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venerdì 24 ottobre 2014

l'abbassarsi cristiano e il restare in piedi pagano

La differenza tra i modi della libera religiosità pagana e quelli del più vincolante mondo cristiano potrebbe essere avvertita nel semplice accostamento di due testi lontanissimi nel tempo (ma si potrebbe prendere anche un testo cristiano dell'antichità, una lettera di san Paolo), uno francese e l’altro latino, in entrambi i casi viene usato uno stesso verbo (abiiciere/abjecter):

Or en Jesus nul au vray ne se fie,
sinon celui qui sous son bras puissant
en tous endroits s’abjecte et humilie (Clément Marot, Opusc., I)

Adesso nessuno ha fede in Gesù
se non colui che sotto il suo braccio potente
in ogni luogo si abbassa e umilia

e

Sic te ipse abiicies atque prosternes ut nihil inter te atque quadrupedem aliquem putes interesse? (Cic., Paradoxa stoicorum, 14)

E ti abbasserai e prosternerai a tal punto da mostrare che tra te un quadrupede non vi è nessuna differenza?

Entrambi gli esempi riportati nell’Archeologie française del Pougens, un testo tra l’altro ampiamente rastrellato da Leopardi, che lo cita spesso nello Ziba.

I versi da vaudeville del buon Marot, del libertino Marot, soltanto apparentemente inconcludenti e tautologici, indicano in effetti (è un po' il senso del loro sottilissimo e quasi invisibile sarcasmo - non aveva altri strumenti per non finire come De Sade sempre e nuovamente in galera), che il gesto religioso deve avere per alcuni lo stesso valore dell’abito religioso: un valore di continua testimonianza: un gesto di apparente umiltà, di vicinanza alla terra, quindi in effetti non per restarci (vedi quanto ho scritto nell'Inganno dell'ascesi e dell'invocazione delle sacerdotesse di Dodona). 

Così il martirio (testimonianza) non è altro, per la stessa ragione, che una somma isteria: la ripetizione dello stesso gesto fino alle estreme conseguenze, fino a sbatterci finalmente, come desiderato, il grugno. Lo stesso può dirsi in realtà della scrittura, di chi scrive (vedi Balzac che muore non per una peritonite che si complica in gangrena ma nella sua stessa opera, all’interno della quale si era già trasferito da tempo). Come tutte le forme di irrigidimento anche scrivere è un'isteria.

sabato 28 settembre 2013

l'inferno

Scrive Wittgenstein in un pensiero del 1937 (Vermischte Bemerkungen) che "in un singolo giorno si possono vivere i terrori dell'inferno: il tempo è più che sufficiente". E tuttavia questo lungo giorno di cui parla Wittgenstein può essere ridotto della metà, e poi ancora della metà, fino all'infinitamente picccolo, e in quell'infinitamente piccolo istante il terrore dell'inferno può essere ugualmente provato per un tempo infinito. Così come mi è accaduto un giorno in aereo durante un apparentemente tranquillo decollo, quando a un qualche centinaio di metri dal suolo l'aereo ha cominciato paurosamente e perdere quota a causa di una depressurizzazione. Un  incidente di cui ricordo solo il terrore di una delle hostess seduta a pochi metri dalla cabina passeggeri che stringeva convulsa il braccio del collega. E ricordo il libro dal quale avevo immediatamente alzato gli occhi, una vecchia edizione del Contrat de mariage di Balzac. Lo misi semplicemente sul sedile accanto e pensai pietrificato: "è così, allora?"    

martedì 20 agosto 2013

Proust internauta e i wormholes


Philippe E. Hurbain, Wormhole: panorama of the dunes

Mi è capitato di trovare, anni fa, nei diari di Philippe Sollers, un certo giocoso e nostalgico riferimento a Proust. Diceva Sollers che se Proust vivesse oggi sarebbe senz'altro un indemoniato del fax, delle email e di tutto il resto, e che lo si vedrebbe sposare pienamente la causa di Internet - ammesso, ovviamente, che Internet si proponga una causa, un qualche fine umanitario, e che non sia semplicemente la più potente e cavernicola forma di retorica che la Storia conosca, basata come tutte le retoriche che si rispettino, sulla manipolazione e il controllo totale dell'individuo. A dire il vero Sollers non diceva indemoniato, ma il senso era quello, che cioè proprio Proust, colui che più di ogni altro era parso immerso nei discorsi sociali di un mondo chiuso ed esclusivo, si sarebbe gettato oggi anima e corpo in tutti i più minuti meccanismi e varianti globali di queste odierne e dissocianti tecnologie dell'annullamento di una distanza. E in effetti di Proust (e inevitabilmente del Narratore della Recherche) si conosce la passione per le invenzioni dell'epoca: il telefono ancora agli inizi col quale ascoltava i concerti da casa, la bicicletta di Albertine a Balbec, l'aereo ammirato a Versaille e nei pressi del castello della Raspelière ma poi oggetto temutissimo durante la guerra. Non era certo un nostalgico. E inoltre si conosce almeno un caso in cui il Proust anagrafico si divertì per qualche ora a impersonare il portiere di uno stabile nel quale abitavano alcuni suoi amici, professione da sempre lanciata nel più lontano e più moderno futuro.

Non credo tuttavia che Sollers abbia posto o indicato la questione nei termini giusti. Non ha molto senso chiedersi come sarebbe o cosa farebbe oggi un Leonardo, o come sarebbero Balzac o Stendhal o Montaigne. Fa venire in mente quegli uomini che dicono che se fossero donne farebbero sesso ogni cinque minuti. Porre la questione in questi termini svela semplicemente un sentimentalismo o un arrapamento di tipo senile, anche piuttosto preoccupante in un intellettuale di un certo calibro che dovrebbe tenere confinati i propri istinti al privato, pure in un diario da rendere pubblico.

Avendo scritto la mia prima tesi sugli influssi della poesia alessandrina in Catullo, per un certo periodo rimasi convinto di essere la sua reincarnazione, considerato che dopotutto si chiamava Gaio Valerio e che io pure mi chiamo Valerio, e che già al liceo amavo i suoi epigrammi e anzi li avevo riscrittti adattandoli ai miei tempi e intitolando quel lavoretto Catullo allo specchio. Così, un autunno di tanti anni fa, arrivando sul lago di Garda e andando subito a vedere i resti della supposta Villa di Catullo chiesi agli amici con cui ero di lasciarmi per un po’ da solo: volevo fare un semplice esperimento: misurare una volta per tutte l'effettiva distanza ontologica, se ce n'era una, che mi separava da Catullo. Mi sedetti tra le antiche pietre e restai in silenzio qualche minuto. Ma non sentii niente. E pensai che o io non ero Catullo o che quella non era la sua villa.


ultima immagine di Proust

Sarebbe più interessante chiedersi invece che cosa avrebbe da fare o cosa si troverebbe a fare uno dei tanti scrittori che oggi vanno per la maggiore - ma anche uno dei tanti attori, musicisti, architetti o qualsiasi altro personaggio pubblico convinto di essere qualcuno - di cosa si scoprirebbero appassionati se venissero improvvisamente portati indietro nel tempo con lo stesso nome e professione di oggi. E non so perché mi viene in mente una storiella morale di san Bernardino da Siena, che racconta che un bel giorno un uomo che passeggiava per la via degli Speziali, dove si sentivano nell'aria profumi e aromi di ogni genere, improvvisamente cadde a terra svenuto. Come ancora oggi succede, molte persone gli si fecero attorno, arrivò anche un medico, che dopo averlo palpato e ripalpato chiese se qualcuno ne conosceva il mestiere. Quando gli dissero che faceva il votatore di pitali, il medico sorrise e disse di portare dello sterco di cavallo. Come l'ebbe tra le mani, gliene passò un po’ sotto il naso e quello rinvenne.

Concludeva san Bernardino: voi ci ridete, et ecci da piangere.  

mercoledì 15 maggio 2013

Il talent scout


                                              Balzac 

Una volta un talent scout, uno che cercava nuovi autori per Einaudi, mi fa, mentre ci prendevamo un caffè insieme: “sono quattro anni che lavoro a un mio romanzo”.

Mi limitai a annuire. Sai che noia, volevo dirgli.

Si dice che Balzac in quindici anni scrisse novanta romanzi, una media di sei all’anno. Bisogna dire che era roso dai debiti. Ma il fatto non meno portentoso è che questi romanzi sono uno più bello dell’altro. E allora com’è? Non sarà che esiste qualcosa che una volta si chiamava, con cognizione di causa, talento? E cosa sarebbe in fin dei conti il talento? Il talento non è la semplicità con cui Balzac scrive una delle sette meraviglie del mondo letterario con la stessa facilità con cui oggi tu, talent scout, ti allacci una scarpa.

Si potrebbe dire, a chiunque si prenda troppo sul serio e impieghi per scrivere un romanzo più di dieci quindici giorni: lasciate ogni speranza voi che entrate e che ambite a qualcosa che vada oltre una momentanea citazione su internet ... E forse è meglio che usciate ancor prima di entrare.