Vi sono accademici, universitari, che si innalzano ben al di sopra della mediocrità dei loro colleghi ma che almeno agli inizi, o intorno agli inizi della loro carriera, e poi, di tanto in tanto, anche in seguito, sentono il bisogno (che non fa onore) di produrre lavori che posseggano i crismi (cioè i balsami) del "metodo", del
metodo accademico, tali cioè da poter essere riconosciuti e accettati dai propri
pari, che appunto, data la mediocrità che contraddistingue questi
pari, non sarebbero per niente dei
pari: sentono insomma, questi pochi grandi intellettuali vissuti all'ombra del mondo universitario (e che coniugano sempre precisione e sensibilità), il bisogno di essere
giudicati da chi dovrebbero invece essere loro a giudicare ignorandoli. E mettono in atto, in alcune di queste loro opere, una potenza e tensione teoretica davvero ammirevoli - vedi per esempio il primo capitolo dell'antico
Krisis di Cacciari, ma in generale tutto il saggio. Il quale però non è per niente
opera filosofica - o lo sarebbe se fosse la parte che resta di un
sistema (così come nel
Cielo, Aristotele trova il tempo di passare criticamente in rassegna le posizioni dei filosofi che l'hanno preceduto o contemporanei). Eppure Massimo Cacciari
è un
filosofo: cioè un pensatore con la "p" maiuscola, e lo è non in questi primi o anche successivi lavori di
critica ideologica, come
Dell'Inizio,
Della cosa ultima, che in fondo non sono altro che opere di
storiografia filosofica (come lo possono essere il
Sofista di Platone, i
Physicorum placita di Teofrasto) ma lo è in alcuni suoi lavori di mezzo, nei quali la voce diventa finalmente magistrale: è la voce senza incertezze del maestro, ad esempio in quello che considero il suo libro più
filosofico:
Dallo Steinhof; quella voce del
vero pensatore che a tratti si sente anche in
Icone della legge:
La ricerca è l’esperienza continua della
impossibilità della risposta – ovvero: che la risposta non-è-che-possibile. E
come potrebbe darsi piena risposta, se un’essenziale, irriducibile dimenticanza
fonda lo stesso domandare? (p. 91)
oppure in Geofilosofia dell'Europa, lì dove ad esempio discute della tolleranza nella tradizione umanistica del de pace fidei (dialogo tra religioni quale premessa della pace):
... non appena l’idea della tolleranza viene affrontata con
la necessaria coerenza, essa non può che riuscire di nuovo in quella di
armonia.
Quali vie tentare,
allora? Possiamo forse pensare la pace al di fuori dell’idea di armonia e di
connessione? Ma proprio questo è il tentativo che, al fondo, è stato operato
dall’idea di tolleranza. Possiamo indebolire all’infinito quest’idea, senza per
ciò superare le sue aporie; anche se tolleranza per noi si riduce a vago
sentimento di affinità, a incerta, eclettica ‘simpatia’ col diverso, non è neppure concepibile il tollerare, se non nei
confronti di ciò che in nessun modo si ritiene espressione di verità. (p. 146).
Una stessa voce che si ritrova a tratti anche in un lavoro apparentemente più esegetic
o, L'Angelo necessario, opere la cui
impostazione è quella di un grande
sapere e
di una grande
erudizione che si abbandonano all'imprevedibile rimaneggiamento e riattualizzazione suscitato di necessità dal loro conflitto con l'
esperienza. Ciò che si chiama, se sostenuto da tensione analitica e sintetica,
sapienza, e che si ritrova, spesso in forma di
brevi
aforismi (il frammento che torna caro ai romantici e a Leopardi, e che permette sempre e nuovamente di ricominciare ed eleudere la noia di produrre un lungo testo) in opere come la
Gaia Scienza e
Aurora di Nietzsche.
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