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martedì 13 gennaio 2015

sui fiumi di Babilonia i microbi della terra

על נהרות בבל שם ישבנו גם־בכינו בזכרנו את־ציון׃

Sui fiumi di Babilonia sedevamo e piangevamo  al ricordo di Sion.

Così hanno fatto i "grandi" della Terra, come li chiamano i giornali provinciali italiani  (Corriere e Repubblica - Huffington Post Italia, sottomarca del liberalismo pseudo libertario, non è nemmeno da prendere in considerazione, se non come possibilità di ottenere una credit card prepagata). Così hanno fatto invece i piccoli della terra, rappresentati giustamente da gnomi in tailleur e giacca e cravatta, sulle ceneri di Charlie Hebdo: hanno sicuramente intonato l'inizio del Cantico di Sion, del più famoso dei salmi delle lamentazioni.

Ci sarebbe da dire che il testo l'ebraico non ha "e", come ho tradotto, ma "anche"  (גם - gam). E' in posizione estremamente ambigua - estremamente perché è agli estremi di due proposizioni correlate: un nesso, sembrerebbe, paratattico ("questo e questo": sedevamo e piangevamo). Ma potrebbe riferirsi a quanto precede: sedevamo anche, cioè: anche sui fiumi di Babilonia sedevamo (dopo esserci seduti altrove). Oppure a quanto segue: piangevamo anche (oltre a essere seduti, piangevamo), e potrebbe addirittura indicare enfasi, come in alcuni suoi usi nel Vecchio Testamento, a introdurre un climax, un crescendo, uno stracciarsi le vesti, uno strapparsi i capelli, un graffiarsi e rigarsi i volti: sui fiumi di Babilonia sedevamo, sì (proprio così): piangevamo eccetera"

Tutti sensi che si adattano benissimo alla congrega di pidocchi della terra che si sono riuniti a Parigi

(ad esempio: e piangevamo anche, mentre rispondevamo al cellualre; oppure piangevamo anche mentre peteggiavamo in silenzio; oppure: piangevamo anche mentre speravamo, noi amebe, di essere visti dal mondo eccetera; oppure nel primo caso: anche lì sedevamo, dopo esserci seduti a tutte le inutili tristi celebrazioni e messe di suffragio.

Grazie al cielo l'orazione di Pericle per i caduti della guerra archidamica è andata perduta: doveva essere di una noia mortale a giudicare dalla ricostruzione di Tucidide: roboantica celebrazione della sua testa a forma di ogiva (per quanto Pericle fosse un gigante in confronto a queste caccole).

sabato 26 luglio 2014

La macchina dello Stato e i benemeriti artisti. Nota su Nietzsche



 La tragedia antica come educatrice del popolo poteva formarsi solo al servizio dello Stato.

(Die antike Tragödie als Volkslehrerin konnte nur im Dienste des Staates zu Stande kommen. Nachgelassene Fragmente Ende 1870 — April 1871, 7 [23])

Questa affermazione di Nietzsche, contenuta in uno dei frammenti cosiddetti postumi, potrebbe apparire, come ogni giudizio umano non ancora analizzato con gli strumenti della logica informale, apodittica, di principio, creatura di un possibile ideologismo. Ma è il giudizio di una voce particolarmente autorevole, difficilmente quindi ribaltabile. Intanto ci si dovrebbe piuttosto domandare per quale ragione la tragedia antica, nella sua funzione educativa, non debba o non possa invece formarsi al di fuori dello Stato; oppure, che equivale allo stesso, per quale ragione lo Stato debba profondere così tanti mezzi quanti sono quelli necessari all’allestimento di così tante tragedie in concorso ogni anno nei vari festival (ogni autore ne presentava tre più un dramma satiresco, la cosiddetta tetralogia). Oppure ci si può chiedere per quale ragione la stessa cosa, la profusione di così tanti mezzi, non possa immaginarsi come fatta da una singola famiglia che voglia celebrare se stessa, la propria schiatta. Oppure: a cosa porterebbe immaginare una singola famiglia o anche più di una – il che rientrerebbe comunque in una concezione di Stato - che si faccia promotrice del “bene” estetico pubblico?

Porterebbe, è ovvio, in primo luogo, al concetto di noia e quindi, dato un certo esiguo numero di anni, all’abbattimento del sistema del singolo. Dice Nietzsche nello stesso frammento:

Con il suo elevatissimo egoismo il singolo essere non arriverebbe mai a promuovere la civiltà. Per questo si dà l’impulso politico, nel quale in un primo momento l’egoismo se ne sta tranquillo.

(Das einzelne höchst selbstsüchtige Wesen würde nie dazu kommen, die Kultur zu fördern. Darum giebt es den politischen Trieb, bei dem zunächst der Egoismus beruhigt ist.)

E ancora prima:

Per questa ragione [la tragedia antica come educatrice all’interno dello Stato] il livello della vita politica e la dedizione allo Stato si era così accresciuto che anche gli artisti pensavano soprattutto allo Stato. Lo Stato era” strumento della realtà artistica”. Per questo la più alta aspirazione allo Stato doveva trovarsi proprio in quelle cerchie che avevano bisogno dell’arte. Tutto ciò era possibile solo se lo Stato si reggeva da sé, cosa che è pensabile solo se un esiguo numero di cittadini accede al potere.

(Darum war das politische Leben und die Ergebenheit für den Staat so gesteigert, daß auch die Künstler an ihn vor allem dachten. Der Staat war ein “Mittel der Kunstwirklichkeit”: deshalb mußte die Gier zum Staate in den kunstbedürftigen Kreisen die allerhöchste sein. Dies war nur möglich durch Selbstregierung, diese aber ist nur denkbar bei geringer Zahl von regierungsbefähigten Bürgern.)

In realtà non sarebbe difficile assegnare il "valore di verità del vero" a questa funzione ideologico-educativa del prodotto estetico pure nel caso dell’uomo e della donna di oggi: della televisione, del cinema, delle università, dei giornali finanziati dallo Stato. L’artista, l’intellettuale, che si pone anche in una netta posizione di critica sociale o del potere [vedi La grande bellezza, che raggiunge addirittura gli Oscar] è a tutti gli effetti lui l’inconsapevole reggitore interno, il reggitore dello Stato: di questa spaventosa macchina senza altro nocchiero se non la “potente” propaganda delle immagini e delle parole. Il capitale, la finanza hanno ben poco da preoccuparsi, così come una mamma non si preoccupa affatto di lasciare i pargoli nelle mani di una fidata babysitter. Il lavoro che dovrebbero fare loro, il capitale e la finanza, viene tranquillamente delegato a questo esercito (pur sempre sparuto) di immaginifici e parolai. È interesse, cioè, dei singoli pifferai non tirare la corda oltre un certo limite, pena – oltre la rottura della corda – l’annullamento di sé.

Dice Nietzsche:

L’immane spiegamento di istituzioni politiche e sociali veniva in fin dei conti effettuato a vantaggio di pochi: cioè dei grandi artisti e filosofi – che però non debbono avere la pretesa di entrare nella vita politica, come richiede invece lo Stato platonico. Per loro la natura impiega le altissime e illusorie immagini, mentre per la massa bastano gli scarti del genio.

(Der ungeheure Aufwand des Staats- und Gesellschaftswesens wird schließlich doch nur für einige Wenige aufgeführt: dies sind die großen Künstler und Philosophen — die nur nicht beanspruchen sollen, mit hinein zu treten in das politische Wesen, wie es Plato’s Staat fordert. Für sie braucht die Natur die höchsten Wahngebilde, während für die Masse nur die Abfälle des Genius ausreichen.)

Il paradosso, molla fascinosa e fondamentale di un potere che è dovunque e in nessun luogo, è d’altronde sempre ben oliata e funzionante:

Lo Stato sorge in modo crudelissimo dalla sottomissione, dalla generazione [aggiungerei continua] di una schiatta di fuchi. La sua superiore vocazione consiste nel far crescere [aggiungerei: e far preservare] da questi fuchi una civiltà. L’impulso politico tende alla conservazione della civiltà, così che non si debba ricominciare in continuazione daccapo.

(Der Staat entsteht auf die grausamste Weise durch Unterwerfung, durch die Erzeugung eines Drohnengeschlechts. Seine höhere Bestimmung nun ist, aus diesen Drohnen eine Kultur erwachsen zu lassen. Der politische Trieb geht auf Erhaltung der Kultur, damit nicht fortwährend von vorn angefangen werden muß.)
                                      
È uno Stato illusorio ma in fin dei conti benemerito, che ha pensato anche a uno smaltimento indolore di ciò che non è, via via, necessario:

Vale lo stesso, dice infatti Nietzsche, per il linguaggio: è il parto degli esseri più geniali, mentre il popolo ne utilizza solo la minima parte, e in certo qual modo soltanto i rifiuti.

(Es verhält sich mit der Sprache ähnlich: sie ist die Geburt der genialsten Wesen, zum Gebrauch für die genialsten Wesen, während das Volk sie zum geringsten Theile braucht und gleichsam nur die Abfälle benutzt.)

giovedì 24 luglio 2014

Cacciari a caccia di Cacciari

Vi sono accademici, universitari, che si innalzano ben al di sopra della mediocrità dei loro colleghi ma che almeno agli inizi, o intorno agli inizi della loro carriera, e poi, di tanto in tanto, anche in seguito, sentono il bisogno (che non fa onore) di produrre lavori che posseggano i crismi (cioè i balsami) del "metodo", del metodo accademico, tali cioè da poter essere riconosciuti e accettati dai propri pari, che appunto, data la mediocrità che contraddistingue questi pari, non sarebbero per niente dei pari: sentono insomma, questi pochi grandi intellettuali vissuti all'ombra del mondo universitario (e che coniugano sempre precisione e sensibilità), il bisogno di essere giudicati da chi dovrebbero invece essere loro a giudicare ignorandoli. E mettono in atto, in alcune di queste loro opere, una potenza e tensione teoretica davvero ammirevoli - vedi per esempio il primo capitolo dell'antico Krisis di Cacciari, ma in generale tutto il saggio. Il quale però non è per niente opera filosofica - o lo sarebbe se fosse la parte che resta di un sistema (così come nel Cielo, Aristotele trova il tempo di passare criticamente in rassegna le posizioni dei filosofi che l'hanno preceduto o contemporanei). Eppure Massimo Cacciari è un filosofo: cioè un pensatore con la "p" maiuscola, e lo è non in questi primi o anche successivi lavori di critica ideologica, come Dell'Inizio, Della cosa ultima, che in fondo non sono altro che opere di storiografia filosofica (come lo possono essere il Sofista di Platone, i Physicorum placita di Teofrasto) ma lo è in alcuni suoi lavori di mezzo, nei quali la voce diventa finalmente magistrale: è la voce senza incertezze del maestro, ad esempio in quello che considero il suo libro più filosofico: Dallo Steinhof; quella voce del vero pensatore che a tratti si sente anche in Icone della legge:

La ricerca è l’esperienza continua della impossibilità della risposta – ovvero: che la risposta non-è-che-possibile. E come potrebbe darsi piena risposta, se un’essenziale, irriducibile dimenticanza fonda lo stesso domandare? (p. 91)

oppure in Geofilosofia dell'Europa, lì dove ad esempio discute della tolleranza nella tradizione umanistica del de pace fidei (dialogo tra religioni quale premessa della pace):

... non appena l’idea della tolleranza viene affrontata con la necessaria coerenza, essa non può che riuscire di nuovo in quella di armonia.
   Quali vie tentare, allora? Possiamo forse pensare la pace al di fuori dell’idea di armonia e di connessione? Ma proprio questo è il tentativo che, al fondo, è stato operato dall’idea di tolleranza. Possiamo indebolire all’infinito quest’idea, senza per ciò superare le sue aporie; anche se tolleranza per noi si riduce a vago sentimento di affinità, a incerta, eclettica ‘simpatia’ col diverso, non è  neppure concepibile il tollerare, se non nei confronti di ciò che in nessun modo si ritiene espressione di verità. (p. 146).

Una stessa voce che si ritrova a tratti anche in un lavoro apparentemente più esegetico, L'Angelo necessario, opere la cui impostazione è quella di un grande sapere e di una grande erudizione che si abbandonano all'imprevedibile rimaneggiamento e riattualizzazione suscitato di necessità dal loro conflitto con l'esperienza. Ciò che si chiama, se sostenuto da tensione analitica e sintetica, sapienza, e che si ritrova, spesso in forma di brevi aforismi (il frammento che torna caro ai romantici e a Leopardi, e che permette sempre e nuovamente di ricominciare ed eleudere la noia di produrre un lungo testo) in opere come la Gaia Scienza e Aurora di Nietzsche.