venerdì 24 ottobre 2014

Leopardi senza Leopardi e la bravura di Martone

È assolutamente patetico (nel senso di commovente) vedere un attore che prima interpreta una figura, un "personaggio" storico e poi va in televisione a dire che almeno quella è la "sua" interpretazione. C’è una tale pochezza di obbiettivi e una tale incapacità di autoanalisi nella odierna globalizzata società multitutto, e la televisione e il cinema hanno fatto un tale calderone e una tale accozzaglia di ogni cosa tra passato presente e futuro, che l’attore arriva a sentirsi nient’altro che onnipotente ("questa almeno è la mia interpretazione!", è il massimo che riescono a dire quando si rendono conto che qualcosa non quadra). Ci si provi a immaginare la propria vita, insignificante quanto possa apparire, e si provi poi a pensare che tra cento anni qualcuno la porterà sulla scena sulla base di qualche nostra lettera o email o di qualche nostro pensierino sulla vita e si misurerà tutta la differenza che ci può essere tra Leopardi e l'interpretazione di Elio Germano, che crede di poterlo finalmente rappresentare a partire dai suoi (di Germano) gesti sempre uguali, che lo fanno riconoscere subito per quello che è, per Elio Germano: la sua mimica facciale, i suoi occhi spaesati e non certo cilestri eccetera, e che si ritrovano in tutti i film nei quali ha “lavorato”. Come se il Leopardi poetico e filosofico, anche a non considerare il colore degli occhi, avesse il volto di Elio Germano.

Ci sarebbe forse voluto Alec Guinness, l’uomo dai mille volti, sempre irriconoscibile: “il più bravo, il più grande”, come scrisse di lui Arbasino alla sua morte. Anzi forse Leopardi avrebbe potuto somigliare per certi versi proprio al professor Marcus/Guinness di Ladykillers: gli ingredienti c’erano tutti: la vecchia signora (Louisa Wilberforce) che andava ammazzata era il padre di Leopardi (Monaldo), il pappagallo era la madre (Adelaide Antici), i componenti del gruppo cameristico, cioè i falsi suonatori, erano i vari mediocri (tra cui il Tommaseo) che l’hanno ostacolato in vita. Inoltre Danny Green, nella parte del tonto al seguito, avrebbe potuto essere l'amico Ranieri, gay velato ante litteram, altro che donnaiolo secondo il film di Martone. E il colpo al furgone portavalori era il tentativo dei suonatori di passare alla storia, serviti poi dal patatrac finale: non a caso il professor Marcus è l’ultimo a morire.  E in alcune scene Marcus appare pure piuttosto seedy, squallido (vedi la scena della cucina, quando cerca di convincere la vecchia a non denunciarli): un pastrano pieno di cimici che lo fa apparire un grandioso down and out.

E così era Leopardi, che amava pochissimo l’acqua, tanto che lo zio fu costretto a essere un tantino brusco in una lettera, invitarlo a lavarsi un po’, a usare ogni tanto il sapone: sporcizia che doveva formare un meraviglioso ossimoro con la bellezza dei suoi occhi, che mostravano nello stesso tempo due precise qualità, non certo lo spaesamentto di Germano: estrema bontà d’animo (gli sporadici attacchi d'irascibilità ne sono un ingrediente) e l'intelligenza divina (così almeno non può non vederlo chiunque abbia avuto la fortuna di leggersi anche poche pagine dello Zibaldone). Non bastano due urli o due incazzature o una scoliosi posticcia per fare Giacomo Leopardi: certe espedienti servono solo, in maniera surrettizia, a farti grande con ciò che non ti appartiene.

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