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giovedì 24 luglio 2014

Il piacere della creatura e l'invidia del Creatore



“I feel so miserable!”, cioè: “sto veramente giù!”.

Sarebbe difficile trovare un inglese della classe media che si esprima pubblicamente in questo modo – lo farebbe con un amico, con un familiare (vedi ciò che ho scritto su un certo atteggiamento marziale dell’inglese oggi in tema di esternazione di sentimenti). Non lo direbbe. Quasi a nascondere il suo malessere al Creatore (che in regime anglicano e in genere protestante ha orecchie soltanto quando si parla in pubblico). Insomma, la paura che il Creatore, invidioso, tolga pure questo minimo di sofferenza che è stata concessa alla creature.

Uno stesso ragionamento per esempio in Simone Weil:

Il segno che il lavoro – quando non è inumano – ha un senso per noi, è il piacere che se ne ricava, un piacere che non stanca mai ...
   Gli operai non confessano volentieri questo piacere – perché hanno l'impressione che confessandolo rischierebbero di vedersi diminuito il salario! (Cahiers I)

Per quanto ingenuo, ancor prima che ironico, suoni tale riferimento al piacere dell'operaio – come convincere il minatore africano che il buio della miniera di diamanti, i quali forse ricordano le stelle, è preferibile alla luce del sole se non convincendolo che il paradosso è il segno della sua condizione ideale? – ma basterebbe osservare la rabbia urlata dai lavoratori in mobilità e cassa intehrazione in deroga a piazza Montecitorio, da due anni quasi senza stipendio e senza lavoro, e immaginare la felicità che si stamperebbe improvvisamente sulle loro facce all’annuncio che possono finalmente tornare a lavorare in condizioni di schiavitù perfino superiori alle precedenti, basterebbe questo piccolo annuncio per togliere ogni possibile ironia all’aforisma della Weil e riconoscerne la disarmante giustezza. 

mercoledì 9 luglio 2014

il fanatismo dei tedeschi e la nemesi

La partita Brasile-Germania dei mondiali del 2014 ha mostrato, dei tedeschi, uno degli aspetti più tipici del loro carattere nazionale, che è anche l'elemento peggiore: il fanatismo. Per quanto Stendhal nei suoi Ricordi d'egotismo ne parli come di una nazione essenzialmente buona se paragonata all'inglese e alla francese, e per quanto in effetti si tratti di un popolo di indole spontaneista, molto più prossimo agli italiani di quanto non si pensi, riescono poi a offrire, in certi momenti della loro incredibile storia, questi spettacoli di puro, rigido invasamento, che più che suscitare ammirazione inducono ogni volta a riflettere. Non si continua mai, contro un nemico ormai psicologicamente provato, annullato sotto gli occhi del suo generoso pubblico, a infierire senza nessuna ragione: neppure quando i giocatori in campo, come si dice, vedono soltanto la rete avversaria (un po' come il toro che dovunque si giri vede il rosso - che non sia così, che non si vede solo e sempre la porta avversaria, lo dimostra l'esistenza del concetto di un gioco tutto di difesa, il cosiddetto catenaccio). Già un quattro a zero è un risultato che una squadra veramente forte dovrebbe essere in grado di gestire senza nessun problema, divertendosi anche, mettendoci pure un pizzico di perfidia, come magari farebbe il gatto col topo; un 7 a 1 è invece il segno dell'opposto: di una squadra vincitrice mediocre, invisibile sul piano umano (il calcio è uno spettacolo viscerale, mobilita sentimenti di massa), una squadra che sta giocando contro un avversario che nemmeno esiste (e tanto più è inesistente l'avversario tanto più forti si appare agli occhi dei merli). Non ci vuole molto a capire che la prossima finale - che sia l'Olanda o l'Argentina - vedrà il mondo schierato contro il fanatismo storico (hegeliano) dei tedeschi, il quale non aspetta mai altro che la prima occasione per rivelarsi sempre e nuovamente uguale a se stesso.

Così la semifinale Italia Germania dei mondiali del 2006 (ma lo stesso potrebbe dirsi della semifinale Italia Germania dei mondiali del 1970 in Messico, nominata la "Partita del secolo", o della finale dell'82 a Madrid) per quanto giocata, la partita del 2006, per centoventi minuti ad altissimi livelli da entrambe le squadre, fu il segno, negli ultimi due minuti dei supplementari, non della superiorità degli italiani (che sono da sempre calcisticamente i veri avversari dei tedeschi), ma di una nemesi storica che andò a stanare e a punire i tedeschi proprio nella loro terra - una vendetta che prima o poi arriva e che ti ricorda che per poter dire di aver vinto devi prima di tutto avere davanti un avversario vero, non degli zombi.






venerdì 4 luglio 2014

l'abbraccio e la paura



L’abbraccio tra due delinquenti, due spietati killer, due pericolosi malavitanti non è il segno di un residuo granello di umanità: semmai, caratteristica più propria all’umanità è l'essere feroce, spietata. L’abbraccio, i baci, le manifestazioni di affetto tra due criminali non sono altro che il segno di una paura che cova, il pegno di un legame di protezione. In altri termini è pura retorica. Opera continua di persuasione.

Lo stesso può dirsi dell’abbraccio in generale, dei baci, delle manifestazioni di affetto tra parenti, amici. Sono semplicemente un simbolo. La sostituzione di un linguaggio, quello delle emozioni, con un altro, quello gestuale rappresentativo di queste emozioni. Il simbolo della strutturale debolezza biologica dell’individuo, e della sua conseguente fragilità emotiva. Quindi la manifestazione sociale della sua piena solitudine. Paradossalmente è meno solo chi è solo (ma con se stesso) che chi partecipa di un legame affettivo: costui non è né solo né "non solo". Se così non fosse, l’individuo non avrebbe bisogno di sentirsi rassicurato e di rassicurare. L’abbraccio, i baci, sono la manifestazione di un’isteria. Dell’essere pietrificati di fronte all’incertezza. Sono il segno del limbo perpetuo nel quale si muove l’individuo: non si è né all’inferno né in paradiso.

L’amicizia è un rito apotropaico, il cui scopo sarebbe lo stesso del corno portafortuna che usano i napoletani.

I popoli caratterialmente più marziali sono quelli che si sottraggono, fin che possono, alle manifestazioni di affetto – vedi ancora oggi gli inglesi. O vedi un atteggiamento tipico delle loro classi dirigenti, dell'establishment: "sono stato educato così,  a nascondere i miei sentimenti". E questo, a sua volta, è pura tattica.

lunedì 23 giugno 2014

En attendant Godard. Il paese di Acchiappacitrulli e il presente perpetuo





En attendant Godot, aspettando Godot, aspettando l’autobus alla fermata di via Veneto a Roma all’imbocco da piazza Barberini, alle otto di sera, il giorno dopo il solstizio d’estate, i giorni più lunghi dell’anno, con ancora quindi parecchia luce. Improvvisamente, facendo un gran casino come se dovesse passare la regina di Spagna, due motociclisti dei carabinieri si materializzano scortando una macchina di uno dei tanti papaveri governativi italiani. Mi ha fatto subito pensare a quel capitolo di Pinocchio, il Paese di Acchiappacitrulli, con le gazze ladre che

venerdì 24 maggio 2013

Land diving, Pentecost Island e lo zapping


                                      Gabbiano al Vittoriano - foto di Lance 94

Quando un inglese della classe media vuole farti capire che è al limite della sopportazione fa un gesto che per lui è normale: alza velocemente gli occhi al cielo e in un attimo te li ripunta addosso. È un semplice movimento leggermente in diagonale rispetto al normale asse visivo, in cui però la testa resta immobile, ma se non sei inglese è inutile che provi a imitarlo. Una cosa simile la fanno anche gli italiani, che però invece di riportare subito gli occhi a terra, di tuffarsi di nuovo negli occhi dell’interlocutore, continuano a fissare in alto.



Land diving (tuffarsi verso terra) è non a caso un'espressione inglese. Indica non tanto uno sport estremo quanto un rituale religioso, propiziatorio: lo stesso che poi ha dato nascita al moderno bunjee jumping. Nell’isola di Pentecoste, nello Repubblica di Vanuatu (gruppo di isole chiamate ancora Nuove Ebridi quando ebbi la fortuna di vederle da piccolo), a quasi duemila chilometri dalla costa australiana nell'Oceano Pacifico, gli uomini ancora oggi si abbandonano a questo affascinante rito, che in lingua locale si chiama mi pare nagol, o forse ngol: dopo avere assicurato le caviglie a una liana e sotto lo sguardo di centinaia di turisti si lanciano in un certo periodo dell’anno da un'alta torre fatta di rami tutti intrecciati, le punte acuminate: una cosa impressionante per come la rivedo – o forse era solo lo sguardo di un bambino. Veniva un tempo in questo modo eletto il capo tribù: colui che riusciva a saltare dal punto più alto - e le torri raggiungevano anche i trenta metri. Ovviamente rischiavi di crepare, di rimanere infilzato.



Oggi il bunjee jumping è uno sport relativamente sicuro. Lo fanno un po’ dappertutto e forse non c'è nessuno che non l'abbia ancora visto. Vedendo il bunjee jumping versione moderna per la prima volta a Londra, un pomeriggio che camminavo verso Chelsea Bridge Road in direzione del ponte e dell'imponente struttura costruita per questo genere di tuffi legati a un cavo, mi rivenne da pensare all’isola di Pentecoste, e alle cose che da piccolo cercarono di farmi intendere di quel rito propiziatorio. E facendo un confronto, guardando questi uomini e donne completamente imbracati, pieni di ganci, moschettoni, cinture di sicurezza e confortati da premurosi istruttori, è difficile non rendersi conto di come l'umanità abbia fatto notevoli passi avanti, sperimentato uno sviluppo veramente galattico sul piano sociale e psico-evolutivo se si considera che si è passati dallo scegliere un capo tribù utilizzando arcaici criteri religioso-agonistici all'individuazione della semplice bravura in uno qualsiasi di questi sport estremi in cui si è circondati da tutto un corteggio di paramedici e ambulanze. Inoltre, se il capo tribù si trovava allora in un certo senso soffocato e rintronato per giorni dall'ammirazione collettiva della sua gente, il nostro campione la sera tornato casa si trova in compagnia delle rassicuranti pareti domestiche, dei suoi mobili più o meno di fabbrica, del pc e della televisone, oltre che del necessario cellulare: e se si tratta di una donna è immeditamante presa da tante altre cure e responsabilità (normalmente in cucina a preparare la cena), se invece è un uomo, la prima cosa che fa è spogliarsi e buttarsi sul divano, allungare le gambe sul tavolino in modo da poter subito iniziare a muovere le dita dei piedi e a scaricare la tensione accumulata nella competizione. Poi, col telecomando in mano (questa sorta di scettro), comincia a fare zapping, a passare da un canale all’altro fino a ritrovarsi magicamente a quello di partenza. Insomma il campione, pur dando l’impressione, a differenza della campionessa, di volersi fermare, non smette mai in realtà neppure lui di tenere occupati la mente e il corpo.


Tutto ovviamente dipende dai punti di vista, e quelli di una donna non coincideranno mai alla fine con quelli di un uomo, checché ne dicano i nemici della generalizzazione. Così una mia amica - che pure è una buona velista - mi dice che ogni volta che il marito torna a casa stanco da una partita di calcetto e si sdraia sul divano davanti alla televisione, lei immancabilmente, da un po' di anni a questa parte, non fa che ripetergli la stessa cosa: "te lo dico una volta per tutte: mi so' stufata di trovarmi tutte le sere questa salma davanti!"