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domenica 5 aprile 2015

Practicing deceit

While skimming one of Gombrowicz's books I stumbled over this sentence by Zeromski : 'It is impossible to fight with what the soul has chosen.Like a vast amount of so-called aphorisms this Zeromski thing is total shit, unless one means by it that the necessary existence of the soul, with all its hypothetical qualities, has been proven, which is not the case. The Internet bazaar (Twitter nd Facebook) is crowded with such nonsensical items. One fashions an idea to produce logical monsters, there is nothing wrong with it, of course, such intellectual dishonesty is not intended to harm or get unfair advantage. Still the result is a practiced deceit. Sentences can be nonsensical yet they allow a certain understanding of ourselves (see on this, Wittgenstein, Tractatus).


mercoledì 28 agosto 2013

Disumano troppo umano. La luna di Goethe e le beffe di Carlyle





Selig wer sich vor der Welt 
Ohne Haß verschließt, 
Einen Freund am Busen hält 
Und mit dem genießt,
Was von Menschen nicht gewußt 
Oder nicht bedacht. 
Durch das Labyrinth der Brust 
Wandelt in der Nacht.


Felice chi senza odio
si separa dal mondo,
e tiene stretto un amico al cuore
e con lui gode
ciò che dagli uomini non è conosciuto
o è trascurato.
Nel labirinto del cuore
costui vaga nella notte.

Traduco qui i versi di chiusura di un ode di Goethe alla luna. Li ho ritrovati in una cartolina infilata in un libro dell'australiana Germaine Greer, la più famosa femminista del mondo. Non so nemmeno quanto li gradirebbe o apprezzerebbe oggi nonostante la luna sia da sempre un po' un simbolo femminile, materno, forse anche simbolo della compassione - e in passato Germaine Greer fu in effetti vittima di un suo gesto diciamo un po' troppo caritatevole: venne legata e selvaggiamente picchiata da una barbona che s'era portata a casa e a cui aveva dato coscienziosamente asilo. Donna contro donna: una poveraccia che voleva forse anche lei semplicemente mostrarsi condiscendente, compassionevole: comprendere il dramma interiore di una nota intellettuale, e può darsi che non sapesse o potesse farlo diversamente.

Questi versi di Goethe me li scriveva invece in quella cartolina anni fa - riproduceva un dipinto di Raffaello - un amico tedesco, col quale parlavamo e parliamo tuttora a volte in italiano a volte nella sua lingua a volte in inglese. Ha ereditato, questo mio sensibile amico, da suo padre un'immensa passione per la storia dell’arte e mi scriveva nella cartolina, per Natale, sotto quei versi, nel suo italiano appena tedeschizzato:

“Raffaelo quasi mai mi piace, Goethe anche – questi versi sono un grande eccezione”.

Quando iniziammo a vederci - ci conoscemmo poco più che ventenni in un bar di Schwabing - mi portò dopo un po' nella villa dei sui genitori subito fuori Monaco, una casa piena di scaffali, un riflesso dell’attività di famiglia, una grande casa editrice di libri d’arte. Mi disse allora, mentre ci bevevamo una coca cola in giardino e sentivamo in lontananza il rumore delle macchine agricole: "questi sono i veri rumori poetici ormai da cento anni, in campagna".

Da ragazzo mi sembravano poetici anche i piloni dell'alta tensione così solitari nei campi di fieno a maggio nella campagna italiana o quelli - visto che mi torna pure questa lontana immagine - di San Pedro in Calfornia, con sullo sfondo il porto industriale che allora mi pareva immenso. Come in fondo non potrebbero mancare di poesia oggi in città, per chi almeno ce lo vuol torvare, le continue sirene della polizia e delle ambulanze e gli ossessivi intermittenti blip blip e suonerie dei cellulari del proprio vicino in autobus o in treno, e gli schermi e gli altoparlanti a tutto volume che mitragliano notizie una dietro l’altra lungo le banchine nelle stazioni della metro e di cui non si fa in tempo a capire che relazione abbiano con la tua esistenza di ascoltatore forzato se non ti cali nell'elementare monotono meccanismo di imitazione rap.

Tiepolo, i cavalli del carro del sole

 Gli stessi suoni perciò a cui è abituato - e le stesse sirene che deve aver sentito - chi ha potuto vedere il corpo senza vita di quel ragazzo bianco (un australiano) ucciso in America da tre teenager (due neri e uno di sangue misto, che per l’America significa comunque nero). Un delitto sicuramente di stampo ideologico, prodotto di un miscuglio di vigliaccheria e odio razziale più che della noia, come faceva osservare giustamente un lettore che commentava questa notizia sul sito di un giornale: “Questo crimine commesso da tre amici", diceva questo lettore, "è una conseguenza diretta e necessaria del sistema capitalistico che mira unicamente a fare numero dividendo” E bisognerebbe aggiungere che mira a dividere in numeri pari e dispari. Era l’unico commento interessante, gli altri pregustavano un più o meno feroce rassicurante compiacimento al pensiero che questi ragazzi (o mostri) verranno con molta probabilità condannati a morte. Il più grande, diciassette anni, nelle foto segnaletiche appare alto non più di un metro e sessantatre.

E si riesce tranquillamente a immaginarlo l’ambiente in cui sono vissuti questi teenager americani: non certo l’ambiente familiare, l’ambiente familiare non c’entra più niente. Si riesce a immaginare l’ambiente in cui sono cresciuti perché è lo stesso in cui sono immersi oggi, nel 2013, dalla testa ai piedi, i teenager di tutto il mondo, dalla Patagonia alla Colombia al Canada, dal Sudafrica al Marocco, dall'India alla Nuova Zelanda all'Islanda e pure nel tecnologizzatissimo Giappone (dove a primavera volano dai ciliegi in fiore leggerissimi, delicati petali rosa all'interno di parchi che sono per contrasto un incanto di templi silenziosissimi), e pure nella tecnologizzatissima Europa, dove i teenager hanno però ancora qualche difficoltà a mettere mano su pistole e fucili o a guidare una macchina a soli sedici anni. E quale sarebbe questo umanissimo ambiente nel quale crescono i teenager di tutto il mondo? Televisione coatta, internet coatto, film nei quali l'unica forma di apologia concessa è quella di una spettacolare ostentazione della forza fisica e della violenza; e ancora autopsie offerte con contorni di pietose sceneggiature a colazione pranzo e cena, inseguimenti a duecento all'ora apprezzati con lo stesso sorriso con cui si segue la Formula Uno, trasmissioni morbosamente e accuratamente costruite su immagini di infinite telecamere di sorveglianza abilmente posizionate e quindi uccisioni e aggressioni sempre più in tempo reale. E in lontananza (o in vicinanza) i pacifici, sereni social network: FB, Twitter e YouTube, e le loro bachechine giornaliere, dentro le quali e grazie alle quali essere sempre indistintamente in primissimo piano, con l'illusione di arrivare a toccare quella stessa notorietà di cui godono i vip del calcio del cinema e della televisione (sicuramente perché sprovviste, queste very important persons, non meno dei loro imitatori da casa, di una qualsivoglia briciola di talento, con una notorietà costruita a tavolino o, nel caso dei loro imitatori, a forza di tags con cui posizionarsi bene nei motori di ricerca). E si può quindi immaginare che razza di risultato restituisca l’imitazione di un prodotto già scadente in partenza e in cui l'uomo reale va a farsi allegramente friggere in una padella senza manici. Che manchi effettiva concretezza e rigore - o che manchi il minimo accenno di compassione - a questo modo di guardare al dolore altrui è irrilevante: l'importante è mostrare un eccesso che comporti un ritorno, che l'immagine eccessiva, lo choc (e sarebbe meglio ormai scrivere shock), collezioni migliaia di mi piace: perché ciò che effettivamente conta non è il sacro silenzio col quale si entra nella casa dove c'è un morto, quello che conta è ottenere col video di una tragedia la stessa visibilità, in numero di click, che otterrebbe un vip twittando in 114 caratteri l'ultima idiozia che gli viene in mente dopo essersi grattato il sedere appena aperti gli occhi. Tanto che non si direbbe niente di campato in aria se si affermasse che l’unica patente e potente ideologia alla base di questo dissociante e narcisico uso dei social network è nutrire il già poco socievole amor proprio di ogni uomo e di ogni donna, di Adamo e Eva, che quando non possono postare immagini raccapriccianti di un treno che deraglia a tutta velocità contro un muro di cemento si conosolano comunicando al mondo che hanno appena mangiato un tramezzino coi carciofini o che la gattina ha fatto i figli ciechi.



Diceva l’ideatore di FB che in origine ci fu una semplice intuizione: la necessità che tutti noi avremmo di tenerci continuamente aggiornati su ciò che fanno i nostri amici. Così Socrate, che diceva che se anche la sua casa era piccola sperava comunque di riempirla di persone care, finirebbe per fare il classico baffo a un utente di un social network che oggi a quindici sedici anni può già contare su duemila amici in tutto il mondo (un imbattibile Nembo Kid, un vero ragazzo delle nuvole - così come Socrate fu rappresentato da Aristofane nelle Nuvole sospeso in alto nel suo canestrello che scrutava i poveri mortali). E mi sembrava quasi di vedere, guardando questa intervista a Zucker, la bava dell’amor proprio colare a rivoli, anzi a fiumi di preziosa porpora (e la bava - a meno che non sia quella di un setter dal pedigree purissimo - non arriva mai se non come sintomo di una qualche conosciuta patologia o di una visione priapica dell'esistenza). E il fatto che nell’intervista questo personaggio, questo nerd o ex nerd, non faccia che snocciolare numeri su numeri mentre celebra il suo amore per l'umanità non è altro che la riprova che sta illustrando un'operazione di puro marketing mascherata da istrionico filantropismo: l'individuo cioè ridotto a quel numero che è sempre stato agli occhi di ogni regime o potere che si rispetti; o nelle mani di ogni business concreto o virtuale che voglia farne un consenziente zimbello e la cui unica legge è di riprodursi e moltiplicarsi miracolosamente secondo i canoni della favoletta dei pani e dei pesci. E sempre per restare in tema faunistico, lo zimbello non sarebbe poi altro che quell'uccello legato a un'asticella e usato dagli uccellatori per adescare altri uccelli.

Mi viene in mente un’immagine di Thomas Carlyle da vecchio, il grande storico scozzese autore di Sartor Resartus e della French Revolution, che verso la fine dell’Ottocento ogni tanto saliva sull’Imperiale e andava a farsi una passeggiata all’aria aperta. Arrivava nei sobborghi di Londra, scendeva, si avvicinava alla dimora di questo o di quest’altro insaziabile magnate, si aggrappava alle sbarre del cancello e cominciava a saltare come una scimmia mostrando i denti feroci e famelici ai ricchissimi proprietari chiusi all’interno. Si faceva specchio delle loro brame. E forse in qualche modo si rifletteva anche lui nelle sembianze di quei carcerieri carcerati dentro le loro splendide dimore. Non è infatti improbabile - faceva bene Ford Madox Ford a ipotizzarlo - che anche Carlyle, e insieme a lui Ruskin, Wilberforce e gli Holman Hunt (i Preraffaeliti), e tutti quei vittoriani non ricchissimi ma ugualmente ossessionati da una certa idea di agio e di benesssere materiale, non è improbabile che avrebbero anche loro fatto di tutto per schiacciare il nemico, avrebbero perfino fatto ricorso al gas nervino, dice Ford Madox Ford, se solo avessero potuto inventarlo, contro i loro amici diventati rivali.

martedì 9 luglio 2013

Gli uccelli di Aristofane e i giornali italiani




Non ho molta dimestichezza con la politica italiana e non conosco i nomi dei politici italiani, salvo quelli di due o tre più famosi leader di partito e soltanto perché se ne parla sui vari giornali on line, dove si strombazza il tutto e il più di tutto, cioè il niente. E così oggi sono entrato dopo tanto tempo in uno di questi siti di giornali cosiddetti pappagallo: quei giornali che nascono a imitazione di

giovedì 9 maggio 2013

Retorica, oh cara bistrattata …


                                              Magritte, La Grande Guerre


Retorica è un termine che al borsino della Storia è definitivamente crollato, quantomeno a "parole": perché se pure è diventato sinonimo di tutto il peggio, di tutto ciò che è enfatico e vuoto, è difficile che prima o poi anche i suoi più ideologizzati nemici non ci sbattano anche loro il grugno. Una frase del tipo: curioso esercizio retorico, il tuo, trabocca di quella stessa retorica che si vorrebbe condannare, non fosse altro che perché si fonda su un'accurata scelta e disposizione delle singole parole: l’aggettivo curioso, messo all'inizio in funzione non epatica ma enfatica, segnala una tua superiore "sospensione di giudizio"; l’uso di esercizio, a cui si dai un valore negativo, segnala una tua supposta modernità, al passo coi tempi, l'accettazione di un certo linguaggio "oggettivo", "scientifico" (anche se poi ci si dimentica che proprio questa parola, esercizio, viene da sempre corteggiata e apprezzata all'interno del mondo ascetico: cioè in quel mondo che ugualmente, al pari della scienza, disprezza tutto ciò che è superfluo); e infine quell’indice puntato contro il colpevole: quel meraviglioso "tuo", posto ugualmente in posizione enfatica alla fine (i riflettori in una frase illuminano sempre le due estremità).

La retorica è stata ed è tecnica della persuasione: non c'è aspetto della vita di oggi, così tanto ossessionata da questa curiosa idea dell'originalità, che ne sia immune: dalla pubblicità a Twitter a FaceBook (che viene detto anche FakeBook) ai messaggini, ai più specifici rapporti intersoggetivi, nei quali è quasi sempre questione di manipolazione dell’altro, anche quando si resta muti e impassibili e si lascia tutto allo sguardo - per non dire di quando ci si scopre strabici ... E se poi lo strabismo è di Venere, se è divergente, allora sono guai anche più seri.

Amor che al cor gentil ratto s’apprende
mi prese del costui piacer sì tanto
che come vedi ancor non m’abbandona

E in effetti sono passati duemila e cinquecento anni dalle prime codificazioni della retorica, e retore in greco significa colui che parla, lo speaker, come anche si dice oggi quando si indicano i relatori di un convegno.. 

venerdì 3 maggio 2013

L'eta giusta per pubblicare e il ragioniere



                                     Seguier durante l'entrata di Luigi XIV a Parigi


Tentare di pubblicare per la prima volta sottintende - diciamolo subito - il desiderio di un riconoscimento: essere considerati dei pari: cercare in tutti i modi di inserirsi in un ambiente al quale ancora non si appartiene, nel quale ancora non si è stati ammessi. Ricordo anni fa un amico d'infanzia, col quale continuavamo a divertirci pure da adulti, mi disse: “adesso sono un personaggio pubblico!” Lo disse soddisfatto, senza nessuna ironia. Ebbi allora l’impressione, anche perché non era eccessivamente alto, di trovarmi finalmente di fronte all’incarnazione di ciò che fino ad allora conoscevo solo come termine di dizionario: un salapuzio. Smisi di cercarlo. In realtà il suo nome apparve per pochissimo tempo su certe locandine e per quel poco che ne so credo che anche in seguito non abbia ottenuto quella visibilità che forse inizialmente si aspettava. In più ha perso un amico. E me ne dispiaccio, perché insieme si giocava veramente bene, almeno nel modo in cui lo facevamo noi.

C’è inoltre in Italia - a parte un legttimo desiderio di "pubblicare" - una certa ossessione per l’età giusta, quella che bisogna necessariamente avere quando si pubblica per la prima volta, cioè attorno ai vent'anni. Il che mi sembra di buon auspicio se è vero quanto si dice da millenni: che chi muore a vent'anni è perché gli dei lo amano. Ma sia pure. Pubblichi a vent'anni. Sei forse Mozart, che a undici anni musicava l'Apollo e Giacinto? Cosa mi racconti poi nei tuoi romanzi scritti a vent'anni? il numero dei contatti che hai su FB? il numero delle cliccate ricevute o il fatto che “a quello l’ho proprio pisciato perché c’aveva solo 15 followers"? Può anche andarmi bene, e anzi mi piace, ma se me lo ripeti dalla prima all'ultima riga preferisco sentirlo dal vero.

Di Umberto Ecco si legge su un blog letterario la risposta che ha dato a un ragazzo che voleva inviargli un suo manoscritto. Quest'uomo ormai ai vertici della fama - il che significa anche fuori dell'Italia - con le mani in pasta dovunque (riviste, quotidiani, corsi universitari, saggi, romanzi eccetera), dice al povero e sconosciuto aspirante alla gloria che purtroppo non potrà leggerlo. La sua risposta è emblematica: è un paradigma di paradossale gesuitismo, dove cioè si ammette e non si ammette nessun relativismo. Avrebbe potuto tagliar corto e fare come Bacon, che al pittore che in un pub chiedeva se poteva mostrargli le sue opere dice continuando tranquillamente a bere: "non ne ho bisogno, vedo già dalla cravatta che porti che non hai nessun talento". Con piglio invece da contabile più che da professore erasmiano Eco squaderna la sua memorabile agenda e spiega quali sono i motivi del suo rifiuto. Praticamente la mancanza di tempo. La mia giornata è così regolata, dice Eco: 5 min. per questo, dieci per questo, 23 per questo, un’ora e venti per questo, 2 ore per questo. E suggerisce al futuro romanziere di inserirsi negli ambienti delle riviste e cominciare a poco a poco a fare gavetta.

Un mio collega all’università a Londra ma di un altro dipartimento, genio dell'informatica, una ventina d'anni più di me, un bel giorno che eravamo fuori per il lunch e parlavamo di Giappone e di architettura contemporanea mi dice all'improvviso: “ma sai, io fino a qualche anno fa non ero per niente conosciuto nel mio campo, mi ero sempre occupato di urbanistica, lavoravo in un semplice studio dietro King’s Road: poi a quarant’anni ho fatto un altro PhD e eccomi qua a cinquanta a insegnare quello che sai".

L’ossessione dell’età non è poi un fatto troppo curioso in Italia (che non è per niente il reame dei navigatori dei poeti e dei santi - e la Francia ha fondato da sola più ordini monastici lei che tutti gli altri messi insieme): una nazione, la nostra, interessata più alla “bella figura” che alla sostanza - altri segni evidenti di questa sibaritica confusione e incertezza mentale e intellettuale sono l’intricata burocrazia e il desiderio di leggere i propri fatti sui siti stranieri - cosa dicono ad esempio  il Guardian, Le Monde o il Frankfurter Algemeine o El Pais se l'ultimo dirigente di un partito se l'è fatta adddosso. C’è proprio da immaginarli i britannici mentre consultano i giornali stranieri per vedere se si parla di loro, nelle piccole come nelle grandi cose.  

Montaigne non pubblicò quasi niente, il suo diario di viaggio venne stammpato un paio di secoli dopo, e quando pubblicò la prima edizione dei Saggi aveva quarantasette anni. Stendhal, a parte alcune cosucce su Rossini e Cimarosa e altre amenità, diede alle stampe il suo capolavoro, Il rosso e il nero, a cinquant’anni, forse qualche annetto in meno, ma nel tempo perso si divertì alla grande e soffrendo anche per amore e ad ogni modo nella maniera che descrive magistralmente in una delle sue opere più belle, pubblicata postuma, Ricordi di egotismo

E per sfortuna di tanti autori che credono di aver toccato i primi gradini della fama, di avere svoltato, di essersi finalmente inseriti da qualche parte mentre tra qualche anno ne ritroveremo i tristi volumi accatastati nei remainders, oggi c’è internet, su cui pubblicano tutti, e tutti possono farlo. Se fossi stato quindi nei panni di Eco avrei detto a quel ragazzo: vediamoci da qualche parte e ci prendiamo un bel caffè e chiacchieriamo d'altro: per quale motivo prendersi tanto sul serio, cercare di entrare dentro un ambiente nel quale sai bene, a giudicare dalla lettera che mi hai scritto, che non ti accetterebbero, e all'interno del quale, ammesso che tu riesca a passare e fossi pure uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, saresti in compagnia di tantissima mediocrità ... Avrebbe usato anche meno parole, il ragionier Eco. Un gran risparmio sul suo prezioso tempo.
  

domenica 14 aprile 2013

La volpe e Barbie

                                                 Vasilij Ivanovic Surikov, ritratto della figlia

Alla cittadina Lombardi, portavoce del Movimento 5 Stelle, è successo un fatto strano. “Ieri sera mi hanno rubato il portafoglio dalla borsa”, posta su Fb, “ho perso tutte le ricevute delle spese sostenute finora: siccome è mia intenzione trattenere dalle voci di rimborso (come deputata) solo quelle effettivamente sostenute e documentate e restituire il resto, cosa faccio? Aspetto vostri consigli”.

Cosa fai … è una parola … Immagino sia la prima volta che ti succede una cosa del genere. Io credo che la prima cosa che farebbe un cittadino che (a differenza di te) conosca un minimo la vita, e che possieda inoltre un tantino di nerbo e non stia lì a fare gnegné ogni volta che gli cade una goccia di latte per terra, è  andare a presentare denuncia di furto presso i carabinieri o la polizia. Una volta fatto, non ti resta che affidarti alla buona sorte.

Ecco, il fatto che il parlamento, che il potere della politica, che in Italia dovrebbe essere l’arte della volpe - ma della volpe vera  - siano stati dati in mano con queste ultime elezioni a chi fa invece finta di essere il contrario di quello che dovrebbe essere, che siano stati consegnati a persone che chiedono on line consigli pure sul tipo di preservativi o di assorbenti da comprare, io lo trovo un fatto commovente: ha le forme di una politica in diretta, come una soap. Mi commuove questo popolo, mi verrebbe voglia di trasformarmi in una di quelle bambole che sbattono le palpebre dopo aver visto il principe azzurro. Ma non è forse un caso che i sostenitori della Lombradi questa volta le abbiano risposto: “ma le sembrano domande da fare?” E credo i messaggi fossero da loro stessi, dai sostenitori, un tantino censurati.

sabato 13 aprile 2013

scorregge profumate (lettera a Ferrara - Il foglio)


                                                    Leonardo, due teste


Gentile direttore,
il titolo dell’articolo di Piero Sansonetti, De senectute, sembrava far ben sperare i tanti poveri milioni di ultra settantenni di questo paese:  che avessero finalmente trovato una certo spazio proprio all'interno del Foglio, giornale dove normalmente si respira una salutare aria di sguardo obliquo. C’era già tutto, in quel titolo di Sansonetti: il richiamo a Cicerone, all’antichità, la saggezza dei vecchi, il fatto che gli antichi erano proprio grandi e rispettosi dell'età  ... Ma invece di quel pianto sul "come erano belli i tempi passati", di cui l’articolo gronda, ci saremmo aspettati, dall’ex direttore dell’Unità, un riconoscimento di ciò che al contrario è sempre stato e sempre così sarà: perché se Cicerone scrisse quel trattatello (che sarebbe poi un dialogo) in cui tesse in Catone l’elogio della vecchiaia, la ragione era che il mondo ai suoi giorni andava esattamente come ai nostri giorni: giovane era bello mentre tutto ciò che era vecchio era considerato per ciò che era: vecchio, puzzolente e turpe. Cicerone, d’altra parte, a 42 anni era già console, e nel 44, quando morì Cesare (e quando scrisse il de senectute), ne aveva 62, cioè 63 (anno del suo consolato) meno uno, mentre Catone nel dialogo immaginario ne aveva 83, cioè 63 più venti, che è l’età dei virgulti in fiore (anche se poi non si capisce perché le scorregge di un ventenne risultino ugualmente tanticchia pestilenziali).

A Guenon sarebbero piaciuti questi simbolici richiami ai numeri, tanto più che un certo riferimento a dei fiori appena sbocciati gli avrebbe fatto tornare in mente i Rosa-Croce (simbolo, la croce, a cui indulgono maggiormente gli anziani, e utilizzato nell’occidente cristiano anche sui coperchi delle bare), e ci avrebbe forse spiegato, Guenon, che la croce, associata alla rosa, ha in realtà, in certe raffigurazioni medievali, il suo esatto equivalente in una lancia (simbolo più giovanile), ad esempio nell’abbazia di Fontevrault, in Francia. Guenon queste cose doveva saperle per forza se iniziò prestissimo a studiare e a scrivere e continuò a scrivere fino a tardi, restando però da anziano il maestro che era stato da giovane: passando tra l’altro, nella sua lunga erudita esistenza, dal Cristianesimo all’Islam, per ragioni sue proprie che, come lei sa, niente hanno a che fare con la religione. Il fatto è che a distinguere così le generazioni, e soprattutto a citare a vanvera gli antichi, come fa Sansonetti, senza averli veramente bazzicati, si rischia di sbatterci il grugno.


   
                                          he- gassen - pittura giapponese sec. XIX

E se c’era un insegnamento da trarre, da un Cicerone che ormai vecchio si affretta a scrivere un libro sulle bellezze della vecchiaia, è che la vita gli stava appunto crollando addosso, come sta crollando addosso, vista l’età, a Sansonetti, che in quel suo pianto funebre per i bei tempi andati sembra ignorare ciò che più veramente conta dei racconti della Storia: che i novatori e i rivoluzionari di ogni tempo, vivono il tempo di una mosca, che si chiamino grillini o panterini o sessantottini o occupy wall street, e che perfino FB e Twitter, il massimo deli orgasmi quotidiani, saranno già domani superatissimi, e i tuittisti di oggi saranno considerati gli stessi matusalemme di oggi. Insomma, nessuno avrebbe mai potuto dire che “gallina vecchia fa buon brodo” se qualcuno prima di lui non avesse detto: “che nessuno tocchi il pollo”.
Cordialmente
Valerio Larena