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venerdì 16 gennaio 2015

l'amore per eccesso

E se l'amore fosse sovrastimato, sempre?

Così giustamente Saffo paragona a un dio chiunque guardi la ragazza che lei ama - ma è un paragone per difetto: "mi sembra simile a un dio" (phainetai moi): "mi sembra" non "è simile a un dio".

Anche al di fuori della passione e dell'innamoramento, l'amore si nutre fantasmi di dimensioni incommensurabili (non misurabili), anche quando riferito a un'altra persona e non a Dio. Che in una delle due accezioni dell'amore di Dio (quello di Dio per gli umani) questo sia ancora vero, che si tratti cioè di una sovrastima, è dimostrato dalla natura dell'uomo e della donna, dalla loro inestinguibile e congenita ferocia, quella che da sempre esercitano sul più debole e su tutte le altre creature (un errore di Dio averli creati). Nel secondo caso, nella seconda accezione dell'amore di Dio (quello che gli umani credono di sentire per Dio), è nella sua stessa definizione che si tratti di un amore sovrastimato, che eccede la misura.

Si potrebbe adattare a tutto questo discorsdo un aforisma persiano:

قطره درياست اگر با درياست ورنه قطره قطره دريا درياست 

qatré daryòst agar bo daryòst, varna: qatré qatré daryò daryòst (se almeno trascrivo adattando alla pronuncia)

 

una goccia è oceano solo quando è nell'oceano: in altre parole una goggia è una goccia e un oceano è un oceano

venerdì 24 ottobre 2014

l'abbassarsi cristiano e il restare in piedi pagano

La differenza tra i modi della libera religiosità pagana e quelli del più vincolante mondo cristiano potrebbe essere avvertita nel semplice accostamento di due testi lontanissimi nel tempo (ma si potrebbe prendere anche un testo cristiano dell'antichità, una lettera di san Paolo), uno francese e l’altro latino, in entrambi i casi viene usato uno stesso verbo (abiiciere/abjecter):

Or en Jesus nul au vray ne se fie,
sinon celui qui sous son bras puissant
en tous endroits s’abjecte et humilie (Clément Marot, Opusc., I)

Adesso nessuno ha fede in Gesù
se non colui che sotto il suo braccio potente
in ogni luogo si abbassa e umilia

e

Sic te ipse abiicies atque prosternes ut nihil inter te atque quadrupedem aliquem putes interesse? (Cic., Paradoxa stoicorum, 14)

E ti abbasserai e prosternerai a tal punto da mostrare che tra te un quadrupede non vi è nessuna differenza?

Entrambi gli esempi riportati nell’Archeologie française del Pougens, un testo tra l’altro ampiamente rastrellato da Leopardi, che lo cita spesso nello Ziba.

I versi da vaudeville del buon Marot, del libertino Marot, soltanto apparentemente inconcludenti e tautologici, indicano in effetti (è un po' il senso del loro sottilissimo e quasi invisibile sarcasmo - non aveva altri strumenti per non finire come De Sade sempre e nuovamente in galera), che il gesto religioso deve avere per alcuni lo stesso valore dell’abito religioso: un valore di continua testimonianza: un gesto di apparente umiltà, di vicinanza alla terra, quindi in effetti non per restarci (vedi quanto ho scritto nell'Inganno dell'ascesi e dell'invocazione delle sacerdotesse di Dodona). 

Così il martirio (testimonianza) non è altro, per la stessa ragione, che una somma isteria: la ripetizione dello stesso gesto fino alle estreme conseguenze, fino a sbatterci finalmente, come desiderato, il grugno. Lo stesso può dirsi in realtà della scrittura, di chi scrive (vedi Balzac che muore non per una peritonite che si complica in gangrena ma nella sua stessa opera, all’interno della quale si era già trasferito da tempo). Come tutte le forme di irrigidimento anche scrivere è un'isteria.

venerdì 27 giugno 2014

Il gioco del perché. Nota su Wittgenstein etico




La spiegazione scientifica è una tautologia. Non chiarisce assolutamente niente che non sia già osservabile nell'evento correttamente descritto; rende al massimo ragione, quantitativamente, di certi rapporti, permette attraverso una formula di misurarli. Ossessionata in effetti la scienza dall’eliminazione del garante esterno, di Dio, e dalla fuga della coscienza dalla trascendenza, e dovendo ripiegare su se stessa, servirsi soltanto degli elementi che costituiscono il fenomeno, che altro può fare se non spiegare il fenomeno attraverso il fenomeno stesso e incappare in un così elementare circolo vizioso che vedrebbe pure un bambino? la tanto ventilata oggettività va a farsi friggere, se è vero che per produrre oggettività, per definzione, c’è bisogno che gli elementi di un fenomeno siano osservati dall’esterno, ob-iectata, ripetutamente gettati davanti a sé, bisogna che non si auto-descrivano, che non siano autorefenziali, che non trovino riferimento necessario e sufficiente in se stessi. Dal che è anche ovvio, che chiunque si vanti di possedere una vera oggettività, non fa che introdurre, di necessità, un elemento trascendente all’oggetto osservato, cioè se stesso. In altri termini, quell’assoluto che vorrebbe negare

Inoltre, come dice Wittgenstein (che però mi pare non si accorge di cadere lui stesso nell’errore che critica) nelle sue Note sul Ramo d’oro di Frazer, è una qualsiasi spiegazione (non solo in ambito scientifico) a essere superflua e quindi inutile.

“Ich glaube dass das Unternehmen einer Erklaerung  schon darum verfehlt ist, weil man nur richtig susammenstellen muss, was man weiss, und nichts dazusetzen, und die Befriedigung, die durch die Erklaerung angestrebt wird, ergibt sich von selbst”.

"Credo che l’impresa di dare una spiegazione è già per questo motivo sbagliata, perché bisogna comporre soltanto ciò che si sa, e non aggiungere altro, di modo che la soddisfazione che si cerca tramite la spiegazione, si dia da sé".

Insomma Wittgestein, seguendo se stesso, avrebbe dovuto limitarsi al solo enunciato: ogni spiegazione è sbagliata, "non aggiungere altro", non dare nessuna spiegazione.

In più, la spiegazione, a differenza della composizione corretta degli elementi che di un fenomeno si conoscono e del semplice prenderne atto, non dà nessuna soddisfazione, e questo è tanto vero che fin dalla notte dei tempi il bambino non si ferma mai a un primo perché ma inizia a filare un'infinita interminabile catena. Il bambino domanda: perché, papà, questo fa questo? E il padre: perché è così e così. E il bambino: e perché è così e così?, e il padre: perché è collì e collì. E il bambino: e perché è collì e collì? E il padre: perché è collà e collà. E si andrebbe avanti veramente all’infinito se il padre a un certo punto non si mettesse a urlare.  Il meccanismo è ovvio: la spiegazione, ad ogni gradino ("every step of the way will find us with the cares of the world far behind us", dice la voce innamorata di Louis Armstrong), lascia il bambino insoddisfatto. Soltanto quando il bambino avrà un quadro più completo, una composizione degli elementi acquisiti, a quel punto (si spera) sarà adulto, non avrà più voglia di fare domande, gli basterà quello che vede, troverà fastidioso che gli si chieda il perché di qualcosa e ancora più fastidiose e inutili le risposte. Ma toccherà a lui, a quel punto, rispondere al figlio. Prendere nuovamente parte, a ruoli invertiti, al gioco perpetuo del perché.

giovedì 5 giugno 2014

tautologia, Cartesio e il Minotauro






In fondo una tautologia non è altro che una petizione di principio, la spiegazione di una proposizione fatta reclamando (richiedendo - petitio) tale e quale - o mediante una forma sinonimica - l'intervento di quella stessa proposizione. Senza averla quindi spiegata o definita ricorrendo a un qualche riferimento esterno.  E’ il cosiddetto circolo vizioso. Il meccanismo è lo stesso delle nevrosi ossessive e della coazione a ripetere, per come si definiscono nella psicanalisi freudiana – ad esempio un uomo cerca di risolvere una difficoltà ricacciandosi nella stessa difficoltà.

E’ sicuramente il dramma intravisto da Cartesio, il precipizio nei pressi del quale sa di muoversi o il tranello che mille e cinquecento anni prima gli era stato preparato dagli scettici seguaci di Agrippa, coi loro dialleli, che è un altro modo di chiamare le petizioni di principio:

"Si ha il diallele quando ciò che dovrà essere confermato riguardo alla cosa cercata ottiene garanzia della cosa cercata stessa." ( ὁ δὲ διάλληλος τρόπος συνίσταται, ὅταν τὸ ὀφεῖλον τοῦ ζητουμένου πράγματος εἶναι βεβαιωτικὸν χρείαν ἔχῃ τῆς ἐκ τοῦ ζητουμένου πίστεως).

O questo è almeno quanto si legge nelle Ipotesi pirroniane di Sesto Empirico (I, 169). Insomma io posso affermare, come i matti, di essere il re di Francia e dire: la garanzia del fatto che sono il re di Francia la do io e soltanto io. Che è quello che, a volte disgraziatamente per l'ignaro interlocutore, succede anche in alcuni film, come quando nel Marchese del Grillo, il marchese, vestito da plebeo e pescato a giocare a carte con certa teppaglia romana, al gendarme che lo vuole arrestare dice: "alt! io sono il marchese del Grillo e non posso essere arrestato che su ordine di sua Santità ecc.", e il gendarme, il bargello, risponde: "mecoioni! io so il comandante generale francese della piazza di Roma, amico intimo di Napoleone ecc.". Cartesio, che era un gran furbo, subodora la trappola degli scettici e dei gendarmi insofferenti di filosofia, e avendo bisogno di  dimostrare l’esistenza di una realtà esterna al pensiero, a un certo punto (così come sarà il capo della polizia a riconoscere il marchese del Grillo già arrestato dal bargello) taglia finalmente la testa al toro - o al Minotauro - e si munisce di un unico grande garante non più interno ma esterno, cioè Dio. Con buona pace di tutti.

martedì 27 maggio 2014

L'aristocrazia e la tautologia


La contessa de Chevigné, uno dei modelli di Oriane de Guermantes


Tautologia nell'aristocrazia proustiana. Oriane, principessa des Laumes, poi duchessa de Guermantes, una delle più grandi dame di Francia, durante una serata di gala in casa della marchesa de Saint-Euverte dice al generale de Froberville, parlando del mobilio stile Impero: "Mais ça ne peut être pas beau  ... puisque c'est horrible!" Non può essere bello perché è orrendo!

Oriane se ne frega dei legittimisti, del Legittimismo, il suo non è un giudizio politico e inoltre la tautologia si spiega non solo col fatto che ciò che è bello trova la sua definizione unicamente in sé stesso ma anche col fatto che l'aristocrazia, in ogni tempo, non ha mai dovuto dimostrare niente, sostenere i propri giudizi con delle prove logiche, intellettualmente, con dei ragionamenti articolati come facevano i Padri della Chiesa o gli Gnostici o la Scolastica più tardi, che cercavano di dimostrare teoricamente la Rivelazione, o alla maniera di tanti noiosissimi intellettuali di oggi. Come sarebbe bello passare cinque minuti in compagnia dell'affascinante Oriane, con tutta la sua ignoranza, che mette nel granaio i mobili Impero che Montesquiou ha lasciato al marito, e che barba invece la semplice idea di trovarsi nello stesso metro quadrato con uno dei tanti giornalisti e giornaliste e intelligenti che affollano i salotti televisivi italiani. 

giovedì 16 maggio 2013

Le corna


                                             George Frederick Watts - il minotauro

“Se ora non vado errando” (adotto di proposito il curioso intercalare usato coi giudici di Napoli da Giovanni Pandico, il grande accusatore di Enzo Tortora - e il pentitismo non mi pare altro che una forma di adulterio anticipato, il tradire la giustizia con la quale ci si sta sposando) il primo riferimento letterario alle “corna” quale simbolo di infedeltà coniugale si trova in Plutarco, nella Vita di Licurgo. In questo bellissimo opuscolo, scritto soltanto agli inizi dell’era cristiana, un cittadino spartano parlando secoli prima con uno straniero - che s’era meravigliato che a Sparta non ci fossero leggi contro l’adulterio - dice: “se uno di noi commettesse adulterio allora sarebbe anche in grado di comprarsi un toro talmente grande che potrebbe sollevare la testa, sporgersi al di sopra del monte Taigeto e bere qui sotto dalle acque del nostro Eurota.” E lo straniero: “E come potrà esserci un toro così grande?” E lo spartano, un certo Gerada, sorridendo: “E come potrà esserci un adultero a Sparta?”

Si tratta in effetti di un'implicita tautologia, che non a caso fa rima con taurologia: uno spartano è uno spartano. Eppure, grazie a questo Gerada, chiunque da allora sia stato scoperto a tradire il partner avrà provato a difendersi attaccando, e anzi a ricordarsi non solo di Gerada ma anche di Teseo (di cui parla ancora Plutarco) che nel labirinto prende il Minotauro per le corna.



Il paragrafo qui sopra è un esempio di come con le parole si possa dire tutto ciò che il parlante o lo scrivente ci vede o voglia vederci. Così il grande avvocato Coppola, in una delle più belle arringhe che siano mai state pronunciate in un tribunale dei nostri giorni - insuperata lezione di psichiatria forense - definì il grande accusatore e "pentito" Pandico un dubbio filologico: "Pandico!", disse Coppola: "il suo nome risulta dal fatale incontro di due lingue caratterialmente diverse: pan: dal greco pas pasa pan, che significa tutto: e il latino dico: dico tutto!"

L'incomprensione è il minimo che ci si debba aspettare se si portano le corna a tema del giorno, a comunicazione verbale, figuriamoci quando l'interlocutore è un giudice. Mi raccontava un amico monsignore di una vecchia causa per adulterio, un fatto accaduto parecchi anni fa in un paesino vicino Roma. Venne chiamata a deporre, dall'allora pretore, l'anziana domestica, che asseriva di avere assistito, inosservata (dal buco della chiave?) al "tradimento". Dice il pretore: "Allora signora, ci dica quello che ha visto". E la donna, al di là di ogni ragionevole dubbio "Ho visto tutto, signor giudice!". E il pretore: "Ha visto tutto che cosa?" La domestica ci pensa un attimo poi dice: "Signor giudice, come ho detto all'avvocato, quello gliel'aveva messo dentro!" "Ma signora", esclama il pretore, "ma come parla? ma parli per metafora, per cortesia!" E la donna: "Ma quale metà ffora e metà ffora: stava tutto dentro!"