi su un'originaria idea di possesso: sarebbe vero l'opposto: è il possesso che va sempre definito a partire da un'idea di non accumulo (la questione non è se essere poveri sia un male, come da sempre cercano di dimostrare tutte le storiografie al servizio del capitale, dal quale dipendono: i termini povertà, indigenza, necessità sono ammantati di ideologia ancor prima di divenire operanti: non sono nemmeno una sorta di grado zero. Il grado originario è quello dell'uomo che nasce nudo (e non sa di esserlo) e sul quale in seguito si accumulano o stratificano tutte le possibili definizioni a venire.

Ogni forma di ascesi non può essere quindi un esercizio (è il senso d'altronde del greco askesis) di ritorno alle origini, quelle stratificazioni glielo impediscono; si tratta invece di un'elevazione proposta sulla base e come rifiuto di ciò che si possiede, che non può essere abolito e che non e assolutamente un dato originario: è in più un movimento verso l'alto invece che verso il basso - è conosciuta delle sacerdotesse di Dodona (non solo il più antico ma, almeno secondo Erodoto, in origine anche l'unico oracolo della Grecia) un'invocazione ricordata da Pausania:

Γ καρπος νίει, δι κλζετε Ματέρα γααν. (Paus., X, 12, 10)

La terra produce frutti, invocate perciò la Madre Terra.

Inoltre, qualsiasi ascesi che si ponga come scopo la conquista del cielo attraverso un ritorno a uno stato precedente di vita sulla terra non potrebbe darsi che come una certa maniera di oblio del presente e nello stesso tempo una reminiscenza del passato: è di conseguenza un'esperienza paradossale, una sorta di ossimoro, una contraddizione in termini: non si può, cioè, senza dimenticare completamente il presente riattualizzare nessun passato, il quale, a sua volta, se anche diventasse il nuovo presente, resterebbe per definizione all'origine di ciò di cui già era stato all'origine - è tra l'altro  la ragione del fallimento di tutte le riforme dei vari ordini religiosi avviate dall'interno della Chiesa (nonostante la sopravvivenza delle singole riforme (cistercensi dai benedettini, foglianti e trappisti dai cistercensi, stretta osservanza e cappuccini dai francescani predicatori eccetera). Il chiodo più vecchio  è sostituito da un chiodo apparentemente nuovo, ma che è invece più arrugginito del vecchio: è alla base di ciò che si credeva così superato.

Perciò, l'idea di un ritorno a uno stato precedente da cui ripartire è sempre funzione di una convinzione, di un'ideologia: è la presunzione di credere non solo che il presente si possa abolire, si possa cancellare, ma anche che il presente da abolire non sopravviva nel passato che si tenta di riattualizzare (che si tratti come nel Cristianesimo di un ritorno alla semplicità della propaganda evangelica o di un ritorno alla natura in religioni naturistiche). L'originaria Ragione non è assolutamente riattuabile se non attraverso un inganno ideologico. Di qui anche il fallimento di Hegel e di ogni hegelismo










sabato 18 ottobre 2014

Il soldo di cacio

Io non do un soldo di cacio alle seguenti categorie di persone:

primi ministri
politici di qualsiasi schieramento
attori famosi e meno famosi
cantanti
comici
registi
artisti
professori universitari
intellettuali
critici
scrittori che vanno per la maggiore e che un giorno andranno anche meno che per la minore
giornalisti impegnati e meno impegnati
calciatori
economisti
scienziati
medici

e in generale non do un soldo di cacio a chiunque è conosciuto tramite quel ridicolo oggetto che è la televisione, e a chi in televisione risiede in pianta stabile.

E in generale non do un soldo di cacio a


maleducati
presuntuosi
ricchi e arricchiti
fascisti della prima e dell'ultima ora
comunisti in carriera politica
cattolici convinti
preti
borghesi
piccolo borghesi
falsi maschi
donne aggressive e in carriera
femministe
veline
invidiosi e invidiose
stupidi perenni


Apprezzo invece:

disoccupati
contadini e contadine
metalmeccanici e operai e operaie in generale
donne di servizio
aristocratici con notevole senso dell'umano
sognatori
bambini Down
donne energiche e dolci nello stesso tempo e con notevole spirito materno
lesbiche che non odiano gli uomini
uomini che non sanno di avere talento
ragazzi e ragazze che sanno sorridere

venerdì 17 ottobre 2014

Tortura, investigazione, ricerca della verità

Non c'è dubbio che la mente greca si rivela (rispetto a quella latina) speculativa perfino nelle questioni più pratiche, in quelle più estreme, nelle questioni di vita o di morte. Così avviene senz'altro a proposito della tortura: basanos, basanizesthai (torturare, ma in origine confrontare - basanos è la cosiddetta pietra lidia, la pietra con cui si testa la purezza dell'oro; e l'origine è comunque ancora semitica: l'egiziano conserva bahan, una specie di scisto usato in questo stesso senso [vedi Chantraine s.v. e vedi basalto in italiano] e anche in ebraico bahan, confermare. Il latino ha semplicemente (già in epoca classica) crucio, inizialmente mettere sulla croce, che varrà poi in seguito quale termine tecnico per tortura.

Dunque originariamente l'uomo latino è affascinato dallo strumento in sé, dall'idea di morte, e lo è già prima di avere appreso la "verità" processuale: quindi dal quadro d'insieme, dall'effetto, dallo spettacolo: si pone direttamente come spettatore, alla maniera di quanto avviene oggi in America, un paese psicologicamente rimpicciolito dagli ultimi sviluppi del caso ebola, dove il pubblico ammesso alle esecuzioni capitali assiste incuriosito al dramma dei medici che iniettano merda farmaceutica  nelle braccia di un loro simile, anche se solo dopo aver appreso  la "verita": un pubblico ovviamente non visto da chi è nella stanza degli orrori, protetto (per ragioni di privacy - non si sa di chi) dalla classica finestra usata anche negli interrogatori di polizia, seduto in una serie di file come se si fosse al cinema (in questo senso, la Cina - la sedicente comunista Cina - si mostra invece giustamente oscurantista e bigotta: censura ogni divertimento, fa direttamente sparire i condannati a morte, nessuno sa come dove è quando verranno giustiziati: nemmeno i familiari sanno niente, e nemmeno il condannato a morte). A differenza quindi - in un caso come nell'altro - del greco, che vuole ancora e sempre e fino alla fine semplicemente sapere, sentir parlare, conoscere, mettere alla prova, investigare (e pur sapendo che come il suo cugino latino anche lui può torturare soltanto gli schiavi, i quali poi saranno pronti a giurare il falso pur di evitare la corda o qualche altro aggeggio, con buona pace del vero): l'uomo greco insomma, nonostante le ingenuità metodologiche connesse con ogni tipo di tortura, è attante, è soggetto conoscitivo attivo anche quando delega al torturatore (basanistes - lo stesso che inquirente) che agisce per suo conto nella camera della "prova" (basanisterion) coi suoi strumenti della "conoscenza" (basanisteria).

Basanizesthai è d'altra parte ampiamente usato in senso scientifico:

διόπερ εὐλόγως βασανίζεται ταῖς πείραις τό γε τῶν ἀνδρῶν, εἰ ἄγονον, ἐν τῷ ὕδατι (Arist., De generatione animalium, 747a)

perciò giustamente viene "testato" quello maschile (lo sperma) nell'acqua, per vedere se è sterile.

E in logica:

ἀπὸ τῶν πανταχόθεν βεβασανισμένων (Philodemus, De signis, 29).

da ciò che è stato provato in ogni maniera (inferenza).

L'uso figurato di basanizesthai nella critica e nella stilistica: contorto (da torcere), rappresenta invece un totale capovolgimento di prospettiva: dove c'è tortura non può esserci né veritàpersuasione: vedi ad esempio quanto detto dei primi discorsi del giovane Demostene, agli inizi della sua carriera, quando l'assemblea del popolo ancora rideva a crepapelle di una sua certa goffaggine nell'espressione:

τοῦ λόγου συγκεχύσθαι ταῖς περιόδοις καὶ βεβασανίσθαι τοῖς ἐνθυμήμασι πικρῶς ἄγαν καὶ κατακόρως δοκοῦντος (Plu., Dem., 6)

sembrando il suo periodare confuso, troppo fastidiosamente contorto (torturato) ed eccessivo per l'uso di formalismi argomentativi.

Che è poi il difetto di tutti i principianti.







   

lunedì 13 ottobre 2014

I delfini e la fuga degli dei. L'umano terribilmente umano

Se gli dei vissero effettivamente come viene descritto nell'epos (o nella sua tarda rielaborazione), allora dovettero avere ben poco tempo da dedicare a se stessi, e anzi la loro esistenza dovette essere un lungo martirio di inquietudini, una continua attenzione al mondo, un ininterrotto occuparsi dei drammi umani: guerre, amori, odi, incesti, omicidi ... E bisognava agire, intervenire, ottenere e fare tutto con preciso tempismo. L'umanità, nonostante tutto, non avrebbe aspettato.

γαίης δ'ἀπὸ διπλόα πείσματ᾽ἔλυσαν

οὐδ᾽ ἄρ᾽ Ἀθηναίην προτέρω λάθον ὁρμηθέντες:
αὐτίκα δ᾽ ἐσσυμένως νεφέλης ἐπιβᾶσα πόδεσσιν
κούφης, ἥ κε φέροι μιν ἄφαρ βριαρήν περ ἐοῦσαν,

σεύατ᾽ ἴμεν πόντονδε, φίλα φρονέουσ᾽ ἐρέτῃσιν.
...
ὧς ἄρα καρπαλίμως κούρη Διὸς ἀίξασα 
θῆκεν ἐπ᾽ ἀξείνοιο πόδας Θυνηίδος ἀκτῆς. (Apollon., 2, 536-48)

sciolsero da terra le doppie gomene
e la cosa non sfuggì a quel punto a Atena
che "subito, in un attimo", posando i piedi su una nuvola
leggera che la portasse "immediatamente" nonostante il peso,
"si precipitò" giù verso il mare, amica ai rematori.
...
così "rapida lanciandosi" la figlia di Giove
mise i piedi sulla costa Tineide dell'Euxino.

Era un'umanità che dava insomma continui grattacapi agli dei, che arrivava a sfidare perfino il divino: consapevolemente (le tante creature trasformate per presunzione in animali, piante eccetera) o inconsapevolmente, in scene che come ho già detto altrove, hanno pure del comico (Dioniso alle prese con Penteo, il quale lo fa addirittura legare e gettare in carcere: un dio che si lascia legare, gettare in carcere e che intanto sorride sinistro). Con tutto questo via vai che c'era tra l'Olimpo e la terra non c'è da meravigliarsi che a un certo punto abbiano deciso, gli dei, di andarsene in pensione, o di scegliersi, come vuole la favoletta, una nuova dimora: il corpo della più felice e libera delle creature: il delfino, dalla quale continuare a godersi lo spettacolo ridicolo del mondo. In altre parole, se anche è vero che:

un tempo gli dei camminavano tra gli uomini

(Götter wandelten einst bei Menschen ... [Hölderlin, Götter wandelten einst ...])

non sarebbero del tutto spariti se indugiano, se nuotano ancora in acque umane: anzi in certi circhi acquatici continuano a far ridere grandi e piccoli, cosa che ricorda da vicino proprio le inquietanti scene di Penteo e Dioniso - si sa che i delfini sono animali giocosi ma non bisogna mai tirare troppo la corda. Si conoscono casi in cui il povero umano, credendo di farsi gioco, s'è ritrovato se non fatto a pezzi come Penteo quantomeno ferocemente sbatacchiato, e quando s'è salvato s'è salvato per il rotto della cuffia.