mercoledì 29 maggio 2013

L'ossimoro



Dice Plutarco, descrivendo l'aspetto di Alessandro il Grande, che le statue di Lisippo lo ritraevano con quelle stesse caratteristiche che a detta di chi l'aveva conosciuto saltavano immediatamente agli occhi: “la testa (il collo, dice Plutarco) leggermente inclinata a sinistra e poi la dolcezza degli occhi” (tin t‘anàtasin tu afchénos is evònimon isichì kekliménu kè tin higròtita ton ommàton – trascrivo il greco di Plutarco seguendo pronuncia del greco moderno, considerando priva di ogni fondamento epigrafico e filologico la pronuncia erasmiana, quella insegnata ancora oggi nelle scuole). Alessandro si presenterebbe quindi, ai noi lettori della Vite, come un ossimoro: una contraddizione in termini, un sorta clash delle sue parti costituenti: l’aspetto fisico e quello quello morale: dolcezza e abbandono da un lato, valentia militare dall'altro.


Non saprei dire se avevo in mente proprio Plutarco quando a un giudice della Procura di Venezia facevo descrivere per la prima volta Marco Noto, il poliziotto a capo della mobile di quella città nel mio Un valzer per Alfredo. In effetti, anche Marco Noto è personaggio eroico, e quando cammina piega leggermente la testa di lato, un po' come sua madre. Gli manca soltanto l'amabilità degli occhi, anche se un lettore ha definito l'insensibilità di questo personaggio soltanto apparente e sarebbe al contrario presente in un certo sguardo che porta sulle cose, sulle persone. Inoltre è strabico: uno strabismo divergente, cosa che tiene il posto di una non voluta ambiguità, e forse dolcezza. Per non parlare dei capelli, che a trentacinque anni ha bianchi e neri, sale e pepe. Ma basterebbero solo questi occhi che divergono a introdurre anche qui il concetto di ossimoro. 

Love is not love



Oggi avevo voglia di rileggere il Simposio di Platone, il dialogo sull'amore. Ho cominciato a guardare le prime pagine poi dovevo uscire per un appuntamento e siccome mi andava di continuare a leggere mi sono portato il libro dietro. Alla fermata dell'autobus c'erano due rumeni ridotti piuttosto male, due di quelli che la vita sembrano conoscerla bene, compreso un certo posticino. Uno di loro aveva una scritta tatuata sul braccio: love is not love

domenica 26 maggio 2013

Tsunami: quando gli uomini (non le donne) mostravano pudore. Natura contro scienza


                                               Arcimboldo - Verdura

Non c’è niente di più frustrante del pensiero di una scienza che ancora oggi non riesce non dico a impedire ma a prevedere uno tsunami. Eppure non sembra che ci sia al mondo un solo scienziato che non parli di sé come di un dio in terra. E all’ora com’è? Non sarà che tu scienziato ti prendi un po’ troppa confidenza, che ostenti una fiducia un po' eccessiva nelle tue capacità? Non sarà che quando ti poni per obbiettivo di far crescere delle orecchie di suino in una povera cavia "dimostri" di essere andato a scuola – da cattivo allievo, peraltro – da Giuseppe Arcimboldo invece che da Galileo?

                                      Tsunami e terremoto in Giappone

C'è un passo di un’opera di Plutarco, De virtutibus mulierum (sulla forza delle donne), nel quale si parla di una forma di matriarcato in vigore nell’antica Licia, un regime legale quasi unico in quei giorni, a cui accenna anche Erodoto. Alle origini di quello scompiglio sociale ci sarebbe stato proprio uno tsunami. Si tratta di una favoletta: ma forse più precisa e più accurata nel descrivere certi meccanismi archetipici dell'uomo (compreso l'uomo di scienza) e i reali rapporti di forza di quanto non siano in grado di fare molti dei noiosissimi e per lo più inutili paper accademici sfornati a migliaia ogni anno dalle varie istituzioni universitarie. Ma come avvenne che le donne in Licia presero il potere e conquistarono il diritto di passare il cognome (o l'equivalente del cognome a quei tempi) ai figli al posto dei mariti? Semplicemente usando il buon senso - e la conoscenza dell’umano e della natura. Dice Plutarco che Bellerofonte, avendo salvato i Lici e non avendo ottenuto nessuna ricompensa, essendo stato anzi alla fine pure ingiuriato, raggiunto il litorale invoca Poseidone, il dio del mare, lo supplica di rendere completamente sterile la Licia. Come Bellerofonte si allontana verso l’interno il mare comincia a sollevarsi, a riversarsi sull'intera regione: e più Belleronfonte si addentra nelle zone più civilizzate più il mare lo segue. I maschietti, credendo di saperla più lunga delle donne, tentano di placare il dio. Ma il mare avanza e ricopre tutto, seguendo passo passo il vedicativo Bellerofonte, fino a quando non intervengono più intelligentemente le donne, che decidono di affrontare l’eroe. Appena se lo trovano davanti sollevano le vesti (immagino mostrino le pudende, anche se Plutarco non lo dice), e solo a questo punto Bellerofonte pieno di virile pudore si ferma e comincia a indietreggiare, e con lui il mare.



Dai miti possono trarsi non pochi insegnamenti sul Creato: ad esempio il doversi aspettare che prima o poi la natura ti faccia una tale sonora pernacchia - e di una forza talmente spaventosa - che nemmeno una scorreggia collettiva di tutti gli scienziati del mondo messi insieme riuscirebbe a coprire. La domanda di rito, alla luce del mito dei Lici, è semplice: quale pudende, quale cose di cui vergognarsi gli scienziati saprebbero mostrare oggi? In epoca di incontrastato dominio scientifico muoiono di cancro più persone di quante non ne morivano in passato, nonostante da decenni si riempiano le tasche degli istituti di ricerca e vengano svuotate quelle dei contribuenti. L’inquinamento (non solo atmosferico), immediato esito delle tante applicazioni tecnologiche, la fa ovviamente da padrone, e questoin un epoca in cui centinaia di migliaia di euro vengono spesi annualmente per finanziare studi che farebbero gridare al ciarlatanismo non solo un Giovanni Capodivacca, l'antico redattore del Corriere della Sera, se solo potesse riscrivere la sua commedia Home Rebus (il chiromante), ma pure quel non scienziato da cui siamo partiti, Plutarco – e potrei anche citare uno studio in cui si vogliono mettere in relazione "omosessualità maschile e lunghezza del dito medio". Quello che è certo è che nessuna malattia veramente grave è stata debellata ai giorni nostri, tanto che gli ultimi grandi risultati sono stati in questo senso ottenuti ai tempi dei comiugi Curie, quando la scienza si faceva ancora col “calderone”, come diceva Lacan in un suo seminario, cioè “cum grano salis”, con un po’ di intelligenza. E allora, scienziato, se non sai impedire neppure uno tsunami come la mettiamo?

                                      Pietro Longhi - Il cavadenti

Anni fa uscì a Londra un libro di un certo Neville Hodgkinson, corrispondente scientifico del Sunday Times, Aids, the Failure of contemporary Science – il fallimento della scienza contemporanea – una sorta di sole nel panorama più oscurantistico che esista oggi, quello del mondo scientifico. Non so se Hodgkinson conservò il posto. Ma intanto nessuno ha mai veramente pagato per le centinaia di migliaia di persone crepate a causa del noto farmaco con cui si pensava di rallentare lo sviluppo della sindrome e che invece i produttori dovettero ritirare - distruggeva nientedimeno che il dna. Il più famoso retrovirologo del mondo, Peter Duesberg, caduto in disgrazia per aver detto qualcosa di sensato, negò qualsiasi verosimiglianza all’ipotesi del retrovirus hiv: un comportamento, quello attribuito dell'hiv, che non s’era mai visto in nessun retrovirus e che appariva come qualcosa di veramente stregonesco, anche più inverosimile del mito dei Lici.

“Ma io quest’uomo lo amooooo”, dice una canzone di una cantante neomelodica napoletana, Maria Nazionale: se anche noi scienziati sbagliamo, ci adoperiamo per lui, per l’essere umano.

                                                            cervello umano


Mi ricordo da piccolo, in campagna, mio cugino, che è stato ed è rimasto il mio più grande amico, una sera in cui si sentiva soltanto il verso dei grilli, mi dice: “quando il cervello dell’uomo si sarà sviluppato come quello di Dio allora ci sarà la fine del mondo”. E chissà dove l’aveva pescata, visto che avevamo tutti e due dieci anni. “Ma il cervello di Dio”, gli faccio, “è infinito: e come può il cervello dell’uomo diventare una cosa del genere?” Più tardi ho imparato che la matematica era già riuscita, col calcolo infinitesimale, a misurare l’infinito molti secoli prima delle mie conversazioni infantili con mio cugino, e che la fine del mondo non c’era stata. E allora com’è che se domini pure l’infinito, tu, scienziato, ancora non  riesci a impedire uno tsunami mentre ci sono riuscite diversi millenni fa delle semplici donne, alle quali è bastato agire sulla nozione di pudore? Perché tu certo saprai meglio di chiunque altro che cos'è il pudore …

venerdì 24 maggio 2013

Land diving, Pentecost Island e lo zapping


                                      Gabbiano al Vittoriano - foto di Lance 94

Quando un inglese della classe media vuole farti capire che è al limite della sopportazione fa un gesto che per lui è normale: alza velocemente gli occhi al cielo e in un attimo te li ripunta addosso. È un semplice movimento leggermente in diagonale rispetto al normale asse visivo, in cui però la testa resta immobile, ma se non sei inglese è inutile che provi a imitarlo. Una cosa simile la fanno anche gli italiani, che però invece di riportare subito gli occhi a terra, di tuffarsi di nuovo negli occhi dell’interlocutore, continuano a fissare in alto.



Land diving (tuffarsi verso terra) è non a caso un'espressione inglese. Indica non tanto uno sport estremo quanto un rituale religioso, propiziatorio: lo stesso che poi ha dato nascita al moderno bunjee jumping. Nell’isola di Pentecoste, nello Repubblica di Vanuatu (gruppo di isole chiamate ancora Nuove Ebridi quando ebbi la fortuna di vederle da piccolo), a quasi duemila chilometri dalla costa australiana nell'Oceano Pacifico, gli uomini ancora oggi si abbandonano a questo affascinante rito, che in lingua locale si chiama mi pare nagol, o forse ngol: dopo avere assicurato le caviglie a una liana e sotto lo sguardo di centinaia di turisti si lanciano in un certo periodo dell’anno da un'alta torre fatta di rami tutti intrecciati, le punte acuminate: una cosa impressionante per come la rivedo – o forse era solo lo sguardo di un bambino. Veniva un tempo in questo modo eletto il capo tribù: colui che riusciva a saltare dal punto più alto - e le torri raggiungevano anche i trenta metri. Ovviamente rischiavi di crepare, di rimanere infilzato.



Oggi il bunjee jumping è uno sport relativamente sicuro. Lo fanno un po’ dappertutto e forse non c'è nessuno che non l'abbia ancora visto. Vedendo il bunjee jumping versione moderna per la prima volta a Londra, un pomeriggio che camminavo verso Chelsea Bridge Road in direzione del ponte e dell'imponente struttura costruita per questo genere di tuffi legati a un cavo, mi rivenne da pensare all’isola di Pentecoste, e alle cose che da piccolo cercarono di farmi intendere di quel rito propiziatorio. E facendo un confronto, guardando questi uomini e donne completamente imbracati, pieni di ganci, moschettoni, cinture di sicurezza e confortati da premurosi istruttori, è difficile non rendersi conto di come l'umanità abbia fatto notevoli passi avanti, sperimentato uno sviluppo veramente galattico sul piano sociale e psico-evolutivo se si considera che si è passati dallo scegliere un capo tribù utilizzando arcaici criteri religioso-agonistici all'individuazione della semplice bravura in uno qualsiasi di questi sport estremi in cui si è circondati da tutto un corteggio di paramedici e ambulanze. Inoltre, se il capo tribù si trovava allora in un certo senso soffocato e rintronato per giorni dall'ammirazione collettiva della sua gente, il nostro campione la sera tornato casa si trova in compagnia delle rassicuranti pareti domestiche, dei suoi mobili più o meno di fabbrica, del pc e della televisone, oltre che del necessario cellulare: e se si tratta di una donna è immeditamante presa da tante altre cure e responsabilità (normalmente in cucina a preparare la cena), se invece è un uomo, la prima cosa che fa è spogliarsi e buttarsi sul divano, allungare le gambe sul tavolino in modo da poter subito iniziare a muovere le dita dei piedi e a scaricare la tensione accumulata nella competizione. Poi, col telecomando in mano (questa sorta di scettro), comincia a fare zapping, a passare da un canale all’altro fino a ritrovarsi magicamente a quello di partenza. Insomma il campione, pur dando l’impressione, a differenza della campionessa, di volersi fermare, non smette mai in realtà neppure lui di tenere occupati la mente e il corpo.


Tutto ovviamente dipende dai punti di vista, e quelli di una donna non coincideranno mai alla fine con quelli di un uomo, checché ne dicano i nemici della generalizzazione. Così una mia amica - che pure è una buona velista - mi dice che ogni volta che il marito torna a casa stanco da una partita di calcetto e si sdraia sul divano davanti alla televisione, lei immancabilmente, da un po' di anni a questa parte, non fa che ripetergli la stessa cosa: "te lo dico una volta per tutte: mi so' stufata di trovarmi tutte le sere questa salma davanti!"

mercoledì 22 maggio 2013

Strabismo: consigli per gli etero per i gay e per entrambi


                                      Bangor - photo by Velela
                                   
Un’estate di una decina d’anni fa mi trovavo in Galles con un amico italiano a cui piacciono parecchio gli uomini. L’avevo portato a Bangor, a vedere il piccolo Bishop’s Garden, “il giardino del vescovo”, creato da un religioso anglicano con l'idea di farne una sorta di Eden: mettere in quel fazzoletto di terra fuori della Cattedrale di Saint Deiniol tutte le piante nominate nella Bibbia. Quel giorno il giardino era in uno stato pietoso: le piante s’erano seccate per il gran caldo, c’era erba gialla dapertutto e le etichette coi nomi erano sparite. Insomma a tutto veniva da pensare meno che all'Eden. Mentre andiamo verso un pub vedo una coppia sulla trentina che viene nella nostra direzione, un uomo e una donna, che si tenevano teneramente allacciati. Lo sguardo mi va istintivamente all'espressione simpatica di lei, e siccome volevo continuare a guardarla senza provocare il compagno, ho continuato a farlo con la coda dell'occhio, finché a forza di storcere lo sguardo non mi ritrovo a guardare il mio amico, che invece fissava con gli occhi completamente strabuzzati il maschio. Una volta superata la coppia gli dico: “Vabbè, ti interessano gli uomini! non mi dire però che questa non ti piaceva …” “Ma sei fuori?”, fa lui. “E chi l’ha vista, lei?”



Dice Aldo Busi in uno dei suoi tanti libri - mi pare Il manuale del perfetto gentiluomo - che non sta bene che un uomo interessato a un altro uomo si metta a fissarlo senza ritegno quando vede che è in dolce compagnia: in dolce compagnia di una donna, si capisce. Se ricordo bene, ciò che suggerisce Busi è che se proprio non puoi farne a meno il modo migliore, il più educato, è guardare prima di tutto lei e solo allora far scivolare lo sguardo sull'uomo, e tenercelo comunque per pochissimo: comportamento che avrebbe un duplice obbiettivo: dare alla donna ciò che è dovuto e apprezzamento della giusta scelta fatta dal maschio. Il quale se poi rientra nella categoria dei curiosi una chance puoi sempre averla.

Quando ero piccolo (avevo forse sei o sette anni), mio nonno mi disse, dopo avermi visto spingere bruscamente di lato una ragazzina che voleva vedere certe mie figurine: “ricordati che con una donna devi essere sempre gentile, perché se non è bella fai una cosa giusta per lei, se invece è bella fai una cosa giusta per te”. E di questo mi colpì il fatto che non disse “brutta” ma appunto “non bella”, applicando il suo detto in primo luogo a se stesso anche nel momento in cui istruiva l’amato nipote.

Credo di avere in seguito tratto sempre dei grossi benefici da quelle parole sacrosante. Tanto che a volte, ancora oggi, per essere eccessivamente gentile, per mostrare che apprezzo la bellezza come la bruttezza, e a forza di storcere gli occhi per evitare grane con gli altri maschi, continuo a farlo anche quando una donna è sola, e rischio veramente che prima o poi l’asse visivo si scardini del tutto.




Ovviamente tutti i consigli in campo amoroso lasciano il tempo che trovano. E tuttavia credo sia una cosa sensata avere sempre e comunque delle regole quando si guarda inizialmente qualcuno perché si è arrapati: perché il prossimo non è mai un semplice oggetto, nemmeno quando è apparentemente lui stesso a voler essere trattato da oggetto. 

domenica 19 maggio 2013

Il celeste imperialismo




Parecchi anni fa, poco più che ventenne, trovandomi a girare per Pechino e essendomi felicemente perso lungo un hutong, nel vecchio distretto di Xicheng, vedo a una certa distanza una turista, forse sulla sessantina, in jeans e t-shirt bianca. Sembrava anche lei girare senza meta. Senza che mi veda proseguo anch'io per lo stesso vicolo. A un certo punto, forse perché stanca, forse disorientata, la povera turista, che aveva una macchina fotografica a tracolla, si siede su una grossa pietra all’esterno di un cortile. Il tutto mi appariva nella tipica luce di Pechino, velata da un che di sabbioso, di polveroso. Quasi nello stessso momento in cui la donna si siede, escono da una casa un paio di anziane: ognuna si trascinava una sedia, e vanno a sedersi ai due lati della straniera. A proteggere la straniera. Ma c’era un qualcosa di più del semplice voler proteggere una donna che si avventurava da sola in un posto a lei sconosciuto: c’era un fare gli onori di casa. Restai un paio di minuti a osservare la scena: nessuna delle tre diceva niente, soltanto qualche sorriso reciproco.

                                      Liulichang (distretto di Pechino) - photo by Shazari 

Non so quanto sia rimasta lì fuori, la straniera, in compagnia delle due cinesi. Ma ogni volta che sento di una qualche aggressione di stampo razzista in Europa, ogni volta che sento discorsi che sottintendono una presunta superiorità razziale, di una nazione o di una etnia su un’altra, ripenso a quella scena di quel pomeriggio d'estate a Pechino. E continuo a essere grato all’onnipotente Cina di oggi, erede del Celeste Impero di ieri, di avermi dato la più divina rappresentazione dell’accettazione dell’outsider. Forse nemmeno troppo rara per quelle generazioni.

Può darsi che i cinesi di oggi nutrano un qualche desiderio di rivalsa: il ricordo - per loro tutto scolastico - dei vecchi imperialismi: quello britannico prima di tutto e poi quello francese, adesso che pure l’economia africana finisce rapidamente in mano loro. Eppure c’è una certa grazia in questa business philosophy cinese, in questo indossare una feroce sovrastruttura capitalistica che non sono stati loro dopotutto a inventare. Ignoro come si dica rendere pan per focaccia in mandarino, ma mi torna in mente l'atteggiamento di quei caparbi "bottegai" di Londra (come Napoleone chiamava gli inglesi) subito dopo la pubblicazione di una lettera aperta del commissario imperiale Lin Zexu alla regina Vittoria: una lettera umanissima, cortesissima, moralmente ineccepibile e tutta pregna di concetti di spiritulità confuciana: una lettera con la quale chiedeva a Sua Maestà Britannica di interrompere l’osceno traffico di oppio che stava fiaccando vergognosamente il popolo cinese. I "bottegai" della regina Vittoria risposero più prontamente che mai: inviando le loro cannoniere lungo le coste del Celeste Impero, a scatenarvi paradossalmente l'inferno.

                                                      Lin Zexu

thriller e filosofia




Una mia anziana amica che ha la passione dell’approccio fenomenologico alle opere d’arte, un giorno che era a Firenze dentro Santa Maria Novella a osservare non mi ricordo quale affresco - forse la Trinità di Masaccio - si trova improvvisamente accanto una coppia di sposini: lui con la guida aperta tra le mani a leggere alla sua dolce metà la descrizione di quello che hanno davanti, lei a fissare annoiata il pavimento. La cosa va avanti per un po', "la descrizione era lunga, con nomi e date". La mia amica sopporta virtuosamente quel flusso inesauribile di parole, poi perde la concentrazione, alla fine inferocita strappa il libro dalle mani del ragazzo, lo chiude e intima, indicando l'opera, di guardare: “guardi! … guardi!”



L’approccio fenomenologico alle cose, se ho ben capito la spiegazione che mi è stata data, dovrebbe consistere nel porsi davanti a un qualsiasi oggetto e lasciare che l’oggetto ci parli. E un paio di giorni fa, visitando il museo di Palazzo Massimo alle Terme a Roma e mettendomi vicinissimo di fronte al busto di un auriga, fissando quel viso così realistico e soprattutto gli occhi e la bocca, che stavo quasi per baciare, sono dovuto indietreggiare sgomento, tanta era la potenza e il disprezzo che lo sguardo e le labbra esprimevano. Che quella mia amica filosofa abbia ragione lei? sarà per questo che Michelangelo, secondo il noto aneddoto, avrebbe detto al suo Mosè, subito dopo averlo terminato, quelle famose parole, così taglienti e così rabbiose?

venerdì 17 maggio 2013

Gli odorini della contessa




Andando recentemente in treno da Roma a Tivoli ho fatto caso che arrivando all’altezza di Bagni non si sente più quella tipica puzza di marcio delle acque sulfuree, che sono sempre state un po' la caratteristica del posto. Qualcuno si sarà lamentato. Avranno preso contromisure. Di sicuro, il mondo, pur se un tantino in ritardo, ha cominciato a introdurre il concetto di gradevolezza anche negli spazi comuni. E lo fa passare come nuova estetica. Tutto ciò che puzza è male, tutto ciò che profuma è bene, e, almeno per il momento, lo è sempre e comunque. Il che, adottato fino in fondo come metro di giudizio, non so quanto dovrebbe giovare, se si vuole credere ancora una volta all'esempio dei classici.

Trovandosi il giovane Jean-Jacques Rousseau insieme a altre persone nella camera da letto di una contessa, e giacendo la contessa immobile e credendola tutti morta, improvvisamente si sente un rumore venire da sotto le coperte. La contessa, che tutti credevano morta, apre gli occhi e dice: “Bon, femme qui pète n’est pas morte!”.

Il peto, dunque, nel caso di un’emissione di una certa potenza, sarebbe un test rivelatore: da preferire al classico specchietto messo davanti alla bocca quando non si ha a portata di mano un medico con lo stetoscopio, o un modernissimo cardiofrequenziometro. Anche il battito del polso, misurato domesticamente, non offre mai nessuna certezza. La vista e il tatto possono ingannare, l’udito e soprattutto l’olfatto mai. D'altra parte, come non dar credito qui, in questo famoso aneddoto della contessa, all'incredulo Rousseau, che fa costantemente della verità l'oggetto delle sue Confesssioni? Sempre che in queste sue memorie la menzogna non abbia fatto improvvisamente capolino, che cioè Rousseau non si sia inventato di sana pianta l'episodio: questa sorta di imbarazzante suoneria, qualcosa che sveglia pure i morti.

Diceva una ragazza in un forum in cui qualcuno aveva domandato se anche i morti eccetera, che una delle ragioni per cui si sarebbe fatta cremare è che “un corpo in decomposizione comincia a decomporsi dall’interno, producendo una montagna di gas che escono da tutti gli orifizi ...” Quello che è certo è che nella vita non è mai possibile venire a capo di niente. E chissà se quella povera turista che agli Uffizi ha perso l'equilibrio finendo contro un quadro di Salvator Rosa, L’allegoria della menzogna, causando senza volerlo un forellino nella tela, non abbia sentito in quel momento un altro di questi sibili liberatori … 

giovedì 16 maggio 2013

Le corna


                                             George Frederick Watts - il minotauro

“Se ora non vado errando” (adotto di proposito il curioso intercalare usato coi giudici di Napoli da Giovanni Pandico, il grande accusatore di Enzo Tortora - e il pentitismo non mi pare altro che una forma di adulterio anticipato, il tradire la giustizia con la quale ci si sta sposando) il primo riferimento letterario alle “corna” quale simbolo di infedeltà coniugale si trova in Plutarco, nella Vita di Licurgo. In questo bellissimo opuscolo, scritto soltanto agli inizi dell’era cristiana, un cittadino spartano parlando secoli prima con uno straniero - che s’era meravigliato che a Sparta non ci fossero leggi contro l’adulterio - dice: “se uno di noi commettesse adulterio allora sarebbe anche in grado di comprarsi un toro talmente grande che potrebbe sollevare la testa, sporgersi al di sopra del monte Taigeto e bere qui sotto dalle acque del nostro Eurota.” E lo straniero: “E come potrà esserci un toro così grande?” E lo spartano, un certo Gerada, sorridendo: “E come potrà esserci un adultero a Sparta?”

Si tratta in effetti di un'implicita tautologia, che non a caso fa rima con taurologia: uno spartano è uno spartano. Eppure, grazie a questo Gerada, chiunque da allora sia stato scoperto a tradire il partner avrà provato a difendersi attaccando, e anzi a ricordarsi non solo di Gerada ma anche di Teseo (di cui parla ancora Plutarco) che nel labirinto prende il Minotauro per le corna.



Il paragrafo qui sopra è un esempio di come con le parole si possa dire tutto ciò che il parlante o lo scrivente ci vede o voglia vederci. Così il grande avvocato Coppola, in una delle più belle arringhe che siano mai state pronunciate in un tribunale dei nostri giorni - insuperata lezione di psichiatria forense - definì il grande accusatore e "pentito" Pandico un dubbio filologico: "Pandico!", disse Coppola: "il suo nome risulta dal fatale incontro di due lingue caratterialmente diverse: pan: dal greco pas pasa pan, che significa tutto: e il latino dico: dico tutto!"

L'incomprensione è il minimo che ci si debba aspettare se si portano le corna a tema del giorno, a comunicazione verbale, figuriamoci quando l'interlocutore è un giudice. Mi raccontava un amico monsignore di una vecchia causa per adulterio, un fatto accaduto parecchi anni fa in un paesino vicino Roma. Venne chiamata a deporre, dall'allora pretore, l'anziana domestica, che asseriva di avere assistito, inosservata (dal buco della chiave?) al "tradimento". Dice il pretore: "Allora signora, ci dica quello che ha visto". E la donna, al di là di ogni ragionevole dubbio "Ho visto tutto, signor giudice!". E il pretore: "Ha visto tutto che cosa?" La domestica ci pensa un attimo poi dice: "Signor giudice, come ho detto all'avvocato, quello gliel'aveva messo dentro!" "Ma signora", esclama il pretore, "ma come parla? ma parli per metafora, per cortesia!" E la donna: "Ma quale metà ffora e metà ffora: stava tutto dentro!"  

mercoledì 15 maggio 2013

Il talent scout


                                              Balzac 

Una volta un talent scout, uno che cercava nuovi autori per Einaudi, mi fa, mentre ci prendevamo un caffè insieme: “sono quattro anni che lavoro a un mio romanzo”.

Mi limitai a annuire. Sai che noia, volevo dirgli.

Si dice che Balzac in quindici anni scrisse novanta romanzi, una media di sei all’anno. Bisogna dire che era roso dai debiti. Ma il fatto non meno portentoso è che questi romanzi sono uno più bello dell’altro. E allora com’è? Non sarà che esiste qualcosa che una volta si chiamava, con cognizione di causa, talento? E cosa sarebbe in fin dei conti il talento? Il talento non è la semplicità con cui Balzac scrive una delle sette meraviglie del mondo letterario con la stessa facilità con cui oggi tu, talent scout, ti allacci una scarpa.

Si potrebbe dire, a chiunque si prenda troppo sul serio e impieghi per scrivere un romanzo più di dieci quindici giorni: lasciate ogni speranza voi che entrate e che ambite a qualcosa che vada oltre una momentanea citazione su internet ... E forse è meglio che usciate ancor prima di entrare. 

giovedì 9 maggio 2013

Retorica, oh cara bistrattata …


                                              Magritte, La Grande Guerre


Retorica è un termine che al borsino della Storia è definitivamente crollato, quantomeno a "parole": perché se pure è diventato sinonimo di tutto il peggio, di tutto ciò che è enfatico e vuoto, è difficile che prima o poi anche i suoi più ideologizzati nemici non ci sbattano anche loro il grugno. Una frase del tipo: curioso esercizio retorico, il tuo, trabocca di quella stessa retorica che si vorrebbe condannare, non fosse altro che perché si fonda su un'accurata scelta e disposizione delle singole parole: l’aggettivo curioso, messo all'inizio in funzione non epatica ma enfatica, segnala una tua superiore "sospensione di giudizio"; l’uso di esercizio, a cui si dai un valore negativo, segnala una tua supposta modernità, al passo coi tempi, l'accettazione di un certo linguaggio "oggettivo", "scientifico" (anche se poi ci si dimentica che proprio questa parola, esercizio, viene da sempre corteggiata e apprezzata all'interno del mondo ascetico: cioè in quel mondo che ugualmente, al pari della scienza, disprezza tutto ciò che è superfluo); e infine quell’indice puntato contro il colpevole: quel meraviglioso "tuo", posto ugualmente in posizione enfatica alla fine (i riflettori in una frase illuminano sempre le due estremità).

La retorica è stata ed è tecnica della persuasione: non c'è aspetto della vita di oggi, così tanto ossessionata da questa curiosa idea dell'originalità, che ne sia immune: dalla pubblicità a Twitter a FaceBook (che viene detto anche FakeBook) ai messaggini, ai più specifici rapporti intersoggetivi, nei quali è quasi sempre questione di manipolazione dell’altro, anche quando si resta muti e impassibili e si lascia tutto allo sguardo - per non dire di quando ci si scopre strabici ... E se poi lo strabismo è di Venere, se è divergente, allora sono guai anche più seri.

Amor che al cor gentil ratto s’apprende
mi prese del costui piacer sì tanto
che come vedi ancor non m’abbandona

E in effetti sono passati duemila e cinquecento anni dalle prime codificazioni della retorica, e retore in greco significa colui che parla, lo speaker, come anche si dice oggi quando si indicano i relatori di un convegno.. 

mercoledì 8 maggio 2013

pensare




E' tutto un gran pensare, nel mondo: tutti dicono sempre e continuamente "penso" ... penso che ha fame, penso che domani piove, penso che stanno ancora insieme, penso di non venire, penso di fare tardi ... Deve essere per via di tutti questi liberi "penso" e liberi "pensatori" che Heidegger ha scritto un libretto intitolato Che cosa significa pensare.

martedì 7 maggio 2013

Il dono impalpabile dell'eccesso


                                               Andrea Sacchi - Ritratto di Alessandro del Borro

Scrivevo ieri in un commento a un post sull'obesità nella letteratura, e dove si parlava anche di quella simpatia che invece grazie al dono della parola alcuni riescono comunque a suscitare nonostante certe loro "eccedenze fisiche", che sarebbe molto più interessante

venerdì 3 maggio 2013

L'eta giusta per pubblicare e il ragioniere



                                     Seguier durante l'entrata di Luigi XIV a Parigi


Tentare di pubblicare per la prima volta sottintende - diciamolo subito - il desiderio di un riconoscimento: essere considerati dei pari: cercare in tutti i modi di inserirsi in un ambiente al quale ancora non si appartiene, nel quale ancora non si è stati ammessi. Ricordo anni fa un amico d'infanzia, col quale continuavamo a divertirci pure da adulti, mi disse: “adesso sono un personaggio pubblico!” Lo disse soddisfatto, senza nessuna ironia. Ebbi allora l’impressione, anche perché non era eccessivamente alto, di trovarmi finalmente di fronte all’incarnazione di ciò che fino ad allora conoscevo solo come termine di dizionario: un salapuzio. Smisi di cercarlo. In realtà il suo nome apparve per pochissimo tempo su certe locandine e per quel poco che ne so credo che anche in seguito non abbia ottenuto quella visibilità che forse inizialmente si aspettava. In più ha perso un amico. E me ne dispiaccio, perché insieme si giocava veramente bene, almeno nel modo in cui lo facevamo noi.

C’è inoltre in Italia - a parte un legttimo desiderio di "pubblicare" - una certa ossessione per l’età giusta, quella che bisogna necessariamente avere quando si pubblica per la prima volta, cioè attorno ai vent'anni. Il che mi sembra di buon auspicio se è vero quanto si dice da millenni: che chi muore a vent'anni è perché gli dei lo amano. Ma sia pure. Pubblichi a vent'anni. Sei forse Mozart, che a undici anni musicava l'Apollo e Giacinto? Cosa mi racconti poi nei tuoi romanzi scritti a vent'anni? il numero dei contatti che hai su FB? il numero delle cliccate ricevute o il fatto che “a quello l’ho proprio pisciato perché c’aveva solo 15 followers"? Può anche andarmi bene, e anzi mi piace, ma se me lo ripeti dalla prima all'ultima riga preferisco sentirlo dal vero.

Di Umberto Ecco si legge su un blog letterario la risposta che ha dato a un ragazzo che voleva inviargli un suo manoscritto. Quest'uomo ormai ai vertici della fama - il che significa anche fuori dell'Italia - con le mani in pasta dovunque (riviste, quotidiani, corsi universitari, saggi, romanzi eccetera), dice al povero e sconosciuto aspirante alla gloria che purtroppo non potrà leggerlo. La sua risposta è emblematica: è un paradigma di paradossale gesuitismo, dove cioè si ammette e non si ammette nessun relativismo. Avrebbe potuto tagliar corto e fare come Bacon, che al pittore che in un pub chiedeva se poteva mostrargli le sue opere dice continuando tranquillamente a bere: "non ne ho bisogno, vedo già dalla cravatta che porti che non hai nessun talento". Con piglio invece da contabile più che da professore erasmiano Eco squaderna la sua memorabile agenda e spiega quali sono i motivi del suo rifiuto. Praticamente la mancanza di tempo. La mia giornata è così regolata, dice Eco: 5 min. per questo, dieci per questo, 23 per questo, un’ora e venti per questo, 2 ore per questo. E suggerisce al futuro romanziere di inserirsi negli ambienti delle riviste e cominciare a poco a poco a fare gavetta.

Un mio collega all’università a Londra ma di un altro dipartimento, genio dell'informatica, una ventina d'anni più di me, un bel giorno che eravamo fuori per il lunch e parlavamo di Giappone e di architettura contemporanea mi dice all'improvviso: “ma sai, io fino a qualche anno fa non ero per niente conosciuto nel mio campo, mi ero sempre occupato di urbanistica, lavoravo in un semplice studio dietro King’s Road: poi a quarant’anni ho fatto un altro PhD e eccomi qua a cinquanta a insegnare quello che sai".

L’ossessione dell’età non è poi un fatto troppo curioso in Italia (che non è per niente il reame dei navigatori dei poeti e dei santi - e la Francia ha fondato da sola più ordini monastici lei che tutti gli altri messi insieme): una nazione, la nostra, interessata più alla “bella figura” che alla sostanza - altri segni evidenti di questa sibaritica confusione e incertezza mentale e intellettuale sono l’intricata burocrazia e il desiderio di leggere i propri fatti sui siti stranieri - cosa dicono ad esempio  il Guardian, Le Monde o il Frankfurter Algemeine o El Pais se l'ultimo dirigente di un partito se l'è fatta adddosso. C’è proprio da immaginarli i britannici mentre consultano i giornali stranieri per vedere se si parla di loro, nelle piccole come nelle grandi cose.  

Montaigne non pubblicò quasi niente, il suo diario di viaggio venne stammpato un paio di secoli dopo, e quando pubblicò la prima edizione dei Saggi aveva quarantasette anni. Stendhal, a parte alcune cosucce su Rossini e Cimarosa e altre amenità, diede alle stampe il suo capolavoro, Il rosso e il nero, a cinquant’anni, forse qualche annetto in meno, ma nel tempo perso si divertì alla grande e soffrendo anche per amore e ad ogni modo nella maniera che descrive magistralmente in una delle sue opere più belle, pubblicata postuma, Ricordi di egotismo

E per sfortuna di tanti autori che credono di aver toccato i primi gradini della fama, di avere svoltato, di essersi finalmente inseriti da qualche parte mentre tra qualche anno ne ritroveremo i tristi volumi accatastati nei remainders, oggi c’è internet, su cui pubblicano tutti, e tutti possono farlo. Se fossi stato quindi nei panni di Eco avrei detto a quel ragazzo: vediamoci da qualche parte e ci prendiamo un bel caffè e chiacchieriamo d'altro: per quale motivo prendersi tanto sul serio, cercare di entrare dentro un ambiente nel quale sai bene, a giudicare dalla lettera che mi hai scritto, che non ti accetterebbero, e all'interno del quale, ammesso che tu riesca a passare e fossi pure uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, saresti in compagnia di tantissima mediocrità ... Avrebbe usato anche meno parole, il ragionier Eco. Un gran risparmio sul suo prezioso tempo.
  

giovedì 2 maggio 2013

Amor ch'a nullo amato




Mi viene da pensare che (conoscendo come vanno le cose nel mondo) è sempre vero che in amor vince chi fugge, non c'è possibilità di errore. Che si tratti cioè di una di quelle leggi della psicologia umana che restano oltretutto inalterate nel tempo. Quello che invece non sappiamo è se, parlando dell'amore di Dio, nel senso di amore che si ha per Dio, valga la stessa legge. Chiunque provi questo tipo di amore dovrà aspettare, sperare: e speranza  significa in latino, come anche in greco, attesa; di sicuro al termine di una lunga attesa sarebbe non facile, non bello, dover prendere atto che chi è fuggito dal divino, così come sulla terra, ne abbia al contrario conquistato l'amore e che questa legge non solo è universale ma ci si conforma anche il creatore dell'universo. E si potrebbero far rientrare, nei discorsi sull’amore, anche le tante riflessioni, odierne o passate, sull'amor di patria: il nemo propheta in patria - questione non da poco - è un esempio di come la stessa legge dell'amore dei sensi valga anche nell’etica. Andocide, famoso personaggio dei tempi di Pericle, di qualche anno più giovane di Alcibiade, venne colpito da una serie di disgrazie civili, una dietro l’altra, con vari esili tutti documentati, e ogni volta cercò di rientrare ad Atene, provò a riconquistarsi sempre senza troppo successo l’amore della sua città.

                                          Laocoonte, copia in porcellana - foto LuciusCommons

Devo ammettere non ho mai avuto molta simpatia per questo personaggio - e forse più che per l’uomo, per ciò che ancora oggi il suo più conosciuto gesto può moralmente significare, se è ormai appurato che per salvarsi da una condanna a morte denunciò dei "presunti" colpevoli nel famoso scandalo delle erme. Dice Andocide, nella celebre orazione detta Sopra il suo ritorno, parlando agli ateniesi e tentando di dimostrare che il suo amor di patria era sincero: “mi accorsi a un certo punto che la cosa migliore per me era di restarmene lontano e comportarmi in maniera tale da farmi vedere il meno possibile”. Non gli andò bene. Gli ateniesi fiutarono la malafede, un falso nascondersi, un falso fuggire. Il fatto curioso, nel caso di Andocide, è che se pure lo vediamo nutrire speranze, “aspettative", non doveva mancargli un certo ironico senso del reale. Quel suo farsi vedere il meno possibile si sarebbe rivelato il suo più vero destino; e dopo il definitivo esilio mi pare nel 392 se ne perdono definitivamente le tracce, non si saprà più niente di lui. Così, questo essere fuggito per sempre gli è giustamente valso in seguito, in epoca alessandrina, l’amore e la stima della sua nazione se fu inserito nella lista dei dieci più importanti oratori attici, anche se venne messo all’ultimo posto.