domenica 14 aprile 2013

Quando l’insulto era una tecnica




Ho citato in un precedente post (gay se fa comodo) Eschine e Demostene, che si fronteggiarono nel più famoso processo politico dell’antichità - il più famoso perché uno dei due oratori era Demostene. E ci sono rimaste, grazie al cielo, le due arringhe tenute in quell’occasione: quella di Eschine, che parlò per primo, e quella di Demostene, che si alzò e salì in tribuna a parlare subito dopo. Eschine cosparse il suo particolareggiato intervento politico di offese e parolacce. Demostene inizia a parlare tranquillamente, difendendo la sua politica estera: il tono pare sommesso anche se energico, icastico, come è tipico di Demostene, della sua lingua, del suo greco, dei suoi interventi fin dall'inizio: ma poi improvvisamente, a un terzo del discorso, inizia a infilare qui e là qualche parolina: comincia a chiamare (e ancora come se pensasse ad altro) comincia a chiamare Eschine “questo sicofante”, poi ancora dopo un certo intervallo “questo miserabile” ... nemmeno te ne accorgi, sembra quasi che non se lo stia “cagando”, che non lo stia "pisciando": ha parlato finora della sua politica vera, senza quasi mai menzionare l'avversario. Che però di sicuro temeva questo momento: il momento in cui Demostene gli fa capire che sta per puntare impietosamente su di lui i suoi riflettori, cioè la sua lingua. Non ti accorgi di quelle paroline (sicofante, miserabile) eppure te ne accorgi: lasciano già il segno, perché appaiono dal niente in quella sorta di mare calmo che il suo intervento era apparso fino a quel momento. Poi di nuovo, improvvisamente, dopo essersi rivolto ai giudici, dopo aver detto che non è sua abitudine ricorrere all’offesa nonostante ne sia stato il bersaglio, dice ancora qualcosa sottovoce, che sarà solo l’inizio di uno spaventoso crescendo di una tempesta verbale senza eguali, di cui alle migliaia di persone che non erano riuscite a entrare in tribunale e erano assiepate all’esterno dovette arrivare l'eco. “Ma tu”, dice Demostene, il tono ancora pacato, “scarto umano, e la tua famiglia, cosa c’entrate con la virtù? Con  quale diritto parli di cultura? dove e come hai meritato tale diritto? (traduco un po’ a mente sul ricordo che ho di questa orazione che ho letto spesso). Pur non avendo (si noti il tono relativamente tranquillo se confrontato col ritmo della "rabbiosa" offensiva personale che seguirà) nessuna difficoltà a trovare argomenti, mi sento in imbarazzo su cosa ricordare per primo. Il fatto forse che tuo padre, il signor Cagonis, con il giogo al collo e i ceppi ai piedi fosse schiavo nella casa di Elpia, quello che insegnava l'alfabeto? O che tua madre mentre in pieno giorno la dava in una sudicissima stamberga e nella stessa stanza allevava te, bambolotto e attore di terz’ordine?” Queste cose non potevano non andare a segno se il padre di Eschine -che non era uno schiavo ma s'era comunque impoverito - s’era effettivamente a insegnare, e anche se la madre, che non era una prostituta ma veniva da una famiglia di sacerdoti, era la moglie del padre di Eschine. Questo è ancora, come ho detto, soltanto l’inizio. Il seguito vedrà un Demostene ormai scatenato annientare con argomenti politici completamente il suo povero avversario.

Mi viene in mente una poesia di Monti, La prosopopea di Pericle. A un certo punto, il busto di Pericle dice, in mezzo agli altri pezzi archeologici di Villa Adriana:

... là sollevarsi d’Eschine
La testa ardita e balda
Che col rival Demostene
Alla tenzon si scalda

Ed è ovvio che accennando appena al rivale, dando l'impressione di voler dare più importanza a Eschine, Monti finisca per ottenere l'effetto contrario: puntare i riflettori su Demostene: "una belva", come Eschine stesso, secondo un certo racconto, l'avrebbe definito dopo la sconfitta. Una belva sempre in agguato.     

Nessun commento:

Posta un commento