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sabato 26 luglio 2014

la gentilezza di Cacciari e il disprezzo di Aristotele



Uno dei tratti salienti del carattere di Massimo Cacciari credo sia la gentilezza (quella che una volta si chiamava gentilezza d’animo). Dico: “credo”, perché non l’ho mai conosciuto: l’ho visto dal vero solo tre volte uno stesso giorno a Venezia, e tutte e tre le volte l'ho incrociato su un vaporetto, quando era sindaco, e sempre con la sua borsa di pelle che si lasciava indovinare piena di cartelle e documenti; non mi sono meravigliato quel giorno di vederlo così spesso: era evidentemente uno che da sindaco lavorava sodo, e che soprattutto non si serviva del motoscafo sperperando i soldi del contribuente: viaggiava insieme agli altri veneziani coi mezzi pubblici. Buon esempio per la cittadinanza. I veneziani non parevano nemmeno accorgersene, un uomo comunque famoso: era – ed è - un cittadino tra i cittadini. Dico ancora che “credo” che il suo carattere saliente sia la gentilezza ( nonostante i sui giudizi politici taglienti e nonostante l’aspetto apparentemente severo, dovuto forse alla barba, che rimanda sempre a un’idea di ascetismo, di distacco dal mondo) perché la fisiognomica (i tratti del volto, lo sguardo) non è un’opinione – diceva Valery che se non si fosse mai visto allo specchio, se non avesse saputo come era fatto si sarebbe riconosciuto ugualmente se si fosse visto in una fotografia, semplicemente osservando nel viso i segni che la vita vi aveva impresso.

Questa gentilezza di carattere di Cacciari (che può leggersi come il risvolto esterno della sua straordinaria cultura) – che evidentemente non collide con momenti di più contingenti e solenni incazzature (non riesco a immaginare che brutti quarti d’ora devono avergli fatto passare quando andò a fuoco La Fenice) - oltre che dalla fisionomia mi pare si colga anche in certe modulazioni della sua scrittura, ad esempio in quello che io considero uno dei suoi libri più belli, forse il più bello e senz’altro il più filosofico, il libro del pensatore, Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento, scritto ormai più di trent’anni fa, anche se poi rivisto. Si veda per esempio il capitolo sull’ineffabile, il riferimento a Agamben e a Wittgenstein, autori battuti e ribattuti, quel rimandare giustamente alle considerazioni di Agamben sulla dimensione dell’in-fanzia, cioè quella dimensione in cui non si proferisce ancora parola, quel vederlo come l’archilimite del mistico di Wittgenstein (che ne prevede l’esistenza alla fine del Tractatus), quel limite che permette al linguaggio di "definirsi correttamente",  e invece poi quel tratto di attenzione, di delicatezza col quale Cacciari cita le baggianate teologizzanti di Baget-Bozzo e Benvenuto su questo mistico di Wittgenstein:

ma per altri (come per Baget-Bozzo e Benvenuto, che affrontano il problema nell’ambito più strettamente teologico del dire o tacere Dio) l’ineffabile di Wittgenstein verrebbe anch’esso prodotto linguisticamente definendosi come funzione cardine di un decreto che sviluppato così suonerebbe: “io dico, io (qui) taccio”.

Aggiunge Cacciari con una grazia unica, disarmante:

ma non sta nell’essenza stessa del decreto la possibilità di essere trasgredito? e come va pensata allora la possibilità della trasgressione? (p. 135).

Verrebbe da dire, che il decreto di Baget-Bozzo e di Benvenuto,  nel caso venisse trasgredito, suonerebbe così:

“io taccio: io (qui) dico”

che non avrebbe più niente a che fare con l’inesprimibile, con l’ineffabile, ma con la ciarla perpetua.

Aristotele non andava troppo per il sottile invece nelle sue discussioni, e sicuramente uno dei tratti salienti del suo carattere, a seguire le modulazioni della sua scrittura, era il disprezzo dell’avversario se lo trovava cattivo combattente:

οὗτοι μὲν οὖν, ὥσπερ λέγομεν, καὶ μέχρι τούτου δυοῖν αἰτίαιν ὧν ἡμεῖς διωρίσαμεν ἐν τοῖς περὶ φύσεως ἡμμένοι φαίνονται (Metaphysica, 985a)

... questi dunque, secondo noi, e fino ad ora, considerano solo due delle cause che noi abbiamo distinto nei nostri scritti sulla natura

(nel caso di Baget-Bozzo e Benvenuto soltanto una causa, cioè Dio)

e lo fanno, dice Aristotele:

in maniera oscura, per niente chiara, nel modo in cui nelle battaglie agiscono quei soldati non esercitati. Anche questi infatti scorrazzano a destra e a sinistra e spesso menano anche dei bei colpi. Ma così come questi agiscono senza averne cognizione anche quelli sembrano non sapere quello che dicono, dal momento che non sanno farne uso se non modestamente.

(ἀμυδρῶς μέντοι καὶ οὐθὲν σαφῶς ἀλλ' οἷον ἐν ταῖς μάχαις οἱ ἀγύμναστοι ποιοῦσιν· καὶ γὰρ ἐκεῖνοι περιφερόμενοι τύπτουσι πολλάκις καλὰς πληγάς, ἀλλ' οὔτε ἐκεῖνοι ἀπὸ ἐπιστήμης οὔτε οὗτοι ἐοίκασιν εἰδέναι τι λέγουσιν· σχεδὸν γὰρ οὐθὲν χρώμενοι φαίνονται τούτοις ἀλλ' ἢ κατὰ μικρόν. Metaphysica, 985a)


O ancora, nella Fisica:

… e infatti le loro premesse (di Melisso e Parmenide) sono false e le conseguenze senza logica. Ma è soprattutto il ragionamento di Melisso a essere volgare e non crea problemi – una volta ammessa un’assurdità, tutte le altre procedono: in questo niente di preoccupante.

(καὶ γὰρ ψευδῆ λαμβάνουσι καὶ ἀσυλλόγιστοί εἰσιν· μᾶλλον δ' Μελίσσου φορτικὸς καὶ οὐκ ἔχων ἀπορίαν, ἀλλ' ἑνὸς ἀτόπου δοθέντος τὰ ἄλλα συμβαίνει· τοῦτο δὲ οὐδὲν χαλεπόν. 185a)

martedì 11 giugno 2013

invidia

Più che nei versi 109-111 del primo canto dell’Inferno (o più che altrove in questa stessa cantica), una più realistica descrizione delle alterazioni psico-fisiche che l’invidia produce in un qualsiasi invidioso Dante l'ha data nel Purgatorio, e in particolare in quel passo in cui Guido del Duca con estrema precisione gli descrive ciò che ha potuto di questa affezione osservare in se stesso. È in effetti non facile dover ammettere che all'invidia sia stata riservata - è il senso di questo percorso che Dante le fa fare dall'Inferno al Purgatorio - una specifica forma di espiazione. Non sembrerebbe esistere, infatti, pena sufficientemente grande per chi si abbandona a questa bestia spirituale che modifica l’aspetto esteriore di un uomo o di una donna nel modo che tutti sappiamo:

Fu il sangue mio d'invidia sì riarso
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m'avresti di livore sparso

Non vi è individuo che fin dalla più tenera età non ne faccia esperienza, se sant'Agostino nelle Confessioni dice di aver visto un bambino guardare con penoso livore un altro bambino, suo fratello; e alberga, questa invidia, più nel mondo intellettuale e degli scrittori e degli artisti che in quello dell’uomo qualunque: le università ne sono pregne e anzi proprio chi nel mondo accademico, a giudicare dalle capacità e dalla non comune qualità del suo lavoro, dovrebbe esserne immune, appare roso dall’invidia fin nel midollo, ne è plasmato nella fisionomia, modificato nel colore, come nei versi di Dante. Lo stesso dicasi di tutti quegli ambienti dove strumento professionale è la parola: giornali e televisioni prima di tutto, ma anche di quei luoghi dove la parola dovrebbe essere preghiera: comunità monastiche, diocesane ecc.

Che l'invidia sia trattata in Dante così contraddittoriamente (una volta le fa infestare l’Inferno un’altra il Purgatorio) non viene in realtà mai preso in considerazione nei tanti commenti inutili che i ragazzi nelle scuole sono costretti a leggere. Eppure questa sorta di duplice localizzazione dell'invidia era forse l'unico artificio a cui il buon Dante - che dell'invidia fu vittima - avrebbe potuto ricorrere se voleva che l'intero impianto della Divina Commedia non gli crollasse addosso: perché se l’invidia l'avesse messa soltanto nell’Inferno, non ci sarebbero stati né Purgatorio né Paradiso: avrebbe dovuto fare un unico calderone di anime in pena.