Se si volesse applicare con costanza il criterio della lectio difficilior alle opere di Cicerone (cosa che nessun editore di buon senso si sognerebbe di non fare) allora parecchi degli apparati delle recenti e meno recenti edizioni critiche dovrebbero essere rivisti. Un esempio tra i tanti si trova nelle Lettere a Attico (I.16) - sempre che l'epistolario non sia un falso (la questione non è mai stata nemmeno presa in considerazione dai vari editori negli ultimi cinque secoli. Si rischierebbe, oggi, di veder mandare al macero tonnellate di libri e articoli di storia, oltre che di filologia, anche se in fondo non si eliminerebbe la sostanza: avremmo cioè sempre a che fare con un signor falsario, un antico falsario con le palle, non ignaro di niente).
E' la lettera dell'inizio luglio 61, nella quale - la questione era già stata affrontata in altre due lettere dell'inizio dell'anno (25 gennaio e 13 febbraio - I.13 e 14) - viene raccontata la penosa costituzione della giuria chiamata a giudicare Publio Clodio nel processo per sacrilegio, un processo nel quale Cicerone è chiamato come testimone. Testimonianza, d'altronde, che gli è poca gradita:
neque dixi quicquam pro testimonio nisi quod erat ita "notum" atque testatum ut non possem praeterire.
né ho raccontato nulla che non fosse così "conosciuto" e risaputo da poterlo trascurare.
Tutti gli editori moderni (e anche antichi) accolgono notum (conosciuto), conservato da alcuni codici della famiglia sigma contro la totale concordanza dei codici della famiglia delta, che hanno novum, cioè nuovo, inaudito, mai sentito prima e quindi anche recente, accaduto da poco, fresco (per novum nel senso di recente gli esempi non sono predominanti ma si trovano comunque in Livio, Tacito eccetera).
La difficoltà per l'editore, qui, è nel decidere tra il banale (notum) e l'icastico (novum), per quanto, a seconda che si opti l'uno o per l'altro, il senso non ne viene stravolto. Novum è inoltre appunto lectio difficilior.
Il problema sollevato da Cicerone è ovvio: è quello di qualsiasi processo fondato sull'escussione di un teste in mancanza di documenti - come è nel processo a Clodio, un processo per sacrilegio (crimen incesti), che tocca per di più la sfera non pubblica, non ufficialmente certificabile, della sessualità (se cioè Clodio sia entrato o meno vestito da donna in casa di Cesare per incontrarsi con Pompea durante la celebrazione dei riti della Bona Dea): un processo nel quale Clodio offre un alibi (si trovava a Terni, quel giorno, non a Roma), di fronte a un testimone, Cicerone, che aveva già sbandierato ai sette venti, e a poche ore dal fattaccio, che Clodio quel giorno era invece andato a trovarlo nella sua casa sul Palatino. Era perciò cosa ormai risaputa (testatum) e era un fatto anche novum - recente, ma anche singolare: colpiva per una sua certa "novità" (assurdità): quella discrepanza tra le parole di un ex console e le affermazioni di Clodio, e quindi restava impresso. E' evidente, quindi, che il problema posto agli editori di questo passo delle Lettere riguarda l'attendbilità di una testimonianza man mano che ci si allontani dagli eventi relati.
Vedi su questo, ad esempio, Demostene nel De corona, dove parla di accuse che si riferiscono a fatti non recenti:
νῦν δ' ἐκστὰς τῆς ὀρθῆς καὶ δικαίας ὁδοῦ καὶ φυγὼν τοὺς παρ' αὐτὰ τὰ πράγματ' ἐλέγχους, τοσούτοις ὕστερον χρόνοις αἰτίας καὶ σκώμματα καὶ λοιδορίας συμφορήσας ὑποκρίνεται (15)
ora invece, tenendosi fuori della retta via e avendo evitato le prove vicine ai fatti, costui recita dopo tanti anni un'accozzaglia di imputazioni e beffe e offese
o anche più specificamente:
καὶ μὴν ὅταν ᾖ νέα καὶ γνώριμα πᾶσι τὰ πράγματα, ἐάν τε καλῶς ἔχῃ, χάριτος τυγχάνει, ἐάν θ' ὡς ἑτέρως, τιμωρίας. (85)
e ovviamente, quando i fatti siano recenti e conosciuti a tutti, nel momento in cui vanno bene incontrano il favore, se vanno diversamente vengono puniti.
Insomma per quanto in Demostene siano ricordati entrambi gli aspetti di una testimonianza che abbia il sostegno della memoria (recenti e conosciuti), e per quanto il "conosciuti" di cui parla Demostene (γνώριμα) non sia altro che il notum accolto dagli editori delle Lettere, difficilmente Cicerone, che sicuramente conosceva il De corona parola per parola, se avesse dovuto scegliere, avrebbe scelto il secondo a scapito del primo (quel νέα cosi appetibile che gli dava la possibilità di richiamarlo quanto meno a se stesso - e a Attico), evitato un uso pregno di novum al solo scopo di produrre un appiattimento del testo: notum atque testatum - testatum è d'altronde lì a indicare che ciò che ha raccontato in qualità di testimone era già stato attestato, cioè provato, riconosciuto come vero, e quindi conosciuto, noto. Vedi l'uso di testatum in questo stesso senso in un'altra lettera a Attico:
Epistulam meam quod pervulgatam scribis esse non fero moleste, quin etiam ipse multis dedi describendam; ea enim et acciderunt iam et impendent ut testatum esse velim de pace quid senserim, (VIII, 9).
Varrebbe la pena di ricordare il peso avuto da umanisti del calibro di Manuzio nel determinare alcuni erronei procedimenti della critica testuale a partire già dai primi testi a stampa: la differenza che Manuzio poneva tra novum e recens: ciò che caratterizza il novum è l'assoluta novità, ciò che non ha precedenti. Fatto non sempre vero, si veda ad esempio proprio in Cicerone, nelle Tuscolane:
cur tantum interest inter novum et veterem exercitum, quantum experti sumus?
dove novum non indica altro che la qualità di un esercito: un esercito fatto di giovani in opposizione a uomini già provati, veterani. Il ripetersi di un fatto, la possibilità che possa ripresentarsi in ogni tempo un esercito di giovani, esclude il carattere di assoluta novità, di inaudito, e il senso è invece prossimo a quello che si ha per esempio in agricoltura, in culinaria, vedi anche l'italiano fresco (pesce fresco, appena pescato) - vinum novum (Varrone), novuum et venire qui videt culum olfacit (Fedro - i cani che annusano il culo a ogni nuovo cane che arriva, sperando che sia uno dei loro ambasciatori inviati a Giove, ai quali avevano, in segno di ripetto per la divinità, improfumato il culo).
Lo stesso discorso andrebbe fatto e ripetuto, nonostante la concordanza dei manoscritti (che però risalgono tutti a uno stesso codice), per un passo delle Verrine:
Postremo ego causam sic agam, iudices, eius modi res, "ita notas, ita testatas", ita magnas, ita manifestas proferam, ut nemo a vobis ut istum absolvatis per gratiam conetur contendere (actio 1, 48)
dove l'amplificazione costruita su due coppie di termini paralleli richiede la sostituzione di notas con novas. Non così conosciute, così risapute ma così singolari e così risapute.
La lectio difficilior (novas) è conservata in un'edizione delle opere di Cicerone del 1776, a cura e con una sua traduzione in castigliano, di Manuel Antonio Merino, che si firmava Andrés Merino de Jesucristo, erudito scolopio e conoscitore di lingue orientali. Il quale tuttavia non dice, nella breve introduzione, dove abbia preso il testo latino.
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mercoledì 4 maggio 2016
venerdì 17 ottobre 2014
Tortura, investigazione, ricerca della verità
Non c'è dubbio che la mente greca si rivela (rispetto a quella latina) speculativa perfino nelle questioni più pratiche, in quelle più estreme, nelle questioni di vita o di morte. Così avviene senz'altro a proposito della tortura: basanos, basanizesthai (torturare, ma in origine confrontare - basanos è la cosiddetta pietra lidia, la pietra con cui si testa la purezza dell'oro; e l'origine è comunque ancora semitica: l'egiziano conserva bahan, una specie di scisto usato in questo stesso senso [vedi Chantraine s.v. e vedi basalto in italiano] e anche in ebraico bahan, confermare. Il latino ha semplicemente (già in epoca classica) crucio, inizialmente mettere sulla croce, che varrà poi in seguito quale termine tecnico per tortura.
Dunque originariamente l'uomo latino è affascinato dallo strumento in sé, dall'idea di morte, e lo è già prima di avere appreso la "verità" processuale: quindi dal quadro d'insieme, dall'effetto, dallo spettacolo: si pone direttamente come spettatore, alla maniera di quanto avviene oggi in America, un paese psicologicamente rimpicciolito dagli ultimi sviluppi del caso ebola, dove il pubblico ammesso alle esecuzioni capitali assiste incuriosito al dramma dei medici che iniettano merda farmaceutica nelle braccia di un loro simile, anche se solo dopo aver appreso la "verita": un pubblico ovviamente non visto da chi è nella stanza degli orrori, protetto (per ragioni di privacy - non si sa di chi) dalla classica finestra usata anche negli interrogatori di polizia, seduto in una serie di file come se si fosse al cinema (in questo senso, la Cina - la sedicente comunista Cina - si mostra invece giustamente oscurantista e bigotta: censura ogni divertimento, fa direttamente sparire i condannati a morte, nessuno sa come dove è quando verranno giustiziati: nemmeno i familiari sanno niente, e nemmeno il condannato a morte). A differenza quindi - in un caso come nell'altro - del greco, che vuole ancora e sempre e fino alla fine semplicemente sapere, sentir parlare, conoscere, mettere alla prova, investigare (e pur sapendo che come il suo cugino latino anche lui può torturare soltanto gli schiavi, i quali poi saranno pronti a giurare il falso pur di evitare la corda o qualche altro aggeggio, con buona pace del vero): l'uomo greco insomma, nonostante le ingenuità metodologiche connesse con ogni tipo di tortura, è attante, è soggetto conoscitivo attivo anche quando delega al torturatore (basanistes - lo stesso che inquirente) che agisce per suo conto nella camera della "prova" (basanisterion) coi suoi strumenti della "conoscenza" (basanisteria).
Basanizesthai è d'altra parte ampiamente usato in senso scientifico:
διόπερ εὐλόγως βασανίζεται ταῖς πείραις τό γε τῶν ἀνδρῶν, εἰ ἄγονον, ἐν τῷ ὕδατι (Arist., De generatione animalium, 747a)
perciò giustamente viene "testato" quello maschile (lo sperma) nell'acqua, per vedere se è sterile.
E in logica:
ἀπὸ τῶν πανταχόθεν βεβασανισμένων (Philodemus, De signis, 29).
da ciò che è stato provato in ogni maniera (inferenza).
L'uso figurato di basanizesthai nella critica e nella stilistica: contorto (da torcere), rappresenta invece un totale capovolgimento di prospettiva: dove c'è tortura non può esserci né verità né persuasione: vedi ad esempio quanto detto dei primi discorsi del giovane Demostene, agli inizi della sua carriera, quando l'assemblea del popolo ancora rideva a crepapelle di una sua certa goffaggine nell'espressione:
τοῦ λόγου συγκεχύσθαι ταῖς περιόδοις καὶ βεβασανίσθαι τοῖς ἐνθυμήμασι πικρῶς ἄγαν καὶ κατακόρως δοκοῦντος (Plu., Dem., 6)
sembrando il suo periodare confuso, troppo fastidiosamente contorto (torturato) ed eccessivo per l'uso di formalismi argomentativi.
Che è poi il difetto di tutti i principianti.
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venerdì 26 settembre 2014
Demostene ovvero il comico inconsapevole
Il comico inconsapevole nasce sempre dal rapido contrastarsi di due diverse nature in una stessa persona, o di due diverse situazioni quando una prende improvvisamente il posto dell'altra - differente da umorismo e dalla comicità di chi vuol far ridere, il quale comunque è sempre debitore, imitatore del comico inconsapevole, obbligato al contrasto, se non al contratto.
Così Demostene, che si leggano le sue orazioni e discorsi tra le righe, o si legga quello che altri hanno scritto di lui, appare sempre e comunque un comico inconsapevole. La sua inconsapevole comicità (a parte i sassolini che infilava sotto la lingua per correggere i difetti di pronuncia e altre varie amenità - il rafforzare la voce e i polmoni pronunciando un discorso o conversando mentre correva, costringendo quindi anche il povero interlocutore a correre), lo studiolo che s'era fatto costruire sotto terra per potersi esercitare più tranquillamente, il radersi i capelli per costringersi a non uscire di casa per mesi - la testa rasata era segno di effeminatezza), la sua inconsapevole comicità nasce però più propriamente dal contrasto o conflitto di due nature: da una parte il coraggio della parola, che non aveva eguali (non avrebbe temuto, in questo senso, nemmeno Giove ottimo massimo), dall'altra la facilità con cui al più piccolo pericolo fisico se la faceva addosso. Cosa che aveva in comune con Cicerone, e forse con Cicerone aveva in comune quasi tutto, salvo il significato che ciascuno dava al denaro, più concreto in Cicerone (i soldi per Cicerone avevano il valore che avevano: servivano semplicemente a ottenere oggetti piacevoli: bei mobili, libri, opere d'arte - natura più generosa, a differenza di quanto si dice di Demostene, del suo essere avido).
Non è quindi un caso che dopo essersi ringalluzztio alla morte di Filippo, dopo aver tuonato e essere stato unico, per così dire, e incontrastato attore sulla tribuna del'assemblea del popolo, dopo essere riuscito a rinfocolare gli animi di tutta l'Ellade contro Alessandro, che chiamava sprezzantemente il "ragazzino", dopo aver ottenuto i soldi da Dario per finanziare i tebani contro la macchina bellica macedone, si affloscia in un attimo non appena giungono le prime avvisaglie che Alessandro sta marciando verso Tebe:
ἐπεὶ μέντοι τὰ περὶ τὴν χώραν θέμενος, παρῆν αὐτὸς μετὰ τῆς δυνάμεως εἰς τὴν Βοιωτίαν, ἐξεκέκοπτο μὲν ἡ θρασύτης τῶν Ἀθηναίων, καὶ ὁ Δημοσθένης ἀπεσβήκει, Θηβαῖοι δὲ προδοθέντες ὑπ' ἐκείνων ἠγωνίσαντο καθ' αὑτοὺς καὶ τὴν πόλιν ἀπέβαλον. (Plut., Dem., 23,2)
Dopo aver sistemato gli affari domestici, (Alessandro) apparve con le sue forze in marcia per la Beozia, e l'ardore degli ateniesi s'era già spezzato, e Demostene s'era afflosciato (spento): i tebani, traditi così dagli ateniesi, combatterono contro i macedoni e persero la città.
E giustamente Plutarco usa qui il piuccheperfetto, l'ardore degli ateniesi s'era spezzato, e Demostene s'era afflosciato: non c'era stato nemmeno bisogno di trovarselo davanti, Alessandro, di vederlo: era bastata la notizia che s'era mosso.
Così Demostene, che si leggano le sue orazioni e discorsi tra le righe, o si legga quello che altri hanno scritto di lui, appare sempre e comunque un comico inconsapevole. La sua inconsapevole comicità (a parte i sassolini che infilava sotto la lingua per correggere i difetti di pronuncia e altre varie amenità - il rafforzare la voce e i polmoni pronunciando un discorso o conversando mentre correva, costringendo quindi anche il povero interlocutore a correre), lo studiolo che s'era fatto costruire sotto terra per potersi esercitare più tranquillamente, il radersi i capelli per costringersi a non uscire di casa per mesi - la testa rasata era segno di effeminatezza), la sua inconsapevole comicità nasce però più propriamente dal contrasto o conflitto di due nature: da una parte il coraggio della parola, che non aveva eguali (non avrebbe temuto, in questo senso, nemmeno Giove ottimo massimo), dall'altra la facilità con cui al più piccolo pericolo fisico se la faceva addosso. Cosa che aveva in comune con Cicerone, e forse con Cicerone aveva in comune quasi tutto, salvo il significato che ciascuno dava al denaro, più concreto in Cicerone (i soldi per Cicerone avevano il valore che avevano: servivano semplicemente a ottenere oggetti piacevoli: bei mobili, libri, opere d'arte - natura più generosa, a differenza di quanto si dice di Demostene, del suo essere avido).
Non è quindi un caso che dopo essersi ringalluzztio alla morte di Filippo, dopo aver tuonato e essere stato unico, per così dire, e incontrastato attore sulla tribuna del'assemblea del popolo, dopo essere riuscito a rinfocolare gli animi di tutta l'Ellade contro Alessandro, che chiamava sprezzantemente il "ragazzino", dopo aver ottenuto i soldi da Dario per finanziare i tebani contro la macchina bellica macedone, si affloscia in un attimo non appena giungono le prime avvisaglie che Alessandro sta marciando verso Tebe:
ἐπεὶ μέντοι τὰ περὶ τὴν χώραν θέμενος, παρῆν αὐτὸς μετὰ τῆς δυνάμεως εἰς τὴν Βοιωτίαν, ἐξεκέκοπτο μὲν ἡ θρασύτης τῶν Ἀθηναίων, καὶ ὁ Δημοσθένης ἀπεσβήκει, Θηβαῖοι δὲ προδοθέντες ὑπ' ἐκείνων ἠγωνίσαντο καθ' αὑτοὺς καὶ τὴν πόλιν ἀπέβαλον. (Plut., Dem., 23,2)
Dopo aver sistemato gli affari domestici, (Alessandro) apparve con le sue forze in marcia per la Beozia, e l'ardore degli ateniesi s'era già spezzato, e Demostene s'era afflosciato (spento): i tebani, traditi così dagli ateniesi, combatterono contro i macedoni e persero la città.
E giustamente Plutarco usa qui il piuccheperfetto, l'ardore degli ateniesi s'era spezzato, e Demostene s'era afflosciato: non c'era stato nemmeno bisogno di trovarselo davanti, Alessandro, di vederlo: era bastata la notizia che s'era mosso.
martedì 23 settembre 2014
l'elefante e la morte
Una prova dell'evoluzionismo è nella nozione di persistenza. Che l'uomo discenda dall'elefante, o che sia stato in un lontano passato un elefante, è provato dal fatto che come l'elefante sentendo la morte appressarsi va a nascondersi, anche l'uomo quando sta per morire vieni rinchiuso in un hospice, con buona grazia delle multinazionali dei farmaci palliativi.
Persistenza cioè del pudore più che del dolore. Così per esempio Demostene, subito dopo aver preso il veleno:
ed abbassò la testa dopo essersela coperta
(συγκαλυψάμενος ἀπέκλινε τὴν κεφαλήν - Plut., Dem. xxix, 4).
Lo stesso nel caso di Cesare:
si tirò la veste sulla testa e si accasciò
Persistenza cioè del pudore più che del dolore. Così per esempio Demostene, subito dopo aver preso il veleno:
ed abbassò la testa dopo essersela coperta
(συγκαλυψάμενος ἀπέκλινε τὴν κεφαλήν - Plut., Dem. xxix, 4).
Lo stesso nel caso di Cesare:
si tirò la veste sulla testa e si accasciò
ἐφειλκύσατο κατὰ τῆς κεφαλῆς τὸ ἱμάτιον καὶ παρῆκεν ἑαυτόν (Plut., Caes. lxi, 12).
In fondo non è altro che il sipario che viene finalmente tirato al termine di tutto perfino da quel bigotto di Ottaviano Augusto:
acta est fabula, plaudite! la commedia è finita, applaudite!
venerdì 12 settembre 2014
L'amicizia
Io do per certo che nell'amicizia vale quanto dice Demostene nella prima Olintiaca a proposito delle imprudenze commesse nell'azione politica (considerazione delle circostanze attuali), che a sua volta paragona alle imprudenze di chi accumula sostanze per poi perdere tutto:
ἀλλ', οἶμαι, παρόμοιόν ἐστιν ὅπερ καὶ περὶ τῆς τῶν χρημάτων κτήσεως· ἂν μὲν γάρ, ὅσ' ἄν τις λάβῃ, καὶ σῴσῃ, μεγάλην ἔχει τῇ τύχῃ τὴν χάριν, ἂν δ' ἀναλώσας λάθῃ, συνανήλωσε καὶ τὸ μεμνῆσθαι [τὴν χάριν]. καὶ περὶ τῶν πραγμάτων οὕτως οἱ μὴ χρησάμενοι τοῖς καιροῖς ὀρθῶς οὐδ' εἰ συνέβη τι παρὰ τῶν θεῶν χρηστὸν μνημονεύουσι (I, 11)
ma io credo che simile sia anche ciò che riguarda l'acquisto di denaro: se uno, quanto acquista, riesce pure a conservarlo, non potrà che ringraziare e ringraziare la fortuna, se invece senza accorgersene perde tutto, perde anche la capacità di ricordarsi. Così anche negli affari politici: coloro che non hanno saputo utilizzare rettamente le circostanze presenti non si ricordano nemmeno se qualcosa di utile gli era venuto dagli dei.
ἀλλ', οἶμαι, παρόμοιόν ἐστιν ὅπερ καὶ περὶ τῆς τῶν χρημάτων κτήσεως· ἂν μὲν γάρ, ὅσ' ἄν τις λάβῃ, καὶ σῴσῃ, μεγάλην ἔχει τῇ τύχῃ τὴν χάριν, ἂν δ' ἀναλώσας λάθῃ, συνανήλωσε καὶ τὸ μεμνῆσθαι [τὴν χάριν]. καὶ περὶ τῶν πραγμάτων οὕτως οἱ μὴ χρησάμενοι τοῖς καιροῖς ὀρθῶς οὐδ' εἰ συνέβη τι παρὰ τῶν θεῶν χρηστὸν μνημονεύουσι (I, 11)
ma io credo che simile sia anche ciò che riguarda l'acquisto di denaro: se uno, quanto acquista, riesce pure a conservarlo, non potrà che ringraziare e ringraziare la fortuna, se invece senza accorgersene perde tutto, perde anche la capacità di ricordarsi. Così anche negli affari politici: coloro che non hanno saputo utilizzare rettamente le circostanze presenti non si ricordano nemmeno se qualcosa di utile gli era venuto dagli dei.
sabato 2 agosto 2014
Nota su Demostene guerriero
Quasi all’inizio dell’orazione sulla falsa ambasceria Eschine
mena contro Demostene un ben fiacco fendente:
non è la stessa cosa infatti per me perdere la vostra benevolenza o per costui la causa non vincere:
Ἐφοβήθην μὲν γάρ, καὶ ἔτι καὶ νῦν τεθορύβημαι μή τινες ὑμῶν ἀγνοήσωσί
με ψυχαγωγηθέντες τοῖς ἐπιβεβουλευμένοις καὶ κακοήθεσι τούτοις ἀντιθέτοις·
che dovrebbe suonare - a non voler tradurre
troppo letteralmente:
… Avevo
allora paura - e anche adesso non sono affatto tranquillo - che alcuni
di voi finissero per riversare su di me un giudizio sfavorevole
solo perché affascinati da quelle sue malvagie, perverse a n t i t e s i.
Nessuno tra gli ateniesi della metà del quarto secolo –
attenti ormai alle minime sfumature stilistiche - avrebbe trovato la battuta di Eschine felice, a meno che non fosse un più generale rimando alla bravura tecnica dell'avversario. La ragione è che per quanti sforzi si
facciano, l'uso dell'antitesi in Demostene è rarissimo, e anche quando se ne trova una, in un modo o nell’altro, provocatoriamente, diabolicamente, Demostene
ne rompe il perfetto ed effeminato meccanismo, e lo fa inaspettatamente, e data la
libertà di cui gode la sintassi greca, imprevedibilmente riguardo ai risultati. Che è quanto succede all'inizio dell’orazione
sulla corona:, dove un po' come in un gioco tra bambini, Demostene, anche lui bambino, entra improvvisamente e distrugge tutto):
οὐ γάρ ἐστιν ἴσον νῦν ἐμοὶ τῆς παρ᾽ ὑμῶν εὐνοίας διαμαρτεῖν καὶ τούτῳ μὴ ἑλεῖν τὴν γραφήν:
non è la stessa cosa infatti per me perdere la vostra benevolenza o per costui la causa non vincere:
e ci si sarebbe aspettati “non vincere la causa”, un più pacifico, almeno momentaneo, adeguarsi: un entrare quasi in sordina, un segno di genuina modestia, visto che dopotutto il vero imputato non è Ctesifonte ma lui stesso.
D’altronde il frammento di Timocle, che fa definire Demostene da uno dei suoi
personaggi non solo una sorta di Briareo dalle cinquanta teste e cento braccia, che ingoiava di tutto, perfino catapulte e lance, ma anche uno
che:
odia la letteratura e non ha mai pronunciato un’antitesi, e pare Marte in guerra:
μισῶν λόγους ἄνθρωπος, οὐδὲ πώποτε
ἀντίθετον εἰπὼν οὐδέν, ἀλλ' Ἄρη βλέπων (fr.12).
non lascia dubbi. Difficile pensare, senza rendere incomprensibile tutto il resto, che ci sia ironia, che si volesse intendere che Demeostene non faceva altro che servirsi di antitesi (che a noi sarebbero però sconosciute), quasi il personaggio di Timocle strizzasse l'occhio al pubblico; in effetti Plutarco (Dem., 9), quando riferisce dell'abituidine di Demostene di parlare per antitesi, cita soltanto i versi di Antifane, anche qui un dialogo:
Riguardo al mio padrone, tutto ciò che veniva dal padre
come p r e s e, r i p r e s e ! - Beh, sarebbe piaciuta
a Demostene questa frase!
che più che rimandare a un supposto abuso di antitesi non è che un preciso riferimento politico (Plutarco stesso ci va cauto), all'orazione in difesa di Alonneso, nella quale Demostene invitava gli ateniesi non tanto prendersi ma a riprendersi l'isola.
non lascia dubbi. Difficile pensare, senza rendere incomprensibile tutto il resto, che ci sia ironia, che si volesse intendere che Demeostene non faceva altro che servirsi di antitesi (che a noi sarebbero però sconosciute), quasi il personaggio di Timocle strizzasse l'occhio al pubblico; in effetti Plutarco (Dem., 9), quando riferisce dell'abituidine di Demostene di parlare per antitesi, cita soltanto i versi di Antifane, anche qui un dialogo:
Riguardo al mio padrone, tutto ciò che veniva dal padre
come p r e s e, r i p r e s e ! - Beh, sarebbe piaciuta
a Demostene questa frase!
(ὁ δεσπότης δὲ πάντα τὰ παρὰ τοῦ πατρὸς
ἀπέλαβεν ὥσπερ ἔλαβεν. - ἠγάπησεν ἂν
τὸ ῥῆμα τοῦτο παραλαβὼν Δημοσθένης. [fr. 169]) che più che rimandare a un supposto abuso di antitesi non è che un preciso riferimento politico (Plutarco stesso ci va cauto), all'orazione in difesa di Alonneso, nella quale Demostene invitava gli ateniesi non tanto prendersi ma a riprendersi l'isola.
Vedi più diffusamente, sulla questione antitesi
nella prosa greca di quegli anni, Denniston, altro dei grandi grecisti
che dovette subire le angherie e vigliaccate del mondo accademico. Il
quale Denniston però pone la questione del giudizio di Eschine su un piano
relativistico, cioè di punti di vista, piuttosto che sul fatto che si
tratti di un'argomentazione debole.
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domenica 14 aprile 2013
Quando l’insulto era una tecnica
Ho citato in un precedente post (gay se fa comodo) Eschine e Demostene, che si fronteggiarono nel più famoso
processo politico dell’antichità - il più famoso perché uno dei due oratori era
Demostene. E ci sono rimaste, grazie al cielo, le due arringhe tenute in quell’occasione:
quella di Eschine, che parlò per primo, e quella di Demostene, che si alzò e
salì in tribuna a parlare subito dopo. Eschine cosparse il suo particolareggiato intervento politico di offese e parolacce. Demostene inizia a parlare tranquillamente, difendendo
la sua politica estera: il tono pare sommesso anche
se energico, icastico, come è tipico di Demostene, della sua lingua, del suo greco, dei suoi interventi fin dall'inizio:
ma poi improvvisamente, a un terzo del discorso, inizia a infilare qui e là qualche parolina: comincia a chiamare (e ancora come se pensasse ad altro) comincia a chiamare Eschine “questo
sicofante”, poi ancora dopo un certo intervallo “questo miserabile” ... nemmeno te ne accorgi, sembra quasi che non se lo stia “cagando”, che non lo stia "pisciando": ha parlato finora della
sua politica vera, senza quasi mai menzionare l'avversario. Che però di sicuro temeva questo momento: il momento in cui Demostene gli fa capire che sta per puntare impietosamente su di lui i suoi riflettori, cioè la sua lingua. Non ti accorgi di quelle paroline (sicofante,
miserabile) eppure te ne accorgi: lasciano già il segno, perché appaiono dal
niente in quella sorta di mare calmo che il suo intervento era apparso fino a quel momento. Poi
di nuovo, improvvisamente, dopo essersi rivolto ai giudici, dopo aver detto che non è sua abitudine ricorrere
all’offesa nonostante ne sia stato il bersaglio, dice ancora qualcosa sottovoce, che sarà solo l’inizio di uno spaventoso
crescendo di una tempesta verbale senza eguali, di cui alle migliaia di persone che
non erano riuscite a entrare in tribunale e erano assiepate all’esterno dovette arrivare l'eco. “Ma tu”, dice Demostene, il tono ancora pacato, “scarto umano, e la tua famiglia, cosa c’entrate con la virtù? Con quale diritto parli di cultura? dove e come hai meritato tale diritto? (traduco
un po’ a mente sul ricordo che ho di questa orazione che ho letto spesso). Pur
non avendo (si noti il tono relativamente tranquillo se confrontato col ritmo della "rabbiosa" offensiva personale che seguirà)
nessuna difficoltà a trovare argomenti, mi sento in imbarazzo su cosa ricordare per primo. Il fatto forse che tuo
padre, il signor Cagonis, con il giogo al collo e i ceppi ai piedi fosse
schiavo nella casa di Elpia, quello che insegnava l'alfabeto? O che tua madre mentre
in pieno giorno la dava in una sudicissima stamberga e nella stessa stanza allevava te, bambolotto e attore di terz’ordine?” Queste cose non potevano non andare a segno se il
padre di Eschine -che non era uno schiavo ma s'era comunque impoverito - s’era effettivamente a insegnare, e anche se
la madre, che non era una prostituta ma veniva da una famiglia di sacerdoti, era la moglie del padre di Eschine. Questo
è ancora, come ho detto, soltanto l’inizio. Il seguito vedrà un
Demostene ormai scatenato annientare con argomenti politici completamente il suo povero avversario.
Mi viene in mente una poesia di Monti, La prosopopea di Pericle. A un certo punto, il
busto di Pericle dice, in mezzo agli altri pezzi archeologici di Villa Adriana:
... là sollevarsi d’Eschine
La testa ardita e
balda
Che col rival
Demostene
Alla tenzon si scalda
…
Ed è ovvio che accennando appena al rivale, dando l'impressione di voler dare più
importanza a Eschine, Monti finisca per ottenere l'effetto contrario: puntare i riflettori su Demostene: "una belva", come Eschine stesso, secondo un certo racconto, l'avrebbe definito dopo la sconfitta. Una belva sempre in agguato.
venerdì 12 aprile 2013
gay se fa comodo
Una cosa è essere gay una cosa è parlare di omoerotismo. Non avrebbe comunque molto senso (sarebbe nel migliore dei casi un atto di autopersuasione e nel peggiore dei casi un tentativo di bassa manipolazione ideologica) il voler applicare al passato, secondo il solito procedimento dell'ante litteram, la ormai più che abusata e noiosa etichetta gay, che si torni indietro di cinquanta o duemila e cinquecento anni (se un termine è applicato ante litteram vuol dire che quel termine non esisteva e se non esisteva la parola non esisteva nemmeno il concetto). Un gay è per definizione chiunque si senta in qualche modo "liberato": è una persona che sbandiera politicamente questa sua avvenuta "liberazione" - grazie ad anni di lotte e battaglie tra l'altro non sue - e lo fa a differenza di chi non vuole sbandierare un bel niente per tutta una serie di ragioni che non sta né ai gay né ai vari movimenti lgbt giudicare (tra l'altro con teorie psicologiche e psicanalitiche di dubbio valore). Alessandro Magno era gay? (era sessualmente liberato?) La domanda è semplicemente ridicola, improponibile, per la semplice ragione che non avrebbe avuto nessuna logica, nessun senso, per gli interessati. Greci Macedoni o Romani ragionavano tanticchia diversamente. Bisognava che agli occhi del mondo venissero rispettati (questo sì) certi elementari codici sociali. Se socialmente eri anche di un solo gradino al di sopra del tuo partner e lasciavi intendere ai vicini che ti piaceva riceverlo invece che darlo allora perdevi anche quel po' di considerazione che credevi di avere; e inoltre dovevi guardarti dal non tradire il genere all'interno del quale la natura ti
aveva messo (storia e natura si equivalevano). Se nascevi uomo e ti truccavi e ti
vestivi da donna o ti depilavi o agitavi un po' troppo i lombi o gesticolavi più del necessario, scattava impietosa la beffa o il sarcasmo: termini coloritissimi che esistevano allora come ai giorni nostri (ciò che mancava era l'omofobia, le pratiche criminali connese con l'inseguimento (la persecución, in spagnolo) con l'individuazione del nemico sulla base della mondezza ideologica che all'inseguitore è stata colata nel cervello); e di questi termini offensivi se ne reperivano a iosa.
Eschine sbeffeggiò, nel famoso processo per la corona, il suo antagonista di sempre, il gigante Demostene, per quella sua certa “mantellina bianca” con cui si era presentato in tribunale. Lo chiamò in tutti modi possibili e immaginabili. Quando toccò poi a Demostene a prendere la parola (si dice
che la sua parola riusciva a produrre in un fascinoso crescendo l’equivalente linguistico di una paurosa tempesta) lo distrusse. Eschine fu costretto
a andarsene in esilio a Rodi. E pare che dopo aver letto ai suoi studenti l’orazione
pronunciata contro Demostene, e meravigliandosi un po' tutti che con quel
capolavoro non l'avesse battuto, Eschine abbia detto: “perché nessuno di voi ha mai sentito quella belva parlare!”
Fidia, Dioniso - Partenone
Ciò che non esisteva nell’antichità era appunto l’omofobia, e anche le battute di Eschine erano un puro strumento retorico: sconfiggere l’avversario mediante una tecnica di scuola. Bisognerà allora forse interrogarsi sul perché l'omofobia oggi o nei secoli passati e non duemila e cinquecento anni fa. Tutto qui.
Aggiungiamo che sono argomentazioni prive di ogni fondamento storico e filologico quelle svolte da tante persone cosiddette colte (anche da qualche professore universitario) infatuati del mondo antico e greco in particolare: che cioè anche prima che la morale cristiana si consolidasse una relazione sessuale tra due uomini, al di fuori del rapporto educativo ragazzo/uomo maturo, era eticamente condannabile. Il sesso, in tutte le sue forme, in tutte le salse e a tutte le età, si faceva nella Grecia più arcaica come a Roma diversi secoli dopo e anche fin dentro i primi secoli dell'era cristiana, e più di quanto non si faccia oggi. Di questo, del fatto che nonostante accelerazioni in senso più moralistico nella Roma imperiale, il sesso continuasse a cuocere all'interno di un calderone dove c'era di tutto, è un pallido riflesso un trattato greco sull’interpretazione dei sogni, attribuito a Artemidoro e scritto più di 400 anni dopo la morte di Alessandro. Ma si può facilmente dimostrare che ai tempi di Artemidoro le interpretazioni di certi sogni erotici che oggi farebbero arrossire poggiava su premesse morali (non moralistiche) non dissimili da quelle dei tempi di Alessandro.
Fidia, Dioniso - Partenone
Ciò che non esisteva nell’antichità era appunto l’omofobia, e anche le battute di Eschine erano un puro strumento retorico: sconfiggere l’avversario mediante una tecnica di scuola. Bisognerà allora forse interrogarsi sul perché l'omofobia oggi o nei secoli passati e non duemila e cinquecento anni fa. Tutto qui.
Aggiungiamo che sono argomentazioni prive di ogni fondamento storico e filologico quelle svolte da tante persone cosiddette colte (anche da qualche professore universitario) infatuati del mondo antico e greco in particolare: che cioè anche prima che la morale cristiana si consolidasse una relazione sessuale tra due uomini, al di fuori del rapporto educativo ragazzo/uomo maturo, era eticamente condannabile. Il sesso, in tutte le sue forme, in tutte le salse e a tutte le età, si faceva nella Grecia più arcaica come a Roma diversi secoli dopo e anche fin dentro i primi secoli dell'era cristiana, e più di quanto non si faccia oggi. Di questo, del fatto che nonostante accelerazioni in senso più moralistico nella Roma imperiale, il sesso continuasse a cuocere all'interno di un calderone dove c'era di tutto, è un pallido riflesso un trattato greco sull’interpretazione dei sogni, attribuito a Artemidoro e scritto più di 400 anni dopo la morte di Alessandro. Ma si può facilmente dimostrare che ai tempi di Artemidoro le interpretazioni di certi sogni erotici che oggi farebbero arrossire poggiava su premesse morali (non moralistiche) non dissimili da quelle dei tempi di Alessandro.
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