lunedì 29 dicembre 2014

"sono un berlinese" se ho la pancia piena. "Te Deum" della democrazia

Repubblica Democratica Italiana - Secondigliano


 L'idea dell'esistenza per il cittadino qualsiasi di parità di condizioni in un regime democratico liberista (vedi Toqueville, l'Introduzione del suo Denocrazia in America) trae origine ovviamente da un'assunzione di principio, da un partito preso (l'insindacabilità della libera iniziativa). Quindi la sua difesa in quanto modello deterministico della Natura o di Dio è indicativa di una posizione fortemente ideologizzata. Difatti le condizioni dei singoli in un regime democratico liberista non si rivelano mai di parità se non sulla carta, essendo una simile democrazia trainata e determinata unicamente (anche per definizione) dalla forza logistica del denaro. Il denaro, in discrete quantità, raggiunge e ottiene tutto, passa da un luogo sociale all'altro: dalla sanità alla giustizia al potere fino a insidiare le difese più vulnerabili e fragili del campo nemico. Così quando Jack Kennedy visitò nel 1963 Berlino Ovest, e pronunciò il suo famoso (dettato dall'alto, dalle grandi industrie) "Ich bin ein Berliner", e fu ripreso da tutte le televisioni davanti alla Porta di Brandeburgo, un entusiasta commentatore americano, con un timbro che a suo modo ricalcava gli entusiasmi dei colleghi italiani dell'Istituto Luce durante il Fascismo, disse che quella porta, che impediva il libero passaggio degli uomini (cioè delle merci) era l'immagine della degradazione dell'uomo sotto il comunismo, dimenticandosi, da superpagato megafono di regime, del degrado dei quartieri più socialmente insalubri delle grandi città americane, nei quali, anche ai suoi tempi, e anche volendo, non si poteva entrare se eri un outsider o se non c'eri nato.

La stessa cosa si può dire dei superpagati megafoni che popolano tanto più oggi i telegiornali di ogni regime democratico liberista (la totalità), con i loro Magnificat e i loro Te Deum "mitragliati" ininterrottamente dalla mattina alla sera e perfino la notte (il Te Deum laudamus viene stranamente cantato nella liturgia cattolica non continuamente, ma solo alla fine dell'Ufficio delle letture, in effetti prima delle Lodi vere e proprie, e non tutti i giorni, ma solo nelle festività, Quaresima esclusa, comprensibilmente).

ancora sulla "tentazione". la mimesi di Flaubert

La tentazione, quando arriva all'uomo caratterialmente forte, non deve mai essere singola se si vuole sperare in un suo qualche effetto. Deve cioè poter dire la stessa cosa che disse a Gesù l'indemoniato di Gerasa: "il mio nome è legione". Il che porta a pensare che l'indemoniato di Gerasa, prima della possessione, fosse un uomo straordinariamente forte. Diversamente sarebbe bastato un solo demonio invece delle migliaia (anche considerata la media del numero di legiornari in ogni tempo e il fatto che comunque legione qui sta semplicemente per un numero grandissimo).

Così (vedi quanto ho scritto in Islam, Giudaismo, Cristinesimo e la tentazione) la Tentation de saint'Antoine di Flaubert non poteva avere una strruttura differente da quella enumerativa: il delirio di ideazione di immagini e di profusione lessicale. Una questione di mimesi.

Islam, Giudaismo e Cristianesimo disuniti nella "tentazione"


Salvador Dalì, La tentation de saint'Antoine


Il mondo coranico è meno prono al comico rispetto al Giudaismo. E di conseguenza rispetto al Cristianesimo. La stessa cacciata di Adamo e della sua donna dal Paradiso è nella Lettura dell'Islam un fatto di pura spiritualità: per l'ammiccante, teatrale serpente, trasformato in seguito dall'esegesi ebraica in "portatore" di Satana, quasi fosse un carro, non c'è spazio. Così almeno nella seconda sura:

فَأَزَلَّهُمَا الشَّيْطَانُ عَنْهَا فَأَخْرَجَهُمَا مِمَّا كَانَا فِيهِ  (fa azallahuma l-shaytanu 'anha fa-akhrajahuma)

e li fece scivolare il Maligno da quel posto e  l i   p o r t ò  fuori da ciò in cui si trovavano (la loro condizione di felicità)

(Il verbo أَخْرَجَ (akhraja), nella forma IV, è usato invece in questa stessa sura al versetto 22 in un'accezione positiva (vedi quanto ho scritto nel Grado quarto della libertà), dovendosi riferire a Dio che fa della terra un giaciglio per l'uomo e del cielo un tetto (una volta) e manda giù pioggia che farà poi crescere il suo nutrimento:

فَأَخْرَجَ بِهِ مِنَ الثَّمَرَاتِ رِزْقًا لَّكُمْ  (fa-akraja bihi mina l-thamarati riz'qan lakum):

e  p o r t ò  perciò frutti quale vostro sostentamento).

In questo senso l'Islam rappresenta - almeno in questo passo dell'Eden teologicamente fondante (il riferimento al primo peccato, alla trasgressione degli ordini divini) - un abbandono del concreto, un'elevamento in termini astratti e spirituali rispetto al Giudaismo e al  Cristianesimo (mi pare sia stato Gore Vidal a dire una volta in una trasmissione qualcosa di simile: un miglioramento, an improvement, rispetto alle altre due grandi religioni, anche se non ricordo in che contesto vedeva lo vedeva, e riteneva comunque che anche l'Islam, come il Giudaismo e il Cristianesimo, avesse fallito). E non fa nessuna differenza il fatto che nelle varie tradizioni demonologiche musulmane Shaytan (il Maligno, in questo caso Iblis) possa assumere la forma di ogni creatura vivente: il cane, la iena, il serpente, perfino un aspetto umano: è in questo versetto 36 che non si fa menzione di zoomorfismi.

Il Cristianesimo, erede del Giudaismo, ha d'altronde sempre preferito un più prossimo contatto con la terra, e con le sue creature, soprattutto in situazioni estreme, dove però l'ascesi dovrebbe indicare più che un desiderio della terra tout court (come era per esempio nel caso delle sacerdotesse di Dodona) un suo immediato uso, uno strumento di elevazione, con tutti i rischi che questo comporta, anche di caduta nel comico, come nel caso dei primi asceti, che si sceglievano per dimora il deserto, notoriamente popolato da serpenti anche piuttosto pericolosi.

Credo che su questa questione del comico nel Giudaismo e nel Cristianesimo (o meglio nelle Scritture), di una sua certa continua teatralità, abbia giocato Flaubert nella Tentation de saint'Antoine. E' difficile leggere quel libro senza scoppiare a ridere, nonostante i lunghi passaggi descrittivi (ma forse anche a motivo di questo), deliranti per ricchezza ideativa e lessicale. Vedi ad esempio una delle allucinazioni di sant'Antonio, l'arrivo della carovana della Regina di Saba alla sua capanna nella Tebaide, carica di doni preziosi di ogni genere, che gli si getta al collo follemente innamorata. E' la continuazione di Eva che coglie il frutto dall'albero e porta tentazioni all'uomo - tanto più ridicola, la situazione, quanto più l'uomo sarà un eremita che da trent'anni vive solo e isolato dal resto del mondo.



















mercoledì 24 dicembre 2014

la prigione della lingua e il grado quarto della libertà. senso proprio e senso figurato

Ci sarebbe da chiedersi se il passaggio dal senso proprio al senso figurato di una parola non sia un semplice espediente dell'uomo: l'umanità che attraverso la poesia tenta di liberarsi dai vincoli del "fascismo" della lingua, secondo la definizione data da Roland Barthes al Collège de France: la lingua che ti obbliga a dire. In effetti sono numerosi gli esempi nelle lingue semitiche e indoeuropee in cui a un senso proprio segue un senso figurato che è in un certo senso  il capovolgimento del primo:

יַבָּשָׁה (yabbasha) che in ebraico vale terra asciutta ha sempre connotazioni positive nell'Antico Testamento: è la terra asciutta di Esodo 14,16, che Mosè dovrà aprire agli israeliti nella rocambolesca fuga attraverso il Mar Rosso: בַּיַּבָּשָֽׁה (bayabbasha - su terra asciutta), e lo stesso si deve pensare di Genesi, la terra che viene originariamente separata dalle acque, e il senso anche qui è "buono": su terra asciutta vivranno tranquillamente gli uomini e le donne. E lo stesso vale per il letto del Giordano in Giosuè 4,22, le cui acque, come per il Mar Rosso, si separano per lasciar passare senza pericolo gli israeliti, e a volte yabbasha significa anche spiaggia: comunque luogo sicuro.

In senso figurato invece terra asciutta non può che avere una connotazione negativa: secca, arida, riferita allla condizione dell' uomo assetato spiritualmente - vedi Isaia 44, 3-4:

כִּ֤י אֶצָּק־מַ֙יִם֙ עַל־צָמֵ֔א וְנֹזְלִ֖ים עַל־יַבָּשָׁ֑ה אֶצֹּ֤ק רוּחִי֙ עַל־זַרְעֶ֔ךָ וּבִרְכָתִ֖י עַל־צֶאֱצָאֶֽיךָ׃ וְצָמְח֖וּ בְּבֵ֣ין חָצִ֑יר כַּעֲרָבִ֖ים עַל־יִבְלֵי־מָֽיִם

perché io verserò acqua sull'assetato, torrenti sulla terra arida, verserò il mio spirito sui tuoi germogli e la mia benedizione sulla tua discendenzae crescerà tra l'erba come salici lungo corsi d'acqua.

Considerazioni simili, e per lo stesso termine, si possono fare per l'arabo, il greco, il latino ma anche per le nostre lingue moderne: un significato proprio che ammette un senso figurato può in alcuni casi contraddirlo: pascolo (non è certo il civilizzato pasto ma cristianamente diventa luogo di nutrimento divino), armadio (perde la sua utilità se riferito alla taglia di una persona), strada, via (è "buona" perché unisce due punti ma deve lottare con uno dei due sensi figurati: ci sono due vie, per il bene e per il male), piatto (dove si mangia ma anche stile, paesaggio piatto), mattone (riferito a libro), sola a Roma (nel senso di suola ma anche fregatura) d'altronde, come dice il prverbio: non fu mai bella scarpa che non diventi ciabatta. E si potrebbero fare tantissimi esempi in qualsiasi lingua. E anche in tantissimi casi in cui il senso proprio non può negativizzarsi allora corre in aiuto  l'ironia.

Il problema è che una fuga dalla costrizione, dalle catene della lingua, è sempre una fuga di breve durata, di corto respiro, una vittoria di Pirro: una volta che ci si insedia nel nuovo senso, quando si pensava di essere gia  liberi, ci si accorge che si è incatenati né più né meno che come prima. E nelle lingue occidentali, al di fuori dei famosi quattro sensi dell'esegesi cristiana, non riesco a pensarne altri. Bisognerà fermarsi per forza al grado quarto. Rinunciare a qualsiasi volontà di andare oltre, un po' come nei versi dell'andaluso Machado:

Mi voluntad se ha muerto una noche de luna
en que era tan hermoso no pensar ni querer


Stendhal, il teorema di Lagrange e i safety tutor sulle autostrade







La questione del successo postumo è strettamente legata al denaro che si può ricavare da un autore, da un pittore eccetera morti in assolutà povertà, in stato di quasi indigenza; per altri invece la questione non cambia: erano comunque ricchi o benestanti, anche se è difficile pensare che chi è poi finito nel calderone dei classici non sputasse costantemente sangue, se si vuole tener fuori il conte Giacomo Leopardi e pochi altri, Proust eccetera. Quando a cinquant'anni Stendhal dice nei Ricordi di egotismo che dieci anni prima gli restavano soltanto 3500 franchi (forse qualcosa come diecimila euro di oggi), e che una volta finiti avrebbe avuto almeno la gioia di farsi saltare le cerevella non immaginava il mare di denaro che gli editori in tutto il mondo avrebbero cominciato a far girare cento anni dopo coi suoi libri. Per altri - e questo è più vero in ambito accademico - la quantità di grana che si sarebbe generata con qualche loro scoperta è talmente incommensurabile che neanche il loro genio avrebbe potuto calcolarla. Che è per esempio il caso di Lagrange e del suo bellissimo teorema o formula sulle funzioni derivabili, quella che stabilisce, se applicata al movimento, che la velocità media che si percorre in un tratto di strada tra un punto a e uno b è uguale alla velocità istantanea calcolata in un punto compreso tra a e b:

                               (f(b)-f(a))/(b-a)=f '(x)

Che è poi la formula usata dai safety tutor in autostrada, quei dispositivi che calcolano la velocità media di un mezzo. Così se è vero il teorema di Lagrange (e non ci sono ragioni per non crederlo vero) poiché ci sarà almeno un punto nel tratto in cui la tua velocità è uguale a quella media calcolata sull'intero percorso, allora se alla fine la tua veloctà media risulterà superiore a quella che ti è stata imposta su quel tratto, vuol dire che c'è stato almeno un punto in cui l'hai superata. E questo, al di fuori della matematica, può dirsi anche di qualsiasi autore, pittore, musicista, o politico che sia passato alla storia.

Il torinese Lagrange - anzi Giusepper Ludovico Lagrangia (il suo nome sarebbe suonato ugualmente grande se avesse conservato la grafia italiana) era in fondo un semplice borghese, un benestante. Ma meno attento al denaro che alla gloria. E che sicuramente guardava solo all'esprit de géométrie: che cosa poteva fregargliene delle centinaia di milioni di euro che un giorno avrebbero fatturato con la sua formula se già sentiva il suo nome appartenere ai posteri? Ebbe vita facile (a parte gli anni di apprendistato - che fosse stato autoditatta nello studio della matematica superiore va ascritto a suo merito e dovette farlo a tozzi e bocconi e pure di nascosto dal padre - per il resto tutto in seguito filò liscio, se si escludono le sue ricadute nell'ipocondria: dal momento in cui a vent'anni fu nominato Sostituto del Maestro di Matematica nelle Regie Scuole di Artiglieria, a quando successe a Eulero a Berlino, a quando si traferì a Parigi e dopo qualche tempo sposò, a cinquantasei anni,  una ventiseienne. E comuque ebbe gloria ai suoi tempi, tanto più sotto Napoleone, e diventò senatore eccetera.

Anche Stendhal aveva amato Napoleone, e - a differenza di Lagrange, che era un'opportunista - l'aveva amato davvero. E aveva amato anche la matematica (numerosi i riferimenti nell'Henry Brulard: Ma cohabitation passionnée avec les mathématiques m'a laissé un amour fou pour des bonnes définitions, sans lesquelles il n'y a que des à-peu-près). Ma non fece ugualmente una buona fine. Pochi soldi, calcoli ai reni, gotta, emicranie. E alla fine morì a cinquantanove anni d'infarto. Un piccolo trafiletto su un giornale, è morto il signor Beyle, autore della Vita di Mozart e Cimarosa. E fu tutto. E non ebbe la tomba al Panthéon a Parigi come Giuseppe Lagrangia, ma comunque sempre al Père Lachaise. Il fatto è che a quel tempo al Père Lachaise ci mettevano tutti.

il pellicano e il destino dell'uomo. dal deserto alla piscanalisi




foto Yuru Belyaev


Il pellicano, detto anche spatola, è sicuramente, nel bene o nel male, uno di quegli uccelli che in ogni tempo, per la curiosa forma che può assumere il becco, si presta meglio di altre creature a rappresentare l'uomo, anche se poi, nelle diverse culture, ciò avviene secondo rappresentazioni differenti e diverse - ad esempio nei salmi è l'immagine  dell'uomo sofferente, abbandonato da Dio:


דמיתי לקאת מדבר  (damithi liq'ath midhbar)

 somiglio a un pellicano del deserto (102, 6)

קאת (qe'ath) - pellicano - viene da alcuni collegato a קיא (qi') vomitare (così almeno il Brown-Driver-Briggs, per il quale il pellicano vomiterebbe dal gozzo il cibo per i suoi pulcini) ma forte è il sospetto che sia invece da unirsi a  קבב (kabab - pronunciato kavàv): rendere cavo, formare, costruire una volta, un arco, con riferimento a una tenda e quindi, credo, al gozzo; ma il verbo vale anche metaforicamente: maledire, esecrare - propriamente: perforare: col che si  ritorna all'idea del lungo becco appuntito. Insomma tutte immagini che in qualche modo, in ogni epoca, si adattano all'uomo e al suo continuo movimento interno/esterno, così come nel tardo ebraico si trova per esempio, sempre agganciato a questa radice, קוּבה, (qubba) lupanare, evidentemente prossimo all'arabo قبة  - qubba (alcova) [e tuttavia la "u" è lunga in ebraico e breve in arabo], comunque luogo chiuso e provvisto di volta (vedi anche l'italiano case chiuse ma anche l'idea del letto a baldacchino).

Nel mondo cristiano il pellicano (termone che tra l'altro proviene dal greco πέλεκυς, ascia - la forma del becco in certi momenti) non vomita il cibo per i suoi piccoli: si apre direttamente il petto, il costato, e offre qualcosa di pù prezioso, come nei due noti versi del Morgante del Pulci:

Quivi si cava il pellican dal petto
Il sangue, e rende la vita a’ suoi figli (14,51)

che dipende sicuramente, e in via diretta, dal Buti, e dal suo commento a Dante.

E sembrerebbe paradossale citare in mezzo a tanta prosaicità e ferocia proprio quei versi del Paradiso:

Questi è colui che giacque sopra ’l petto
Del nostro pellicano (25,2)

la dolcezza di Giovanni che posa la testa sul petto del suo amato Cristo, versi interpretati in effetti da Francesco da Buti in modo alquanto curioso: 

Pellicano è uno uccello, che nasce nell'Egitto, ed è bianco, e poichè ha allevato li figliuoli, e sono cresciuti, si levano li figliuoli contra lo padre, e la madre, e combattono con loro percotendoli nel volto, tantochè lo padre, e la madre gli uccide; e poi lo padre sta sopra li figliuoli, e dassi nel petto suo col becco, tantochè n'esce lo sangue, e spargelo sopra loro, e così li risuscita.

Curioso se si pensa che Cristo, in quanto pellicano, avrebbe i questo modo in un primo tempo ammazzato i  figli e poi col suo stesso sangue li avrebbe resuscitati. Meno curioso se si pensa ai sensi di colpa, nei quali affoga comunemente l'umano. Senmpre che non si voglia intendere per pellicano direttamente Dio: che fosse stato Dio Padre a "uccidere" l'uomo (a farlo precipitare nella dannazione). Un capovolgimento comunque rispetto all'immagine dei salmi da cui si è partiti, dove il pellicano è sempre è soltanto l'uomo (tra l'altro, il deserto di cui si parla nel salmo 102 è in ebraico מדבר (midhbar), che significa anche bocca, e se la bocca dell'uomo la si paragona a un deserto, non si direbbe niente di nuovo, e in tutti i sensi: sia per la sua aridità, per l'inutilità della sua parola (di cui è un esempio, oggi più che ieri, lo sciocchezzaio vomitato da politici, giornalisti, televisioni, internet, ma anche nel privato) sia per la sua effettiva grandezza, voracità infinita (bocca de ciavatta, a Roma, in inglese shut your big mouth) .



 

martedì 23 dicembre 2014

Frank Gehry, il decostruttivismo e il burka terapeutico

File:La Casa Danzante de Praga 1.JPG
Frank Gehry - Praga: Tančící dům (La casa danzante) - foto Kosovi, Wikipedia
 

Il decostruttivismo - cioè la teorizzazione di questo particolare agire in archiettura - è pura menzogna: è l'equivalente - se terorizzato - di qualsiasi forma di bassa retorica. Infatti non si capisce come si possa decostruire e costruire nello stesso tempo. O forse lo sanno gli epigoni di Derrida. E come poi faccia, teoricamente, un edificio decostruito a reggersi, è ancora, sempre nell'ottica della teorizzazione, un altro mistero.

Detto questo, gli edifici di alcuni di questi architetti sono veramente splendidi: fanno sognare, ti viene voglia di viverci dentro o di passare il resto della tua vita nelle loro vicinanze - ma devo dire mi attraggono in particolare molte delle cose che fa Frank Gehry. Alla maggior parte degli altri decostruttivisti in realtà non ho mai dato un soldo di cacio, compresa Zaha Hadid. E questo e tutto quello che saprei dire di certa architettura : mi piace, come sempre quando una cosa mi piace.

(Riguardo alla foto che ritrae Frank Gehry mentre alza il dito medio a un giornalista "stupido" c'è poco da dire. Nonostante la sua intelligenza visionaria, Frank Gehry, che ha ovviamente un culto sprezzante dell'intelligenza - anzi un culto al quadrato visto che è di origina polacca e i polacchi si sono sempre sentiti un po' più intelligenti degli altri, e visto che è di origine ebrea, e gli ebrei, soprattutto quelli che hanno sfondato il muro dell'anonimato, si portano dietro il mito della non assoluta criticabilità di ciò che fanno - conosce di se stesso molto poco se ancora non ha previsto che presto sarà terra difficilmente fertile per i ceci; anche se poi, aspettarsi un minimo di modestia pubblica da un qualsiasi artista non sarebbe certezza di niente, non renderebbe i suoi lavori più splendidi o meno splendidi. Il dito medio che a 85 anni suonati Frank Gehry alza contro un giornalista che gli chiede se la sua architettura non sia puro spettacolo è l'equivalente della passione che da sempre mostrano alcuni individui quando appassiscono: quella di farsi vedere in compagnia dei giovani - ma può darsi abbia seguito qui il suggerimento di Le Corbusier: l'importante non è rimanere giovani ma diventarlo. D'altra parte che ci vai a fare a queste conferenze piene di mestieranti della carta stampata se vuoi sentirti dire soltanto quello che vuoi sentirti dire? Per te, per curare il tuo inguaribile amor proprio, dovrebbe servire quello che proponeva una mia amica: il burka terapeutico per sei mesi e per tutti, uomini e donne - azni per immodesti non giustificati (vista l'età è un caso senza speranza) per il tenpo che resta. Non sarebbe forse bello presentarsi a una conferenza stampa in burka, preferibilmente bianco? il giornalista potrà chiedere quello che vuole: chi garantisce che effettivamente sotto il burka ci sei tu e non un inviato del Signore? occhio non vede cuore non duole. L'occhio del giornalista e il cuore dell'interpellato.

la resa dei conti: quella parola che non conosco.

L'altra sera tornando a casa mi è successo un fatto strano. Sulla porta a vetri della guardiola del portiere c'era affisso un foglio - che non hanno ancora tolto. "In qualità", si dice su questo foglio, " di proprietario dell'appartamento interno eccetera piano eccetera, comunico che inzieranno i lavori eccetera". Sono stato davanti a quel foglio a bocca aperta almeno un minuto, a cercare di capire una certa parola, una parola mai sentita. Proprietario. Mi sono detto, che vorrà dire 'sta parola? l'italiano un po' lo conosco e non mi dice niente. E' presa da un'altra lingua? Eppure ho bazzicato si può dire quasi tutte le lingue del mondo e del passato, magari alcune approfondite, altre meno, dal persiano, al cinese, al sanscrito, all'arabo, all'ebraico, allo swaili, per non parlare dell'insieme del ceppo indoeuropeo e del blocco ugrofinnico, con qualche nozione di varie lingue del Burkina Faso: dalla lingua more (che andrebbe pronunciato mòoré - un po' come dire amore a Roma - alla lingua dioula, parlata a Bobo-Dioulasso. la linga bobo, samo, peul, bambara: insieme, ovviamente, alla matematica, le lingue sono state, si può dire, la mia unica vera grande passione, fin da piccolo, sia perché pensavo che potessero mettermi in contatto col passato (latino, greco, accadico assiro, ebraico, sanscrito ecc.) sia che mi mettessero in contatto col futuro (matematica). Possibile che proprietario appartenga a una di quelle lingue che ho studiato meno, il cinese, per esempio, o il giapponese, e che questa parola la conosca proprio uno che abita dove abito io, dove non ci sono né cinesi né giapponesi? possibile che ancora ignori una nozione magari meravigliosa?

Sono risalito a casa e non ci ho dormito tutta la notte. La mattina mi sono svegliato e niente:  la parola proprietario non la conosco. Non mi dice niente. Sono stato tentato di scendere, strappare quel foglio (se non fosse che il nostro portiere è sempre così attento, preciso). Strappare il mezzo che contiene un'offesa palese alla mia esperienza. Alla fine mi sono detto, che per quanti sforzi, per quanti studi uno faccia, quante persone, quanti paesi veda, resta sempre fuori qualcosa. Non c'è niente da fare. Morale della favola, continuo a ignorare il senso di proprietario. Con un po' di giochi associativi riesco al massimo a pensare che da proprietario possa coniarsi un'espressione come proprietà privata. Ma verrebbe rigettata sicuramente dalla comunità dei parlanti. E il senso evidentemente, anche qui, mi resterebbe totalmente oscuro.

lunedì 22 dicembre 2014

I cieli senza la terra. Anticipazioni del Big Bang in Genesi 1,1

A un confronto con le ipotesi degli attuali cosmologi e astrofisici la cosmogonia giudaica sbaglierebbe di poco. Il libro della Genesi, col suo inizio grandioso, drammatico, tutto movimento e azione se solo lo si paragona con la non cosmogonia del Corano, la prima Sura, dove il creato è già dato e stabilito (مَالِكِ يَوْمِ الدِّينِ - maliki yaomi l-dini: al re del giorno del giudizio) o anche con l'inizio del vangelo di Giovanni, che potendo contare sui testi della tradizione si limita come per il Corano a definire una situazione già data, contemplativa, silenziosa (tutto è stato fatto per mezzo di lui), Genesi conterrebbe mi pare rispetto alle attuali visioni cosmologiche della fisica soltanto un termine in più, il quale matematicamente parlando, come in una sommatoria, potrebbe essere trascurato talmente è piccolo.

בְּרֵאשִׁ֖ית בָּרָ֣א אֱלֹהִ֑ים אֵ֥ת הַשָּׁמַ֖יִם וְאֵ֥ת  הָ אָֽ רֶ ץ׃  

(bereshit bara elohim et hashshamayim  ueet  h a a r e z)

il termine trascurabile è l'ebraico arez - אָֽרֶץ - terra: in principio Dio creò i cieli e la terra: ma sarebbe propriamente dare forma, come farebbe un artigiano da un qualsiasi materiale. Terra è femminile anche in ebraico, anche se ci sono esempi, e già nella stessa Genesi, di un suo uso al maschile, ad esempio in 13,16. L'elemento femminile, come nel caso di Eva, arriva per secondo rispetto all'elemento maschile: il cielo - שָׁמַי (shama) - maschile pure in ebraico, e che al singolare si trova usato mi pare solo in Deuteronomio 33,28, stessa parola, d'altronde, che in accadico assiro (shamu).

Fatti dunque i dovuti passaggi, Genesi non dovrebbe discostarsi molto dalle attuali visioni cosmologiche, dall'idea di un Big Bang iniziale. Ciò porterebbe a intendere Genesi 1,1 semplicemente come: in principio Dio creò (soltanto) i cieli, il nostro pianeta verrebbe (almeno momentaneamente) lasciato fuori - in fondo la terra non è che un complemento dei cieli (un riempimento, etimologicamente parlando): si possono immaginare i cieli senza la terra ma non la terra senzi i cieli.

Alcuni cosmologi ritengono ovviamente la nozione di un dio creatore assolutamente non coerente con quella di tempo: prima del Big Bang non ci sarebbe un tempo e quindi Dio non avrebbe (non sarebbe) una causa perché non c'era un tempo in cui quella causa potesse esistere. Ma è una strana sciocchezza a sentirla pronunciare da un genio come Stephen Hawking: se Dio ha creato lo spazio, avrà creato anche il tempo, cioè lo spazio tempo ed evidentemente può esistere anche senza tempo. E tuttavia la questione delle anticipazioni cosmologiche di Genesi, non cambierebbe. Basterebbe mettere Big Bang al posto di Elohim, il Signore.

domenica 21 dicembre 2014

la rondine e il ballo di san Vito dell'umanità


L’umanità in fondo non fa altro che passare da un'incertezza all'altra, saltare da un giorno all’altro, in attesa di qualcosa di felice che non sembra mai arrivare. E che non arriva perché non si smette mai di saltare, di occupare un luogo sempre differente. Così mai più a proposito potrebbe essere citato quel verso riportato dallo scoliasta di Platone:

'Οπηνίκ' ἄτθ' υμεῖς κοπιᾶτ' ρχούμενοι …

Quando alla fine sarete stanchi di saltare ...

aggiunto a sua volta al verso comunemente attributo a Chionide comico:

Πυθοῦ χελιδὼν πηνίκ' ττα φαίνεται

Infòrmati quando in qualche modo arriva la rondine.

Un proverbio in realtà variamente inteso nell'antichità: sia perché la rondine, come l'usignolo, ha un verso lamentoso e sembra soltanto portare guai, sia perché in effetti annuncia la primavera. Sempre che non si riferisca, il proverbio, a un certo Chelidone (rondine), telogo e indovino, come avrebbe detto Mnasea di Patrasso nel suo Periplo, secondo quanto riporta Fozio nel suo lessico.

Manuali universitari inutili e il trenta meritato

La maggior parte dei manuali universitari delle facoltà scientifiche è assolutamente inutile. Nonostante rispecchino un po' tutti una qualche visione altruistica dell'esistenza, una buona predisposizione pedagogica, si rivelano poi inutili essenzialmente per due motivi: primo sono scritti male, sono cioè incomprensibili, involuti, agganciati al mito superiore dell'intelligenza: danno l'impressione che l'autore non ha compreso affatto le questioni che tratta, si rivelano le sue tortuosità mentali  o quelle dell'autore da cui ha scopiazzato, il quale a sua volta ha pure lui scopiazzato (che è sempre un dramma per un manuale, soprattutto in meccanica analitica, e in generale in fisica teorica, perché lo studente è costretto a fare un doppio sforzo: cercare di capire un argomento già di per sé complesso e farlo attraverso le cervelloticità dell'autore); e poi perché anche quando sono scritti decentemente non riportano che banalità espresse in forma per lo più ellittica. Il che indica che l'autore teme il giudizio "alto", non sta scrivendo per lo studente ma per un suo pari, uno che come lui è già di casa con certe nozioni, se pure queste nozioni sono state capite, se le più elementari implicazioni sul piano intuitivo sono state comprese (pericolo sempre in agguato quando si ragiona costantemente in termini matematici, e che è sicuramente il risultato di un insegnamento della matematica e della geometria già alle origini, nelle scuole medie, pavoneggiante, avulso dall'osservazione dei fatti riguardanti la tecnica, l'arte e la natura, e quindi incapace di suscitare nello studente interesse per le proprietà delle figure geometriche, come faceva osservare gia nel 1949 Emma Castelnuovo nel suo Geometria intuitiva per le scuole medie inferiori, la quale per questo venne quasi linciata, accusata dai colleghi francesi di fare matematica "par les mains sales", con le mani sporche).

Dunque se uno studente di fisica o matematica è costretto (come sarebbe giusto) ad arrivarci da solo, che ragione ci sarebbe di scrivere un manuale? Basterebbe per esempio per le equazioni di Lagrange indicarle e chiedere allo studente di applicarle lui stesso alla meccanica classica, prima di utilizzarle in quella relativistica o nella teoria quantistica dei campi. Un po' di sforzo iniziale ma tanto di guadagnato alla fine.

Così quando feci a fisica, alla Sapienza, l'orale di analisi 1, l'ultima domanda era sulle approssimazioni delle funzioni per mezzo di polinomi. Il professore mi chiese dopo un po', annoiato dal mio ripetere a pappardella il libro di testo, qualcosa sulla formula di Taylor con resto. Gli dissi: "professore, questo in particolare non c'era nel paragrafo sulla formula di Tylor". E lui mi disse: "arrivaci da solo!". Mi prese un colpo, cominciai a sudare, dopo un po' attaccai, con una matita, a fare dei calcoli, a giustificare un passaggio dietro l'altro, ebbi proprio l'impressione che una mano esterna stesse guidando in quel momento la mia di mediocre studente. Alla fine misi giù la matita e feci un sorriso grosso come il sole. Il professorre, che era un famoso normalista, mi disse: "bravo!". E io dissi: "adesso ho capito, è così che si fa la matematica". E lui: "Certo! e io la ricompenso: le do trenta!"

sabato 20 dicembre 2014

ad modum cazzeggiandi. il talento e il successo

Il talento quando c'è è evidente, gli si potrebbe dare la forma di un'assioma, di una proposizione che non va dimostrata: ciò che va dimostrato sono i teoremi, che si costruiscono sulla base degli assiomi. Ad esempio: il talento è la facilità naturale con cui si esegue un'operazione. Questo è un fatto evidente e universale, che non necessita di dimostrazione. Ha quindi la forma di un assioma. Un primo teorema sarebbe: 1) il successo è indipendente dal talento. Questo fatto è meno evidente e va dimostrato. Date tutte le persone di successo, si prendano quelle persone il cui successo è stato costruito a tavolino (da un editore, da un agente, da un sistema di marketing potente e infiltrato, dalla stupidità umana). Di queste persone sia a il numero delle persone il cui successo è stato costruito a tavolino ma che hanno talento e b il numero delle persone il cui successo è stato costruito a tavolino ma che non hanno talento. Per definzione di talento, e considerato il gruppo b, si vede che il successo è totalmente indipendente dal talento.

A questo primo teorema ne segue un secondo. Sia c il gruppo di persone che hanno talento e che non rientrano nel gruppo a. Il secondo teorema afferma: 2) le persone che hanno talento e il cui successo non viene costruito a tavolino non avranno mai successo. Per la dimostrazione basta considerare che per definzione il gruppo c è differente dal gruppo a - le persone che hanno talento e il cui successo è costruito a tavolino  - ed è differente pure dal gruppo b, nel quale rientrano tutte le persone che hanno successo senza avere talento. Se il successo fosse indipendente dalla costruzione a tavolino, allora questo contraddirebbe il primo teorema, in quanto il gruppo a non avrebbe bisogno di un successo costruito a tavolino. Di conseguenza il gruppo c è totalmente escluso dal successo.


venerdì 19 dicembre 2014

Quando Leopardi toppava. fisica statistica e coscienza collettiva

La psicologia e la psicanalisi non sono altro che una collezione di strumenti grossolani e manipolatori sprovvisti di qualsiasi base strutturale, non in grado quindi, con tali presupposti, di rendere l'effettiva realtà dei movimenti interiori generati a livello molecolare e atomico. Alcuni scrittori riescono a descrivere in maniera incredibilmente sottile gli "stati d'animo", i passaggi continui tra uno "stato d'animo" e l'altro. Ma "stato d'animo" (o anche psicologia di un personaggio) resta una nozione dozzinale (la critica letteraria attinge a piene mani a questo tipo di "strumenti" critici): rivela nella sua infeconda genericità tutti i suoi limiti, dovuti essenzialmente alla mancanza di verificate corripondenze.

L'ugualmente generico concetto di forze d'attrito, ancora piuttosto in voga anche nei testi di fisica teorica, quanto meno quando si tenta di spiegare il senso di alcuni formalismi e astrazioni, si presterebbe molto meglio a definire i rapporti interpersonali: a determinare il visibile e il non visibile, se non altro per le sue più interne implicazioni fisiche. Una qualsiasi interazione tra due persone, nel momento in cui intervengono il corpo o la parola, comporta un tale sconvolgimeno "interno" (basterebbe misurare con un termometro ciò che avviene al corpo sotto la "spinta" della cosiddetta "invidia"), che il fatto può approssimarsi a ciò che succede a livello microscopico quando due superfici vengono a contatto generando calore, il quale non è altro poi che il risultato di una determinata media di tutte le interazioni elementari tra questi due corpi, quando il movimento viene passato ai cosiddetti gradi di libertà delle molecole e degli atomi - in più, la teoria degli errori, come si studia e si studiava quando studiavo fisica io e preparavo in laboratorio l'esame di fisichetta (esperimentazioni di fisica) starebbe lì in qualche modo a ricordarti che omnia munda mundis, che insomma la tua malafede è meno facilmente mascherabile con dei numeri. Una visione meccanicistica quanto si vuole ma ineludibile sul piano della concretezza sperimentale (chi ha detto che Dio è contro il meccanicismo visto che ci ritroviamo a fare i conti con l'immensa macchina dell'universo?)

La "scienza" psicologica, quindi, avrebbe tutto da guadagnare da un costruttivo mea culpa, se cioè iniziasse a considerare quello che effettivamente è stata finora: una grossolana descrizione di fenomeni macroscopici che non sa tener conto dei fenomeni microscopici, il cui unico strumento interpretativo non può che essere che la fisica statistica, quella che opera sulla nozione di media. In questo senso i moderni sondaggi - per quanto resi inutili dall'inguaribile guittismo dell'individuo, dalla sua insanabile tendenza alla menzogna, dalla sua insopprimibile paura - hanno posto le basi per una corretta impostazione del problema, modificando il generico concetto di "stato d'amimo" in quello di "coscienza collettiva". Naturalmente i risultati restano imprecisi: i fenomeni sono abbordabili ancora soltanto a livello macroscopico, come nel caso delle misurazioni elaborate da quei computer e programmi che misurano le reazioni di massa a eventi "epocali"; oppure c'è discrepanza tra risultati ed effettivo sentire, come nel caso della maggior parte dei sondaggi per la ragione accennata - problema che si era posto già san Benedetto nella sua Regola quando nella preghiera comune, nella salmodia, suggeriva che la mente (lo spirito) dovesse accordarsi con la voce (ut mens nostra concordet voci nostrae).

Ma intanto, in attesa di un perfezionamento di tali strumenti, l'uomo e la donna contemporanei continueranno a illudersi di possedere le chiavi della "conoscenza" dei propri movimenti interni, che ci siano "arrivati" da soli o con la guida di uno psicologo o di uno psicanalista. In questo Leopardi toppava completamente: l'uomo moderno viveva e vive tuttora come l'uomo antico, di magia e illusioni - tra le quali rientrano anche le poche "conoscenze" che gli vengono dalla volgarizzazione della scienza. L'unico modo in cui riesce a convincersi che l'ossessivo e arbitrario concetto hegeliano di progresso storico abbia un senso.

ancora sul processo indiziario. l'aspirina nel reggicalze

La formula del libero convincimento del giudice (la conviction intime dei sedicenti "rivoluzionari" francesi) è un'aberrazione di qualsiasi codice penale o civile che la contenga. Il giudice, in quanto uomo (o donna), e nonostante le motivazioni che dovrà addurre, può sbagliare o può essere influenzato dal denaro e anche dalla propria stupidità o prevenzione o antipatia dell'imputato (vedi quanto dice a proposito in un'intervista il meraviglioso giudice Michele Morello, consigliere al processo Tortora in appello ). I tre gradi di giudizo previsti dalla Costituzione sono un'ulteriore aberrazione conseguente all'aberrazione inziale: una cosa altamente sciamannata, un po' come una donna che sostituisce il bottone del reggicalze con un'aspirina. Nel frattempo, in attesa che si riuniscano in pompa magna gli impellicciati dagli stipendi d'oro, gli uomini e donne in ermellino, l'innocente, già condannato in primo o secondo grado, è stato esposto alla gogna disgustosa delle decisioni fasulle dei precedenti colleghi che hanno "giudicato" e della stampa e televisione oscena. Paradossalmente, la prova legale, che valeva prima dell'introduzione di questa aberrazione del libero convincimento, con tutti i suoi formalismi era l'unica strada da percorrere e da migliorare. In altri termini, una persona dovrebbe potersi condannare soltanto sulla base di prove assolutamente certe e il cui standard di certezza non può essere stabilito dal giudice, che dovrà semplicemente scendere dal piedistallo dell'onnipotenza nel quale si sente messo da Dio e limitarsi ad apporre un timbro a una sentenza già scritta da prove reali.  In dubio quindi sempre ed esclusivamente pro reo (altra formula che paradossalmente - in quanto ci convive - contraddice la giustezza della formula del libero convincimento e della prova indiziaria.

Il processo indizario è d'altronde fondato su una logica unitaria che ha sempre lasciato il tempo dove l'ha trovato - si possono facilmente immaginare milioni di casi di persone condannate sulla base di moventi che erano l'opposto di quelli reali o anche immaginati, quando l'imputato non ha commesso un bel niente. Ad esempio un uomo odia la moglie perché l'ha tradito (chiamiamo questa moglie Badilia, come in un episodio di Creep Show firmato da Romero). Badilia scivola su una macchia d'olio in cucina mentre ha in mano un coltello con cui sta trinciando la carne, col marito che aspetta e urla e scalpita nel soggiorno con la forchetta in mano (Badilia, I want my meat! I want it! - nello short di Romero in realtà Badilia è la figlia, chi urla è il padre padrone, che vuole la sua torta, e Badilia alla fine lo ammazza). Nel frattempo Badilia sta morendo o è già morta in cucina, caduta sul coltello che stava usando. Al processo il movente sarà la gelosia mentre è possibile che il marito avesse previsto di ucciderla ma non con un coltello, magari avvelenandola. Il movente qui semplicemente non esiste, perché non esiste il reato. Vai a spiegare al libero convincimento del giudice che Badilia è morta perché sentendosi agitata, incazzata col marito che le urlava da un'altra stanza ha finito per perdere la cognizione dello spazio e delle cose.

Allo stesso modo, prendere come prove consistenti le impronte lasciate sul lavandino del bagno dal fidanzato della vittima, o il dna sul reggiseno dell'amante, sono aberrazioni della "ragione" che discendono direttamente dall'introduzione di questa infamia del libero convincimento del giudice: anche quando si accumulano più "prove" di questo tipo nello stesso processo, perché zero più zero fa sempre zero (come diceva un famoso avvocato in un celebre processo fondato unicamente sul credo di una banda di pentiti, che s'erano messi d'accordo per alleviare le pene del carcere - ai giudici che così condannarono pure Lisia avrebbe fatto un baffo).

giovedì 18 dicembre 2014

il caso Garlasco e la condanna tanto per condannare

A domanda precisa di un conduttore televisivo all'avvocato di parte civile del processo Garlasco - "Avvocato, avete mai considerato l'ipotesi che il colpevole non sia Stasi ma che possa trattarsi magari, come suggeriva il professor Bruno, anche di una donna?" - il legale risponde nella maniera più tipicamente disarticolata e sprovvista di pensiero, senza nessuna logica se non quella motivata da un partito preso, che dà sempre, in ogni occasione, un'idea di cosa è il convincimento ideologico e il fondare le accuse su ovvi motivi di parte. "Capisce", risponde il legale, "nel momento stesso in cui noi chiediamo di anazlizzare un capello - e noi non possiamo sapere di chi è questo capello - è evidente che la parte civile ha sempre cercato la verità ovunque; però quando ti precludono accertamenti che vanno a 360 gradi quali quelli di accertare di chi è un capello, è evidente che a questo punto noi ci concentriamo sul soggetto nei confronti del quale vi sono seri e concreti indizi, come riconosciuto dalla Cassazione: non è questione di essere prevenuti contro qualcuno o di fare un accanimento giudiziario. Il discorso è che noi da anni chiediamo accertamenti che vanno in questa direzione ma che se concessi potevano andare anche nell'altra direzione."

In sostanza sta dicendo: no, non siamo prevenuti, siamo semplicemente prevenuti. Che è poi quello che succede in tutti i processi indiziari, quelli le cui sentenze spesso fanno ridere i polli. Diceva giustamente Francesco Bruno, il criminologo invitato al talk show: "io sono orripilato, qui si sta chiamando indizio schiacciante l'assenza di sangue sulle suole delle scarpe, mi sarei aspettato il contrario."

il principio di Hamilton, il calcolo delle variazioni e la fisica col calderone

E' difficile immaginare al di fuori del mondo ascetico un'umanita che segua la strada del massimo sforzo. Non c'è niente in natura che non segua un principio economico. E questo dovrebbe indicare che l'umanità porta memoria della sua originaria conformazione, del fatto di essere nient'altro che un ammasso di atomi. E' paradossalmente una delle nozioni più stuzzicanti per lo studente di fisica, di fisica teorica (e lo era anche per me, quella sulla quale confesso di aver battuto la testa per quasi un mese per l'esame di meccanica razionale: se riuscivo a capirlo sul piano matematico, delle integrazioni anche piuttosto banali della lagrangiana, della differenza tra energia cinetica e potenziale, non riuscivo a darmene una ragione ultima: perché dovesse essere proprio così in natura e non l'opposto, perché la natura debba essere così pigra quando invece sulla pigrizia da sempre pesano gli anatemi di morali e civiltà "progressiste", che come la nostra hanno il culto della natura (in questi casi la matematica non mi ha mai aiutato): voglio dire il principio detto di minima azione, il principio di Hamilton, che in fondo non è altro, attraverso una formulazione variazionale delle equazioni lagrangiane, che una generalizzazione delle leggi della dinamica newtoniana, un grosso regalo alla successiva meccanica relativistica e quantistica.

Per comprenderlo oggi lo studente robot può anche fare il consueto salto di astrazione, eliminare qualsiasi necessità di interpretarlo macroscopicamente, di renderselo visibile, di intenderlo indipendentemente dalle nozioni di ricerca di minimo e massimo dei funzionali, di quelle funzioni cioè il cui dominio è un insieme di altre funzioni: tenendosi insomma ben lontano dalla concretezza dell'esperienza (la fisica si faceva un tempo col calderone e ogni formula sembrava essere qualcosa di direttamente visibile, fatto ancora evidente, se vogliamo, quando questi primi problemi variazionali venivano posti, quando Newton si domandava, nei Philosophiae naturalis principia mathematica, che forma dovesse avere il solido di rivoluzione di minor resistenza, un proiettile di fucile eccetera).

E tuttavia, se non ci si volesse limitare alla matematica, del principio di Hamilton (come di altri principi della natura), secondo il quale di ogni sistema meccanico esiste un integrale S, chiamato azione, che risulta minimo per il moto effettivo e la cui variazione δS non può che essere di conseguenza nulla, non si può andare oltre una sua descrizione qualitativa, non si può andare oltre il fatto che in un sistema meccanico conservativo, tra tutte le traiettorie che un corpo in assenza di vincoli ha a disposizione per spostarsi da un punto a un altro, la traiettoria effettivamente seguita sarà quella più economicamente, in termini di trasformazione energetica, appetibile, efficiente. In natura l'azione (un numero che ha la dimensione di un'energia per un tempo) è minimizzata sempre. Perché poi sia effettivamente così lo sa soltanto Dio. Se si lancia un bichiere per aria, questo non si metterà a seguire una serie di traiettorie sul modello montagne russe prima di ricadere per terra, andrà direttamente al sodo. Lo sa soltanto Dio perché la forza di gravità agisce in questo modo. E questo è tutto quello che si può dire.

mercoledì 17 dicembre 2014

ancora sul pupazzo italico. il cervello degli alieni

Che l'Italia sia una Repubblica democratica fondata sul lavoro lo dice la Costituzione, ma credo che una più giusta definizione (se i padri costituenti avessero avuto migliore capacità sintetica) sarebbe stata: L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul ritorno del pupazzo. Il pupazzo in politica non è tipico soltanto degli italiani, ma a differenza di altri popoli, che non si interessano minimamente di politica (inglesi, francesi, tedeschi eccetera) e si ritrovano il pupazzo di turno per puro caso, gli italiani lo vanno a cercare, se lo scelgono, passano mesi se non anni o decenni a guardarlo in televisione, a leggerne sui giornali. Indicano cioè l'esistenza di un meccanismo nevrotico, una coazione a ripetere. In realtà sarebbe un fenomeno molto più vicino ai fondamenti di una certa natura idealizzata dai fisici - ad esempio in termodinamica esiste la definizione di trasformazione ciclica. Mi ricordo una delle mie letture preferite di quando ero studente di fisica al biennio alla Sapienza: un libretto di Enrico Fermi, Thermodynamics, che lui stesso ricavò dalle note delle sue lezioni di fisica teorica del 1936 alla Columbia University. Dice Enrico Fermi:

Transformations which are especially important are those for which the initial and final states are the same. These are called cyclical transformations or cycles. A cycle, therefore, is a trasformation which brings the system back to its initial state.If the state of the system can be represented on a (V, p) diagram, then a cycle can be represented on this diagram by a closed curve such as the curve ABCD.

(Particolarmente importanti sono quelle trasformazioni nelle quali lo stato iniziale e quello finale sono gli stessi. Sono dette trasformazioni cicliche o cicli. Un ciclo quindi è una trasformazione che riporta il sistema al suo stato iniziale. Se lo stato del sistema può essere rappresentato tramite un diagramma (V, p), allora un ciclo può essere rappresentato con questo diagramma mediante una curva chiusa, come la curva ABCD).

La curva chiusa disegnata da Fermi, a illustrazione del concetto di trasformazione ciclica (ma avrebbe potuto disegnarne di altri tipi) è una sorta di ellisse, come una palla da rugby, inclinata, una specie di cervello di forma oblunga, come uno potrebbe immaginarlo in un alieno, almeno secondo le descrizioni dei visionari, di coloro che li avrebbero visti.

la guerra tra rane e topi: editori contro scrittori ministeriali

Così alla fine editori e scrittori ministeriali (professori universitari) sono venuti ai ferri corti (tutto un didascalico e noioso articolo su Repubblica): i secondi accusano i primi di seguire unicamente il mercato, i primi accusano i secondi di produrre testi soltanto in vista dei concorsi - cioè saggi che nessuno leggerà e che non leggono nemmeno le commissioni d'esame (a parte andarsi a spulciare l'indice per vedere se il pavone di turno è stato citato) perché il vincitore di un determinato posto - lo sanno cani e porci - è già stato deciso secondo il sistema interno del baronaggio . E ci sarebbe da chiedere agli editori che lanciano adesso accuse al mondo accademico, in quale mondo hanno vissuto fino a ieri e dove si trovavano quando pubblicavano robaccia indigeribile che i dipartimenti universitari consegnavano direttamente alle redazioni (Mulino, Laterza eccetera). Gli scrittori ministeriali, i "professori" (quelli che vengono pagati dal Ministero) sono in questo genere di affari più puri, più prossimi alla semplicità delle cose: in effetti hanno sempre rigettato il mercato: hanno fin dall'inzio seguito il sistema che precedeva il mercato prima dell'invenzione del denaro: il sistema di scambio: tu fai vincere oggi il mio allievo, io faccio vincere domani il tuo. A non voler poi aprire una parentesi su quegli scrittori universitari (e sono una legione) che non hanno mai saputo tenere a freno la verga, che favoriscono o hanno favorito in passato non gli allievi ma le "allieve", il cui svergognato capobanda nel settore umanistico è stato fino a qualche anno fa un personaggio della "sinistra" che non conta nemmeno nominare, talmente dovrebbe essere noto a tutti. Su questo ho già scritto e riscritto a iosa

domenica 14 dicembre 2014

l'ironia e la mafia di Roma. Potentati economici a teatro

Non si riesce a capire in cosa consista l'ironia di un comico che prendendo spunto dagli scandali della "mafia romana" modifica una vecchia canzone - la società dei magnaccioni - e fa impazzire la rete. Ma i siti dei giornali titolano ancora e nuovamente: "si scatena l'ironia del web".

Credo di averlo già scritto: una società (lettori e produttori di babettii) che vuole fare della parola il centro della sua professione  o dei suoi interessi e non conosce il senso più elementare dei termini di cui si serve è una società che dovrebbe quanto meno andare a ripulirsi. Qui oltretutto non è nemmeno beffa, perché i mafiosi se ne fregano della tua chitarra di libero cantore: qui è soltanto il tuo meschino amor proprio che non sa tenersi distante, non sa prendere le distanze (questa sarebbe ironia) da una situazione piuttosto squallida e penosa per alcuni (i contribuenti). Quello che conta è che i giornali facciano il tuo nome, proiettino la tua bella trovata: te ne frega assai che questi papponi abbiano pappato.

Così, quello che diceva Pasolini un po' prima di morire (contenuto in un messaggio postumo, purtroppo ai radicali): "siate sempre irriconoscibili" (il senso era che il potere contro il quale lotti, scrivi, canti si approria di te e del tuo impegno) è esattamente quello che non interessa a questo Dado, a questo ultimo comico "impegnato": il cui lavoro viene megafonizzato proprio dai quei grossi siti (Messaggero, Repubblica, Corriere) che con tali trovate riescono a pompare l'utenza e a portare ancora più acqua al serbatoio degli introiti  (il Messaggero appartiene ai potenti Caltagirone, i noti ex palazzinari romani e oggi tra gli uomini più ricchi del pianeta) . Ecco la vera ironia sarebbe questa: che non solo non fai nessuna ironia, ma finsici per fare il gioco della parte che ha molti più soldi e interessi e ramificazioni economiche di coloro che attacchi. E sulla quale l'ironia  del web difficilmente si scatena, perché è proprio questa parte a determinare ciò che è ironico e ciò che non lo è. E che comunque - a giudicare dall'ignoranza crassa della lingua - non lo sarebbe in nessun caso.

bellezza e semplicità nella fisica

In un articolo del 1963 pubblicato su Scientific American e intitolato: "The Evolution of Physicist's picture of Nature" (sull'evoluzione dell'immagine che il fisico ha della natura), dedicato ai processi di simmetria e asimmetria delle equazioni, Paul Dirac dice che la simmetria quadridimensionale introdotta dalla teoria della relatività speciale non è esattamente perfetta ("is not quite perfect"), come apparirebbe dall'equazione della distanza invariante dello spazio tempo a quattro dimensioni

                            ds2 = c2dt2 - dx2 - dy2 - dz2

che può essere scritta anche invertendo i segni.

La mancanza di totale simmetria è nel  fatto che il contributo della direzione temporale (c2dt2) non ha lo stesso segno segno del contributo delle tre dimensioni spaziali (- dx2 - dy2 - dz2 ).

Si tratta nel caso della relatività speciale di un fatto quasi irrisorio ("not quite perfect") eppure l'asimmetria sui segni più e meno resta lì, evidente.

Più in generale il fisico dovrebbe secondo Dirac lasciarsi guidare dall'intuito e dalla "bellezza" (beauty), anche quando i suoi calcoli non concordano con i risultati dell'esperienza, e questo perché potrebbe non aver apportato le necessarie correzioni. Quando Schrödinger elaborò la sua prima equazione d'onda, l'applicò immediatamente al comportamento dell'elettrone dell'atomo di dirogeno e i risultati non collimarono con i dati degli esperimenti. Ma, difatti, all'epoca non si sapeva che l'elettrone possiede un numero quantico (o spin).

Così dice Dirac, parodossalmente:

"Credo ci sia una morale in questa storia (quella di Schrödinger): che è più importante avere bellezza nelle proprie equazioni che non preoccuparsi che collimino coi dati degli esperimenti" (I think there is a moral to this story, namely that it is more important to have beauty in one’s equations than to have them fit experiment) e aggiunge:

"se Schrödinger avesse avuto più fiducia nel suo lavoro avrebbe potuto pubblicare la sua equazione d'onda molti mesi prima e in una forma più accurata" (If Schrodinger had been more confident of his work, he could have published it some months earlier, and he could have published a more accurate equation).

Il merito (ma che scopo ha il merito in ogni campo se non quello di alimentare l'onnipresente amor proprio) se lo presero (almeno sul piano relativistico) Klein e Gordon e così è conosciuta oggi l'equazione.

Ma ancora, il punto di tutta la questione è un altro: se sia giusto come dice Dirac lasciarsi guidare dalla bellezza in fisica:

"se si lavora prefiggendosi lo scopo di ottenere bellezza nelle proprie equazioni e se uno possiede un ottimo intuito allora si è sicuri che la strada è giusta" (It seems that if one is working from the point of view of getting beauty in one’s equations, and if one has really a sound insight, one is on a sure line of progress).

Probabilmente no, non è giusto: è vero che la maggior parte delle equazioni conosciute esercita sul piano dell'immagine e dell'immaginazione un'attrattiva che può lasciare, chi sa leggerle (anche in traduzione) senza fiato (e mi succedeva quando ero giovane studente di fiisica e prima di imbarcarmi per la tangente in tutt'altra direzione e tipo di studi, e mi succede ancora quando leggo un articolo specialistico di fisica - ma non si può dire quanto questo entusiasmo non sia dovuto al delirio, al fanatismo al gusto dell'osservatore della formula. E' giusto parlare invece di semplicità più che di bellezza. Non vi è niente di simmetrico nella formula del secondo principio della dinamica classica, newtoniana:

                            F =  ma

qello che è vero è che è però di una semplicità sconvolgente. Ma l'equazione semplicità uguale bellezza lascia il tempo che trova: né bellezza è sempre semplicità né vale il contrario, e la dichiarazione di bellezza di un qualsiasi evento, apparizione eccetera è un fatto esclusivamente ideologico e manipolatorio (neanche soggettivo): così come un Giovanni Battista che predica nel deserto e mangia cavallette e si veste di pelli ispide appare bello in tutta la sua semplicità esclusivamente a chi ci vuol vedere la bellezza o a chi è stato educato a vedercela. Niente di naturalmente collegabile tra bellezza e semplicità. Pura ideologia.


venerdì 12 dicembre 2014

L'amicizia e la stima

Non si sa se sia preferibile l'amicizia alla stima. La stima comporta quella giusta distanza che manca sempre nell'amicizia: in entrambi i casi molto è dovuto all'abitudine.

Voila le portrait d'un homme - dice Stendhal nei Souvenirs d'egotisme - avec qui j'ai passé toutes mes matinées pendant huit ans. Il y avait estime, mais non amitié.

C'era stima ma non amicizia nonostante la lunga e assidua frequentazione.

E' il barone di Lussinge. E tuttavia anche la stima può col tempo lasciare il posto alla disistima:

Il ne commença à se détacher de moi et à être impoli dans le discours que lorsque la réputation d’esprit me vint, après l’affreux malheur du 15 septembre 1826.

Ci sarebbe da chiedersi che cosa apprezzasse Stendhal di Lussinge, un uomo basso, tozzo, tarchiato e che non aveva altra religione che il prezzo che metteva all'essere nato aristocratico. Un calcolatore nato (esiste una definizione di nobiltà che prevede invece assenza di calcolo), il contrario del bonapartista idealista e sognatore che era Stendhal:

toujours mal mis par avarice et employant nos promenades à faire des budgets de dépense personnelle pour un garçon vivant seul à Paris.

Ma aggiunge Stendhal:

possedeva una sagacia unica: nelle mie fervide e romanzesche illusioni io non davo che trenta (mentre il valore non era che quindici) al genio alla bontà alla gloria di tale o tal altro uomo, lui non gli dava che sei o sette.

(M. de Lussinge ... avait une rare sagacité. Dans mes illusions romanesques et brillantes, je voyais comme trente, tandis que ce n’était que quinze, le génie, la bonté, la gloire, le bonheur de tel homme qui passait, lui ne les voyant que comme six ou sept). Souvenirs, c. 2

mercoledì 10 dicembre 2014

Il pendaglio da forca. Giuda salvato

All'interno delle primitive comunità cristiane la morte di Giuda Iscariota è un tipico esempio di ricerca di un sicuro capro espiatorio. Il tradimento è narrativamente - in funzione di exemplum - più appetibile della semplice sobillazione. In realtà il vero mandante del massacro e dell'omicidio di Gesù fu il sommo sacerdote Caifa, l'ipocrita ammantato di ricche vesti, il pupazzo che ossequiava i Romani e che pagò senza ritegno i trenta denari. Il vero pendaglio da forca, quindi, a rigore, non avrebbe dovuto essere Giuda ma Caifa, o meglio: Yosef Bar Kayafa: Giuseppe figlio di Caifa, altrimenti noto come Caifa. L'aver presentato come pendaglio da forca Giuda ha portato molta acqua al mulino della propaganda. Senza contare che se non ci fosse stato il suo sacrificio (cose dette e ridette dalle più serie riflessioni teologiche) non sarebbe stato possibile nemmeno il sacrificio di Cristo. Insomma la particolare fine di Giuda è un dato irrilevante della missione di Gesù e Giuda sarebbe stato anzi il primo a dover ricevere il perdono. La sua morte violenta (soprattutto in presenza di un pentimento) contraddice totalmente il piano salvifico e getta una luce aberrante, carica di retorica di bassa lega (manipolatrice), sul cristianasimo delle origini. E' una delle prime deviazioni dall'originario messaggio di Cristo.

mercoledì 19 novembre 2014

tempo divino e tempo umano

Insistente è nel vangelo di Marco, il più arcaico, un ammonimento di Gesù ai discepoli, e poi agli uomini e alle donne che via via miracolava: bisognava guardarsi dal divulgare quei fatti. Che è un fatto abnorme. E l'unica spiegazione che si riesce a dare di questa sua "preoccupazione" è che la missione (l'insegnamento) aveva bisogno di tempo, e che il potere costituito avrebbe potuto "prima del tempo" bloccare tutto. Se la missione ha bisogno di tempo, Gesù, in quanto figlio di Dio non può più sfruttare un tempo divino ma deve muoversi secondo un tempo necessariamente umano. Insomma, avrebbe potuto, in quanto figlio di Dio, nascondere lui stesso ciò che veniva compiendo, e avrebbe potuto farlo sul modello delle narrazioni pagane, nelle quali un dio usava una nube per nascondre ciò che non doveva essere visto (la nube, quale strumento, quale medium, esiste anche nell'Antico Testamento, ripreso poi nel Nuovo - vedi ad esempio Daniele: "osservando nelle visioni notturne ecco appare sulle nubi del cielo uno simile a un figlio di uomo" - ma si limita a trasportare il divino lasciandolo ancora ben visibile, o comunque a farne sentire la voce, vedi per esempio il salmo 98: in columna nubis loquebatur ad eos - a loro parlava da dentro una colonna di nube).

E' questa la grande differenza tra paganesimo e cristianesimo, e che toglie al cristianesimo il sapore del mito e della favola, se si escludono i miracoli: l'assunzione da parte della divinità cristiana di un tempo esclusivamente umano. La missione va compiuta secondo tempi umani; diversamente, non tanto il paradosso, il miracolo, ma l'insegnamento non otterrebbe gli effetti voluti. E' una conseguenza del fatto che l'uomo per sua natura è condannato ad apprendere nel tempo (non ci sarebbe altrimenti differenza tra lui e Dio). Ogni insegnamento si svolge sempre per definizione entro tempi stabiliti. Non può essere impartito in un tempo infinitamente piccolo (divino), che appartiene invece alla visione estatica (e tuttavia, sulla questione della non narrabilità dell'esperienza mistica vedi quanto ho detto in un precedente post, L'uomo perfetto e l'obsolescenza di Dio).

mercoledì 12 novembre 2014

dell'umorismo

C'è un umorismo che nasce dall'affetto e un umorismo sgraziato. E quest'ultimo può nascere o essere innescato da un'infinità di sentimenti negativizzanti: astio, rancore, insoddisfazione, rabbia ecc., o anche dal comprensibile bisogno di brillare. In tutti questi casi di umorismo negativo e per così dire "innaturale" non si fa altro che salire su un palcoscenico reale o ideale. E questa è senz'altro la ragione per cui provo sempre poco interesse per i comici di professione: non mi interessa vederli brillare, non mi riguarda, non mi presto a fare da pubblico di nessuno e col tempo mi sottraggo sempre di più a qualsiasi forma di spettacolo: ci vedo semplicemente la messa in scena e l'isterizzazione dell'amor proprio.

Al contrario, l'umorismo carico di affetto scorre sempre con naturalezza e raramente è sprovvisto di charme. Nonostante i casi in cui può trasformarsi nel tipo di umorismo negativo, ad esempio sotto la spinta di un amore ostacolato da terzi. Come capita al gioviale Edoardo nelle Affinità elettive di Goethe:

Die freundliche Geselligkeit verlor sich. Sein Herz war verschlossen, und wenn er mit Freund und Frau zusammenzusein genötigt war, so gelang es ihm nicht, seine frühere Neigung zu ihnen in seinem Busen wieder aufzufinden, zu beleben. Der stille Vorwurf, den er sich selbst hierüber machen mußte, war ihm unbequem, und er suchte sich durch eine Art von Humor zu helfen, der aber, weil er ohne Liebe war, auch der gewohnten Anmut ermangelte. [XIII]

La sua socievole cordialità andò perduta. Il suo cuore era chiuso; e se per necessità era insieme alla moglie e all'amico non riusciva a ritrovare l'affettuosità di un tempo, a ravvivarla. Rimproverare segretamente se stesso gli diventava molesto, e provava ad aiutarsi con una sorta di umorismo a cui tuttavia, poiché era sprovvisto di amore, veniva a mancare pure la consueta grazia.