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mercoledì 17 dicembre 2014
la guerra tra rane e topi: editori contro scrittori ministeriali
Così alla fine editori e scrittori ministeriali (professori universitari) sono venuti ai ferri corti (tutto un didascalico e noioso articolo su Repubblica): i secondi accusano i primi di seguire unicamente il mercato, i primi accusano i secondi di produrre testi soltanto in vista dei concorsi - cioè saggi che nessuno leggerà e che non leggono nemmeno le commissioni d'esame (a parte andarsi a spulciare l'indice per vedere se il pavone di turno è stato citato) perché il vincitore di un determinato posto - lo sanno cani e porci - è già stato deciso secondo il sistema interno del baronaggio . E ci sarebbe da chiedere agli editori che lanciano adesso accuse al mondo accademico, in quale mondo hanno vissuto fino a ieri e dove si trovavano quando pubblicavano robaccia indigeribile che i dipartimenti universitari consegnavano direttamente alle redazioni (Mulino, Laterza eccetera). Gli scrittori ministeriali, i "professori" (quelli che vengono pagati dal Ministero) sono in questo genere di affari più puri, più prossimi alla semplicità delle cose: in effetti hanno sempre rigettato il mercato: hanno fin dall'inzio seguito il sistema che precedeva il mercato prima dell'invenzione del denaro: il sistema di scambio: tu fai vincere oggi il mio allievo, io faccio vincere domani il tuo. A non voler poi aprire una parentesi su quegli scrittori universitari (e sono una legione) che non hanno mai saputo tenere a freno la verga, che favoriscono o hanno favorito in passato non gli allievi ma le "allieve", il cui svergognato capobanda nel settore umanistico è stato fino a qualche anno fa un personaggio della "sinistra" che non conta nemmeno nominare, talmente dovrebbe essere noto a tutti. Su questo ho già scritto e riscritto a iosa
sabato 13 aprile 2013
le risate di Kafka e il nuovo Castello
Quante volte non ci siamo sentiti dire, da un perfetto sconosciuto alla fermata dell’autobus o aspettando alla posta o in treno o in aereo (dopo che nel giro di un quarto d'ora ci ha raccontato anche i particolari più struggenti della sua esistenza): “Ehh, e questo è niente! la mia vita sarebbe un romanzo se solo sapessi scrivere”.
Salvo che la propria vita non è mai veramente interessante: non lo sarebbe neanche quella dei più grandi romanzieri se non la inserissero tra le righe di ciò che dicono e fanno i loro personaggi, che stranamente restano impressi fin dall’inizio. Ma che oggi tutti si siano trasformati “di fatto” in romanzieri, questo è un altro discorso, ed è un po’ nell’ordine delle cose: non certo una grande sciagura, come vorrebbero invece far credere i nuovi castellani della carta stampata e virtuale, a meno che non si rigettino quelle stesse premesse tecnologiche su cui è costruito l'attuale Castello. Si è cominciato con i blog e i post giornalieri nei vari blog e forum: quella vertigine che a molti non sembrava vera: veder schizzare il proprio nome dal niente del privato al niente pubblico: passare da una bocca (affamata di niente) all’altra (ma c'era già stato in passato il democraticissimo elenco del telefono). La stessa vertigine che, credo, provasse in origine (“en archè” “bereshit”), chiunque vedeva all'improvviso il suo nome inserito nelle bacheche del comune, nelle pubblicazioni di matrimonio. Anche lì ho l’impressione che, in un mondo ugualmente disilluso, ci fosse ancora spazio per qualche brivido: che qualcuno - è il motivo per cui si fanno ancora queste pubblicazioni di matrimonio – se ne uscisse magari per scherzo magari per davvero e mandasse tutto all'aria: questo matrimonio non s’ha da fare, quest’uomo è già sposato (le donne non hanno il senso dell'avventura, e se ce l'hanno è un senso posticcio, imitativo). Gli anglosassoni sono già più diretti e più drammatici, sollecitano i vari sicofanti quando la cerimonia è già in corso: se qualcuno si oppone a questo matrimonio lo faccia ora o taccia per sempre!
Questo per dire che se da un lato internet ha scoperchiato il vaso di Pandora, dall’altro ha reso questo "tutto della notorietà" meno temibile, più facile, più fruibile, anche se il Castello resta lì, imprendibile, lo sappiamo bene.
Si scrive a Fazi o a un altro grande editore, si invia un file pdf col proprio romanzao, che il più delle volte, a onor del vero, è un orrore illeggibile, e naturalmente il Castello non spedisce alla locanda nessun dipendente in borghese con la faccia da attore, gli occhi sottili e le sopracciglia folte, a assicurarsi che l’intruso effettivamente sia un intruso. Semplicemente non risponde, quindi il Castello si è fatto, giustamente, anche più irraggiungibile rispetto ai tempi di Kafka. E sarebbe stato interessante leggere, nel lungo pezzo sul “morbo dello scrittore” di Mariarosa Mancuso, pubblicato sul Foglio, quanto successe anni fa a Londra, lo scherzo che giocò uno di questi tanti ignorati dalle case editrici, il quale mandò una copia dattiloscritta di Pride and Prejudice facendola passare per opera sua. Lo modernizzò solo tanticchia. E l’editore rispose con una gentilissima per niente ironica lettera (in realtà venne poi licenziato): “la ringraziamo, ma l’opera non rientra nei nostri piani editoriali”. D’altronde la Mancuso, che appartiene al Castello (anche se si affaccia ai merli), e che quindi non è un caso che non ricordi questa storia, cita poi stranamente tra i grandi romanzieri proprio Jane Austin. E su questo, che Jane Austen fosse una grande, e che in quanto grande ebbe non poche difficoltà in un mondo di mediocri e di castellani, siamo tutti d’accordo. O quasi.
Salvo che la propria vita non è mai veramente interessante: non lo sarebbe neanche quella dei più grandi romanzieri se non la inserissero tra le righe di ciò che dicono e fanno i loro personaggi, che stranamente restano impressi fin dall’inizio. Ma che oggi tutti si siano trasformati “di fatto” in romanzieri, questo è un altro discorso, ed è un po’ nell’ordine delle cose: non certo una grande sciagura, come vorrebbero invece far credere i nuovi castellani della carta stampata e virtuale, a meno che non si rigettino quelle stesse premesse tecnologiche su cui è costruito l'attuale Castello. Si è cominciato con i blog e i post giornalieri nei vari blog e forum: quella vertigine che a molti non sembrava vera: veder schizzare il proprio nome dal niente del privato al niente pubblico: passare da una bocca (affamata di niente) all’altra (ma c'era già stato in passato il democraticissimo elenco del telefono). La stessa vertigine che, credo, provasse in origine (“en archè” “bereshit”), chiunque vedeva all'improvviso il suo nome inserito nelle bacheche del comune, nelle pubblicazioni di matrimonio. Anche lì ho l’impressione che, in un mondo ugualmente disilluso, ci fosse ancora spazio per qualche brivido: che qualcuno - è il motivo per cui si fanno ancora queste pubblicazioni di matrimonio – se ne uscisse magari per scherzo magari per davvero e mandasse tutto all'aria: questo matrimonio non s’ha da fare, quest’uomo è già sposato (le donne non hanno il senso dell'avventura, e se ce l'hanno è un senso posticcio, imitativo). Gli anglosassoni sono già più diretti e più drammatici, sollecitano i vari sicofanti quando la cerimonia è già in corso: se qualcuno si oppone a questo matrimonio lo faccia ora o taccia per sempre!
Questo per dire che se da un lato internet ha scoperchiato il vaso di Pandora, dall’altro ha reso questo "tutto della notorietà" meno temibile, più facile, più fruibile, anche se il Castello resta lì, imprendibile, lo sappiamo bene.
Si scrive a Fazi o a un altro grande editore, si invia un file pdf col proprio romanzao, che il più delle volte, a onor del vero, è un orrore illeggibile, e naturalmente il Castello non spedisce alla locanda nessun dipendente in borghese con la faccia da attore, gli occhi sottili e le sopracciglia folte, a assicurarsi che l’intruso effettivamente sia un intruso. Semplicemente non risponde, quindi il Castello si è fatto, giustamente, anche più irraggiungibile rispetto ai tempi di Kafka. E sarebbe stato interessante leggere, nel lungo pezzo sul “morbo dello scrittore” di Mariarosa Mancuso, pubblicato sul Foglio, quanto successe anni fa a Londra, lo scherzo che giocò uno di questi tanti ignorati dalle case editrici, il quale mandò una copia dattiloscritta di Pride and Prejudice facendola passare per opera sua. Lo modernizzò solo tanticchia. E l’editore rispose con una gentilissima per niente ironica lettera (in realtà venne poi licenziato): “la ringraziamo, ma l’opera non rientra nei nostri piani editoriali”. D’altronde la Mancuso, che appartiene al Castello (anche se si affaccia ai merli), e che quindi non è un caso che non ricordi questa storia, cita poi stranamente tra i grandi romanzieri proprio Jane Austin. E su questo, che Jane Austen fosse una grande, e che in quanto grande ebbe non poche difficoltà in un mondo di mediocri e di castellani, siamo tutti d’accordo. O quasi.
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